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Metariflessività: reflexivity on reflexivity

Nel documento PER/METTERE LE STORIE IN MOVIMENTO. (pagine 67-71)

Nel precedente paragrafo mi sono occupata di argomentare come la riflessività in pedagogia possa configurarsi come un posizionamento corporeo del ricercatore, che ha sede non tanto nella sua testa (pensieri/riflessioni), ma nella presenza e responsività del corp. Il ricercatore partecipa in modo autoriflessivo e sensibile alla ricerca, nella quale è (solo) uno dei sistemi

68 interagenti coinvolti. In questo paragrafo approfondirò questa dimensione epistemologica, che definisco meta-riflessiva, per spingermi a fondare una riflessività ricorsiva di secondo ordine -

reflexivity on reflexivity - dove non solo il ricercatore riflette sul proprio posizionamento

corpomentale, ma lavora per acquisire consapevolezza di quegli aspetti di sé che non riesce a percepire e riconoscere.

Dopo questo paragrafo riprenderò ad analizzare l’azione, la percezione delle differenze e il movimento per la riflessività incorporata, ma in questa sede mi preme concentrarmi su una questione epistemologica strettamente collegata alla riflessività incorporata in chiave sistemica. Si tratta del problema o condizione del punto cieco30. Secondo Ceruti (1989), generalmente gli esseri umani non sono consapevoli dell’esistenza di una regione del proprio campo visivo che gli occhi non vedono e che però non crea macchie nel campo percettivo. Questa idea viene da von Foerster, che basa la sua epistemologia sul concetto di “double

blind” ovvero “non vedere di non vedere” (Foerster, 1990). Più in generale, egli sostiene che

qualsiasi processo percettivo è inconscio, e in quanto tale ci sfugge. La posizione di von Foerster non è esistenzialista, ma costruttivista e dipende quindi da una scelta di posizionamento dello scienziato:

“[…] Rappresentare il mondo o costruire un mondo? A mio parere questo significa: è la mia esperienza la fonte primaria di conoscenza e il mondo ne è la conseguenza? Sostengo che non si può non rispondere a questa domanda. Non esistono esperimenti che dimostrino la correttezza di una di queste due posizioni. Perciò dipende da noi decidere. Io ho scelto la prima posizione secondo la quale siamo n o i a costruire il mondo, e mi prendo tutte le responsabilità che ne derivano . A mio parere la base dell’etica è questa convinzione di essere i costruttori del mondo. Non ha a che vedere con la morale che ti dice “tu devi” perché è il mondo la fonte dell’esperienza e il comportamento dell’uomo è obbligato. Se mi assumo la responsabilità delle mie azioni posso dire “io farò questo e non farò quello”, quindi questa posizione postula le basi implicite dell’etica.” (Foerster, 1990, p.10, corsivo mio)

La scelta epistemologica è anche, dunque, una scelta etica e implica per gli umani sempre un dialogo, una convivenza con l’altro, continua Foerster citando Buber:

30 Ceruti (1989) non definisce la questione del punto cieco con la parola “problema”, ma con il termine “conoscenza di secondo grado”, in effetti si tratta di una condizione – quindi non di un “problema”. Utilizzo quindi la parola “problema” in chiave sistemica riprendendo l’etimologia stessa della parola: proballein che significa “gettare oltre”. Ciò apre alla scelta di considerare le occasioni impreviste come opportunità che fanno andare oltre i limiti per uscire appunto dalla zona di comfort.

69 Contemplate l’umano con l’umano e vedrete la dualità dinamica, l’essenza umana

unita. Vedrete il dare e il ricevere, il potere di aggredire e quello di difendersi, la capacità di indagare e quella di reagire, due oggetti in uno che si contemplano a vicenda con azioni alternate e dimostrano, insieme, che cosa significa essere umani. Ci avviciniamo alla possibilità di rispondere alla domanda: Che cos’è un essere umano, quando arriviamo a vederlo come un sistema, nella cui dialogica, nell’unione costituita dalla mutua presenza, l’incontro dell’altro con l’altro è realizzato e riconosciuto in qualsiasi momento. (Buber, 2004, cit. in Foerster, 1990, p. 10 e seguenti)

Le teorie della cibernetica di secondo ordine alle quali faccio riferimento (nei lavori di Foerster 1974, Maturana 1987, Morin 1974 e Varela 1991), indicano che uno degli obiettivi del ricercatore è riconoscere le dimensioni relazionali e contestuali presenti nella sua ricerca. Si tratta di una trasformazione esistenziale, forse la più acuta e rischiosa, a cui mi sento chiamata: mi riconosco dunque ricercatrice come coloro che cercano e cercando costruiscono il proprio campo di ricerca. Ciò riconfigura non solo il campo d’azione nel quale mi muovo, ma la mia stessa modalità di pensarmi “ricercatrice” poiché implica la responsabilità etica di fare i conti con le molteplici contingenze dell’incontro con l’altro e con l’ambiente.

La critica epistemologica al dualismo mente/corpo che caratterizza la ricerca tradizionale trova oggi una corrispondenza nel lavoro degli scienziati sperimentali che tentano di comprendere il ruolo del corpo e del movimento nei processi emotivi e affettivi. Come ho messo in evidenza nel precedente capitolo, sono state le neuroscienze cognitive (Gallese, Keyers e Rizzolatti, 2004) ad aver messo in evidenza, oltre alla centralità del corpo e del movimento, il ruolo della simulazione percepita delle azioni e delle emozioni degli altri: in una parola la crucialità della relazione nel processo mentale. La mente relazionale, incorporata, situata in un’esperienza, non è ma diviene mentre il cervello fa. Il corpo dà ed è la forma della mente (Gallagher, 2005) attraverso il coordinamento relazionale tra le parti. In Bateson (1972) la mente è la forma del corpo. L’esperienza è quindi allo stesso tempo opportunità per conoscere il mondo e vincolo poiché sono le reti di relazioni che il nostro corpo sostiene in interazione con il mondo a generare la capacità di vedere, non solo, come ha sostenuto Foerster (1981), noi non vediamo di non vedere, ma come organismo conoscente, con i miei soli mezzi emotivi e cognitivi spontanei, vedo poco e forse male. Come umano, tuttavia, ho la possibilità di assumermi la responsabilità di ampliare la mia capacità di comprensione e scegliere di iniziare un percorso di conoscenza radicalmente incerto (Morin, 2015) e claudicante (Scardicchio, 2012). Lasciarsi condurre dalla deriva, scegliere di seguire

70 la strada aperta grazie all’exotopia significa definire la posizione riflessiva come fondamento etico per la ricerca pedagogica. Ma – mi interrogo - anche a costo di perdermi?

Nel precedente capitolo ho mostrato come questo processo di ricerca di un nuovo posizionamento riflessivo implichi la voce del ricercatore come presenza nella scrittura. Ritengo che la scelta di esplicitare consapevolmente il proprio ruolo e la propria presenza nel processo di ricerca sia da intendersi come una marca distintiva della meta-riflessività di secondo ordine, ovvero di una forma di riflessività epistemologica che connette azioni, percezioni, emozioni e pensieri incorporati del ricercatore e che è anche capace di ripensarli e riguardarli mettendoli in discussione continua - reflexivity on reflexivity. In questa direzione sento, come racconto negli estratti auto-etnografici, la fatica di fermare sulla carta la dinamicità dell’esperienza incorporata. Le parole allora formano la sintassi di un discorso ridondante, dove la scrittura è involuta: piena di periodi che si aprono su altri periodi e che tornano su se stessi senza dar cenno di volersi chiudere, come a fare da contrappunto al tema del prossimo paragrafo dedicato alla riflessività che si fa ricerca e desidera inserirsi nel dibattito pedagogico relativo all’agire educativo proponendo una particolare forma di riflessività tra narrazione e pensiero critico che integri la razionalità riflessiva (Striano, 2001) con il pensiero del cuore (Hillman 2002, Mortari, 2006b).

La necessità di un’epistemologia della riflessività di secondo ordine non è nuovo nel discorso della pedagogia italiana ed è chiaramente rintracciabile negli studi di Marco Dallari e Chiara Scardicchio alla quale mi sono liberamente ispirata per creare il mio personale posizionamento autoriflessivo che Scardicchio (2012) definisce con il termine di “Auto-Bio-Epistemologia”. Ricostruire la propria autobioepistemologia implica non solo il rischiaramento del ricercatore a se stesso - riflessività di primo livello – ma anche della sua ricerca e meglio, sostiene Scardicchio, della “partigianità della sua ricerca a ogni suo lettore/fruitore” (p. 49). Indagare il sistema di credenze entro cui si è impegnati rappresenta una postura biograficamente connotata e ricorsiva – riflessività di secondo livello per:

“provare a guardarsi da fuori, conoscenza previa del proprio paradigma e del suo contesto, provando ad accedere a quei metalivelli inviolati – disordine, circolarie t à , incertezza, contraddizione e residui non scientifici costretti a rimanere ai margini della ricerca tradizionale – che disegnano – delimitano – l’orizzonte – teoretico quanto prassico – di ognuno.” (Scardicchio, 2012, p. 50, corsivi miei)

Questo posizionamento equivale quindi a una consapevolezza di “bio-logicità” (p. 50) che costituisce un’epistemologia capace di comporre una visione della realtà di ricerca insieme

71 scientifica e estetica (nel paragrafo 4 approfondirò il concetto di estetica in chiave batesoniana). Le riflessioni che stiamo condividendo costituiscono secondo Marco Dallari (2007) uno dei nodi problematici e spesso contraddittori della vita accademica e dell’ambito stesso della ricerca scientifica:

“La ricerca si dice in ambito accademico, e non solo, è scientifica, e questa parola fatale, col suo portato di strumenti, metodologie, norme, procedure e validazioni sembra allontanare da sé e dal ricercatore la dimensione soggettiva e sempre relat iva all’identità. Ma non è così poiché la curiosità, le scelte, la dimensione sempre contestuale e situata del ricercatore, fa sì che non solo procedimenti e risultati siano influenzati da ciò che ognuno di noi è, ma che qualunque sia l’oggetto nominabile a freddo della ricerca, ciò che il ricercatore sta cercando e costruendo è sempre (anche) la sua identità di ricercatore.” (Dallari, 2007, p. 12, corsivi miei)

Se il sapere pedagogico intende superare il modello dicotomico cartesiano come teorizzato nel precedente capitolo occorre saper creare una prassi riflessiva capace di creare e realizzare ricerche “con caratteristiche di autenticità” (Dallari, 2007, p.12) dove l’esito di una ricerca tra narrazione e pensiero critico arricchisce, non solo la soggettività del ricercatore, ma diviene, vista l’originalità del lavoro, anche fonte di conoscenza nuova per le istituzioni accademiche e professionali. Per questi motivi, nel prossimo paragrafo, dimostrerò il valore dell’affrontare la sfida dell’idea di riflessività embodied per chi ha una formazione accademica, e la risorsa, in termini di credibilità, fondatezza, innovazione e creatività che questa può garantire alle istituzioni nelle quali ricercatori autoriflessivi e sensibili svolgono le loro attività.

Nel documento PER/METTERE LE STORIE IN MOVIMENTO. (pagine 67-71)