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Nei capitoli precedenti abbiamo visto come l‘arrivo dei migranti e la loro sovrarappresentazione in contesti criminali siano legati da un filo conduttore, spesso più che evidente (è il caso di quelle testate più apertamente ostili all‘immigrazione): i due argomenti vengono configurati e tematizzati in sostanza come una minaccia per la stabilità e l‘ordine pubblico del paese. I due discorsi si sovrappongono e si compenetrano e le risposte formulate dall‘élite convergono verso ipotesi e regolamentazioni sempre più restrittive e dal forte valore simbolico: controllo dei flussi, respingimenti in mare, schedature, carcere ed espulsione.

L‘ingresso dello straniero portatore di valori, abitudini e pratiche sociali profondamente altre e nuove è stato, e tuttora è, visto come una minaccia identitaria, più simbolica che effettiva; da qui l‘esigenza di allontanarlo alla frontiera116 e relegarlo ai confini, in nonluoghi (Augé 1992) come i centri di accoglienza o di identificazione ed espulsione o, in ultima istanza, nelle carceri.

Tuttavia, nonostante le misure prese dagli anni Novanta a oggi per tentare di arginare il fenomeno migratorio, esso si è inevitabilmente imposto nella realtà dei fatti. Nelle prossime pagine cercheremo di riflettere, dunque, su un altro fondamentale aspetto del problema: cosa succede una volta che gli stranieri hanno varcato il confine e si trovano a convivere con la popolazione autoctona?

La segregazione sociale e materiale dei migranti (difficoltà, quando non impossibilità, di ottenere documenti in regola, di richiedere materialmente l‘asilo politico per chi ne abbia il diritto; difficoltà a ottenere un lavoro regolare o regolarizzare la propria posizione) prende forma in una serie di altri confini spaziali: le periferie urbane, le aule scolastiche, i capannoni abbandonati adibiti a dormitori per la manovalanza.

Vittorio Cotesta ha teorizzato che il crescente conflitto etnico diffuso durante gli anni Novanta si manifestasse come un nuovo tipo di conflitto metropolitano (Cotesta 1992, 1995, 1999). Sono le grandi città e i capoluoghi ad attrarre maggiormente i migranti, richiamati

116 O ancora prima che vi arrivi materialmente, grazie agli accordi bilaterali con la Libia nel 2009 le

motovedette italiane furono autorizzate a pattugliare le acque territoriali libiche per fermare le traversate dei migranti provenienti dal Nord Africa.

Diritti o privilegi

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dalle più ampie possibilità materiali e dalla possibilità di «poter meglio realizzare il proprio progetto migratorio» (Pendenza 1999: 480). Non va dimenticato, infatti, che migranti non sono solo coloro i quali, con un atteggiamento spesso pietistico, vengono definiti ―disperati‖ o i richiedenti asilo (cfr. cap. 2), ma sono anche uomini e donne alle cui spalle vi è un progetto ben definito di ricerca di migliori condizioni di vita, di riconoscimento e valorizzazione delle proprie competenze e del proprio capitale sociale117.

Una maggiore concentrazione degli immigrati in città, seppure di grosse dimensioni, non comporta una generale diffusione degli immigrati su tutto il territorio cittadino, ma una inevitabile concentrazione in specifiche aree della città (quartieri, rioni, borgate), specie quelle più marginali. Ciò ha ovvie conseguenze sulla percezione circa la qualità della vita, con un latente, spesso manifesto, aumento del ―malumore‖ tra gli abitanti locali (Pendenza 1999: 481).

Tuttavia, gli ostacoli – anche e soprattutto di natura burocratica – incontrati durante le fasi di ingresso spingono la gran parte degli stranieri in condizioni materiali che definire precarie sarebbe per lo meno eufemistico118.

Il difficile processo di integrazione ha trovato risalto in alcuni studi sul rapporto tra media e immigrazione già nella seconda metà degli anni Novanta (Cotesta 1995; Bracalenti, Rossi 1998; Gallotti, Maneri 1998; Dal Lago 2009 [1999]; ter Wal 2001). In questo periodo, non a caso, uno dei temi ricorrenti delle analisi sociologiche riguarda il rapporto tra comunità autoctone e nuova presenza degli immigrati nei quartieri, dove un ruolo importante viene

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«Gli individui che riescono a emigrare nel Nord del mondo non sono, infatti, quelli colpiti dalla massima ingiustizia; non vengono dai Paesi più poveri, né sono i più disperati, non sono quindi coloro che più dovrebbero ribellarsi contro la sorte e verso i quali più forte dovrebbe essere il nostro debito morale. Per emigrare servono coraggio e iniziativa, ma non bastano: occorre avere anche salute, soldi per il viaggio, spesso entrature e risorse per corrompere; si devono possedere reti di conoscenze e capacità organizzative che non s‘improvvisano. Inoltre, una quota d‘immigrazione Inoltre, una quota d‘immigrazione riguarda lavoratori dotati di buon capitale umano, che non sarebbero necessariamente destinati alla povertà nel Paese di origine, ma che emigrano perché vorrebbero rendimenti più alti da quel capitale: infatti lo ritengono ingiustamente poco valorizzato in patria» (Zincone 2010: 759).

118 È stato notato (Cotesta 1995) come questa situazione abbia risvolti negativi non solo dal punto di vista

delle condizioni materiali (degrado, micro-criminalità), ma anche dal punto di vista dello status e della difesa delle proprie identità socioculturali. È da situazioni come queste che derivano maggiormente i casi di aperto contrasto tra i gruppi, che sfociano in un razzismo manifesto, sostanziato da un‘immagine dell‘Altro come inferiore, arretrato e immorale. Si vedano a mo‘ di esempio le ricostruzioni delle rivolte di Rosarno contenute in Orrù (2014a) e Osservatorio Carta di Roma (2010).

Razzismo quotidiano

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spesso giocato dai comitati spontanei, più o meno organizzati, di cittadini che si oppongono al degrado rappresentato dai nuovi arrivati. Il sostanziale stato di abbandono delle periferie119 ha favorito l‘insorgere di conflitti sociali, quella che nel linguaggio comune viene spesso definita ―una guerra tra poveri‖, alimentata da un discorso politico sempre più crudo e violento (ter Wal 2001).

A tutto ciò vanno sommati gli scontri, mai risolutivi, sulle questioni legate al diritto di cittadinanza120 e di voto o sulla libertà religiosa; aspetti tutt‘altro che secondari per la vita di molte persone, ma a lungo relegati ai margini del dibattito pubblico e dell‘informazione. Gli aspetti legati all‘integrazione, alla convivenza e alla cooperazione tra i gruppi sono tra i meno notiziabili, in uno scenario dominato da criminalità e sbarchi121.

2. Rapporti di vicinato: il degrado e l’esasperazione