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Confronto sulle origini della Caffaro e dell’Icmesa.

Un confronto possibile?

4.1 Confronto sulle origini della Caffaro e dell’Icmesa.

Un’analisi relativa alla nascita e allo sviluppo delle due fabbriche sul territorio, offre la possibilità di comprendere alcuni elementi essenziali, al di là della distanza cronologica che le separa. Va ricordato, infatti, che la Caffaro fu costituita nel 1906 mentre l’Icmesa a Meda fu fondata nel 1945. Un divario di quasi mezzo secolo che, tuttavia, non ha comportato sostanziali modifiche nella cultura con cui tali fabbriche sono state accolte, ognuna, nel proprio territorio.

Innanzitutto, le due fabbriche furono costruite in un territorio dalle caratteristiche simili. Infatti, Brescia e Meda, presentavano svariati fattori favorevoli per lo sviluppo industriale come una serie d’infrastrutture che permettevano di comunicare, sia con Milano e l’Italia Settentrionale, sia con la maggior parte delle nazioni europee. Un vantaggio che fu alla base della scelta di quei luoghi, soprattutto, per l’Icmesa di Meda, ma, anche per la Caffaro di Brescia.

Brescia e Meda, come la maggior parte delle realtà industriali dell’Italia, attiravano l’immigrazione interna nazionale proveniente, principalmente, dall’Italia meridionale e del veneto426, forza lavoro che si recava in quei luoghi, in quanto offrivano possibilità di lavoro più vantaggiose rispetto ai paesi di provenienza427.

In entrambe le località nel momento della costituzione delle due fabbriche, anche se in contesti temporali differenti, era in corso una trasformazione e molti lavoratori del settore agricolo e artigianale si stavano dirigendo verso quello industriale che garantiva una maggiore occupazione. Certo, per quanto riguarda Meda, lo sviluppo industriale era già stato avviato negli stessi anni della costituzione della Caffaro, cioè all’inizio del Novecento, tuttavia gli eventi della Seconda Guerra Mondiale avevano costretto il comune di Meda a riavviare il processo industriale attraverso la costituzione di nuove fabbriche, poiché la guerra aveva comportato un periodo di stasi per l’industria in generale. Inoltre, Meda, come il resto dell’Italia, soffriva il ritardo nello sviluppo industriale

426

Ascoli U., Movimenti Migratori in Italia, il Mulino, Bologna, 1979, pag. 109.

che coinvolse tutto il nostro paese428. Un problema, questo, che si cercò di risolvere, probabilmente, secondo quanto afferma Saverio Luzzi con una politica di “produzione dequalificata, a basso valore aggiunto, con un minor costo della

manodopera rispetto agli altri paesi europei e ospitando produzioni industriali molto inquinanti429”. Un tipo d’industrializzazione, dunque, che comportò la

mercificazione dell’ambiente, in tutti i suoi aspetti430.

La necessità di nuove industrie fu avvertita, anche, dal mondo operaio che considerava la costruzione di nuovi stabilimenti un fattore positivo in sé, capace di garantire nuovi posti di lavoro che offrivano migliori condizioni lavorative rispetto ai settori artigianali dell’agricoltura e dell’artigianato431. Il lavoro in fabbrica, infatti, per quanto fosse considerato un lavoro estenuante, garantiva privilegi che in altri settori non erano assicurati. In primo luogo, il fatto di lavorare in una dimensione comunitaria, simile a una grande famiglia, con lo sviluppo di un forte senso di appartenenza. In secondo luogo, la possibilità di avere un lavoro qualificato che, specialmente agli inizi del ‘900, offriva l’opportunità di cercare le migliori condizioni lavorative garantite dalla specializzazione operaia432.

La necessità di attirare nuovi stabilimenti industriali veniva vista come l’unica soluzione per cercare di risolvere il problema della forza lavoro inoccupata; e tale elemento spinse le amministrazioni comunali di Brescia e di Meda ad accogliere rapidamente le richieste di costruzione di nuovi stabilimenti industriali, considerando che essi erano accompagnati da promesse di lavoro per centinaia di persone. Tuttavia, in alcuni casi, per far fronte a tali richieste, fu necessario eludere, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, alcune norme, come ad esempio quella sulle industrie insalubri.

Su questo punto è necessaria un’analisi che cerchi di dare una risposta al perché le due fabbriche non furono costruite lontano dai centri abitati, alla luce di quanto disposto dalla legge sulle industrie insalubri. Ricordiamo che questa legge

428

Luzzi S., Il virus del benessere: ambiente, salute, sviluppo nell’Italia Repubblicana, Laterza 2009, pag. 135. 429 Ibidem. 430 Ibidem. 431

Germano M, Geoffrey J. P., Ferruccio R., Lavoro e società nella Milano del Novecento, Franco Angeli, Milano, 2009, pag. 182.

prevedeva l’obbligo, per le fabbriche incluse nella prima classe e quindi ritenute insalubri per la salute della popolazione a causa delle esalazioni emesse, di essere isolate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni. Secondo Ruzzenenti, per quanto riguarda la Caffaro, l’elusione di tutto ciò fu dovuto dal fatto che attorno allo sviluppo di simili realtà si costituì una “solidarietà tecnica” alla cui base vi era una cultura dello sviluppo che “considerava il territorio […] come un

semplice supporto fisico necessario al pieno dispiegarsi della tecnica, bene in sé quasi assoluto, per il quale si poteva del tutto prescindere da valori umani e ambientali che quel territorio esprimeva433”. Se, nel caso della Caffaro, possiamo

accettare l’analisi fatta da Ruzzenenti, lo stesso non si può dire dell’Icmesa.

Per quanto riguarda l’Icmesa di Meda, infatti, la domanda di costruzione dello stabilimento fu accolta senza bisogno da parte del comune di inserire quell’industria nella prima classe prevista dalla legge sulle industrie insalubri. Infatti, fin dall’inizio l’amministrazione fu a conoscenza di cosa veniva prodotto all’interno dello stabilimento. La fabbrica stessa notificò che l’impianto sarebbe stato destinato alla “fabbricazione di prodotti farmaceutici434”, per cui si riteneva che non vi fosse alcun pericolo per la salute dell’uomo e per l’ambiente, come sostenuto, anche, dall’ufficiale sanitario che si occupò della vicenda435. Il problema si pose quando l’Icmesa variò la tipologia produttiva, introducendo la fabbricazione del triclorofenolo, senza avvertire le autorità competenti436. Ciò, infatti, avrebbe comportato la classificazione dello stabilimento nella prima classe e l’obbligo, salvo che non fosse stata provata l’innocuità di una simile produzione, di trasferire l’azienda lontano dai centri abitati. Classificazione e trasferimento che non furono attuati perché le autorità competenti non avevano avuto nessuna comunicazione in merito alla variazione di produzione. Tuttavia, come abbiamo raccontato, il comune era a conoscenza della grave situazione ambientale causata dai continui sversamenti di composti chimici da parte dell’Icmesa nel fiume Certesa e di come questa situazione fosse, ormai, intollerabile per la popolazione

433

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 51.

434

“Commissione parlamentare d’inchiesta”, pag. 60.

435

Ibidem.

che più volte aveva segnalato le esalazioni nauseanti provenienti dal fiume437. Lo stato delle acque fu perfino analizzato, a seguito della moria di alcuni animali d’allevamento, dagli ufficiali sanitari che ne confermarono la nocività438.

Tutti questi elementi avrebbero dovuto spingere le autorità locali a una indagine più approfondita su cosa effettivamente venisse prodotto all’interno dello stabilimento. A questo proposito, ci fu da parte degli ufficiali sanitari nel 1953, una richiesta di chiarimento in merito alle produzioni interne allo stabilimento, ma, Rezzonico, il rappresentante della fabbrica, si rifiutò di spiegare la produzione interna439.

Per quanto riguarda, invece, la Caffaro, fin dall’inizio della costruzione dello stabilimento, l’amministrazione comunale era a conoscenza di quale sostanza sarebbe stata prodotta ovvero la soda caustica. Di questa sostanza e del processo produttivo si avevano già all’epoca informazioni che potevano permettere di comprenderne il pericolo riguardante l’ubicazione di un simile stabilimento vicino a centri abitati, anche se di periferia. Nonostante il processo Solvay garantisse un minor inquinamento ambientale rispetto al processo Leblanc, tuttavia, ciò non garantiva alla popolazione la innocuità delle lavorazioni e delle emissioni. Inoltre, da quanto si desume dalla corrispondenza tra l’amministrazione comunale e la prefettura440, le autorità locali sembravano essere a conoscenza sia dell’insalubrità della fabbrica, sia delle normative che comportavano obblighi specifici per l’amministrazione comunale441.

Questo dimostra che in entrambi i casi, l’interesse che una simile fabbrica fosse costituita nel territorio prevalse su tutto il resto e anche sui possibili pericoli che poteva comportare per l’ambiente e la popolazione. Tuttavia, nel caso dell’Icmesa, le responsabilità sono da attribuire agli amministratori della fabbrica che dichiararono il falso riguardo alla produzione, mentre, per la Caffaro, ci fu una sostanziale elusione delle normative vigenti da parte dell’amministrazione comunale e delle autorità competenti.

437

Cementeri L., Ritorno a Seveso, Mondadori/Paravia, Milano, 2006, pagg. 18-20.

438

Ibidem.

439

Ibidem.

440

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 66.

Una differenza, questa, tra la Caffaro e l’Icmesa sostanziale nel determinare il destino delle due fabbriche e che analizzeremo più dettagliatamente nelle conclusioni di questa tesi. Adesso, passiamo ad analizzare, la natura dei disastri che colpirono Seveso e Brescia, per capire se in entrambi i casi ci si è trovati di fronte alla stessa situazione ambientale.