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Confronto tra il caso Caffaro di Brescia e il disastro di Seveso del 1976

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento Civiltà e forme del sapere

Corso di laurea specialistica in Storia contemporanea

Confronto tra il caso Caffaro di Brescia

e l’incidente di Seveso del 1976

Relatore:

Chiar.ma Prof.ssa Cristiana Torti

Candidato:

Giuseppe Cilino

(2)
(3)

INDICE

Introduzione

1

Capitolo primo

La Caffaro di Brescia

5

1.1 L’ubicazione della Caffaro

14

1.2 PCB (policlorobifenili)

19

1.3 La scoperta di un disastro ecologico

24

1.4 Prima di Brescia: Anniston tra la Monsanto e i PCB

34

Capitolo secondo

L’Icmesa di Meda e il disastro del 1976

40

2.1 L’incidente di Seveso

43

2.2 L’Icmesa di Meda

44

2.3 La Diossina come sottoprodotto del triclorofenolo

48

2.4 L’Icmesa e il rapporto con il territorio

51

(4)

Capitolo terzo

Seveso: la sveglia sull’ambientalismo

65

3.1 La “Direttiva Seveso”

73

3.2 Barry Commoner e il problema delle industrie chimiche

73

3.3 La Convenzione di Stoccolma sugli inquinanti organici

persistenti

75

77

Capitolo quarto

Un confronto possibile?

81

4.1 Confronto sulle origini della Caffaro e dell’Icmesa

82

4.2 La natura del disastro

86

4.2.1 Seveso

88

4.2.2 Brescia

89

4.3 Confronto tossicologico tra i due casi

92

4.4 La bonifica ambientale a Seveso e a Brescia

97

Conclusioni

104

(5)

Introduzione

Immaginate se un giorno scoprissimo che l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, il terreno che calpestiamo e dove i nostri bambini giocano, il cibo che produciamo e consumiamo, sono notevolmente inquinanti da qualcosa che si fa fatica perfino a pronunciare.

È questa la situazione di fronte alla quale i cittadini bresciani si trovarono nel 2001. D’un tratto la popolazione si rese conto che tutto ciò che avevano intorno, per quanto possedesse le stesse sembianze d’un tempo, era completamente cambiato, non nella forma ma nella sostanza.

L’aria, l’acqua, la terra e il cibo erano rimasti uguali ma allo stesso tempo erano diversi. Dentro di loro, infatti, si era depositato un estraneo che non aveva nessuna intenzione di andarsene.

Una situazione che ci pone una semplice domanda: che cosa era successo? 2001, un articolo di giornale riporta il fatto che una parte di Brescia è inquinata da policlorobifenili (PCB). Responsabile dell’inquinamento è la Caffaro. Il Comune e la popolazione si mobilitano. Bisogna verificare la presenza dell’inquinante e il livello d’inquinamento. La situazione esplode. Da un lato, Asl e Comune fanno rientrare in parte l’allarme, dall’altro la popolazione segnala che la situazione è, invece, spaventosa, peggiore di quella che ha interessato il comune di Seveso nel 1976.

In questa sintesi troviamo tutti gli elementi protagonisti di questo lavoro. Da una parte la Caffaro e i PCB. Dall’altra l’Asl, il comune e la popolazione. Al centro, una rievocazione del passato, l’incidente di Seveso del 1976.

Questi elementi ci serviranno per raggiungere lo scopo di questa tesi ovvero stabilire un confronto tra ciò che è accaduto a Brescia e ciò che è accaduto a Seveso, al fine di stabilire se fra i due casi vi sia è una relazione e, nel caso vi sia, che cosa si ricava da questo paragone per valutare la situazione di Brescia. Ritengo necessario questo confronto al fine di stabile, inoltre, quale posizione, rispetto all’inquinamento, tra quella sostenuta dall’Asl, tesa a ridimensionare l’inquinamento e quella sostenuta dalla società civile, che considera, in linea con

(6)

l’articolo di giornale, la gravità di una situazione paragonabile all’incidente di Seveso del 1976, corrisponda maggiormente al reale stato ambientale di Brescia.

Per comprendere le due posizioni rispetto all’accaduto, sarà, innanzitutto, necessario ricostruire da cosa è stato determinato l’inquinamento a Brescia. Per farlo, ricostruiremo la storia della fabbrica responsabile, la Caffaro di Brescia, un’azienda chimica costituita nel 1906, produttrice, principalmente, di soda caustica e composti clorurati, tra cui i PCB. La descrizione sarà limitata agli aspetti essenziali utili a questo lavoro: l’origine della fabbrica e la sua ubicazione; le principali sostanze prodotte e i metodi utilizzati; la produzione di PCB e, infine, il rapporto della fabbrica con il contesto bresciano.

Dopodiché, cercheremo di comprendere che cosa sono i PCB. Innanzitutto, ricostruiremo la storia di questi composti chimici dall’inizio della loro produzione nel 1925, fino alla messa al bando nel 1984, quando alcuni paesi occidentali ne vietarono la produzione e l’impiego. Poi, analizzeremo gli aspetti chimici del composto chiamato in causa. Trattandosi di una tesi di storia, su quest’ultimo punto ci siamo limitati a riportare soltanto i dati generici che si possono ricavare da qualsiasi pubblicazione in merito. Abbiamo tralasciato alcuni aspetti critici relativi alla loro tossicità, in quanto, ancora ad oggi, vi sono molti studi contraddittori e non vi è un riconoscimento unanime sulla loro effettiva nocività.

In seguito, ricostruiremo gli eventi che hanno portato alla conoscenza della presenza degli inquinanti. Inizieremo dal 1976, anno in cui si manifesta il primo caso di contaminazione da PCB di latte di origine animale contaminato e arriveremo fino al 2001, anno in cui le autorità e la popolazione prendono coscienza di un inquinamento diffuso. Inoltre, introdurremo le posizioni dell’Asl di Brescia e del “Comitato popolare contro l’inquinamento zona Caffaro”, che verranno sviluppate, più nel dettaglio, negli ultimi capitoli di questo lavoro.

Una volta compresi gli elementi principali che caratterizzano il caso Caffaro, passeremo alla ricostruzione storica della vicenda di Seveso.

Innanzitutto, ricostruiremo, come per la Caffaro, la storia della fabbrica responsabile dell’incidente del 1976, l’Icmesa di Meda, azienda produttrice di prodotti farmaceutici e cosmetici. Analizzeremo i principali prodotti della fabbrica, concentrandoci maggiormente sul Triclorofenolo e i suoi sottoprodotti,

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tra cui la Diossina, il composto chimico responsabile del disastro ambientale che colpì, principalmente, i comuni di Seveso e Meda. Tuttavia, nell’esposizione sarà, prima di tutto, dato spazio agli eventi che hanno portato all’incidente del 1976, al fine di garantire la comprensione degli elementi successivi relativi alla fabbrica e ai suoi prodotti.

Prima di arrivare al confronto vero e proprio, daremo spazio ad alcune posizioni in merito alla questione ambientale che ha interessato i due comuni. Inoltre, cercheremo di analizzare i principali strumenti normativi per fare fronte a simili situazioni. Nel caso di Seveso, analizzeremo gli aspetti che hanno portato all’attuazione della Direttiva del Consiglio Europeo 82/501/CE, meglio nota come “Direttiva Seveso”, in quanto essa nacque per risolvere le problematiche poste dall’incidente. Nel caso di Brescia, invece, daremo spazio alle normative e alle limitazioni in merito ai composti chimici come i PCB.

Infine, nell’ultimo capitolo daremo spazio a quelli che sono gli aspetti generali di un possibile confronto tra i due casi. L’analisi riguarderà, innanzitutto, le origini delle due fabbriche al fine di determinare gli elementi comuni alle due storie. Dopodiché, passeremo ad analizzare la natura dei disastri ambientali che hanno interessato il comune di Brescia e di Seveso, al fine di capire se i due casi possano essere messi a confronto. Infine, analizzeremo gli aspetti tossicologici più rilevanti delle due vicende, il grado d’inquinamento in entrambi i casi e gli aspetti concernenti la questione della bonifica dei territori contaminati.

All’interno di questo lavoro, inoltre, verrà dato spazio a due casi internazionali che sono stati interessati dalle medesime sostanze che hanno contaminato il comune di Brescia e di Seveso. In rapporto al caso Caffaro, sarà ricostruita la storia dell’inquinamento verificatosi ad Anniston, una città americana nella quale era ubicato lo stabilimento della Monsanto, l’azienda che aveva brevettato e prodotto fino agli anni ’80, i PCB. La storia di Anniston si collega fortemente a quella di Brescia, in quanto entrambe le città si sono trovate di fronte ad un inquinamento diffuso da PCB e ci permetterà di acquisire degli strumenti di analisi per valutare il caso Caffaro.

Invece, in rapporto all’incidente di Seveso, analizzeremo un caso internazionale, quello della Guerra in Vietnam, in cui fu usato il triclorofenolo

(8)

contenente diossina per distruggere gli ecosistemi in cui si nascondevano i gruppi armati vietnamiti. Ci occuperemo nello specifico, innanzitutto, dell’Agente Orange, nome con cui si identificava il composto chimico utilizzato e, poi, degli effetti che esso ha avuto sul popolo vietnamita e sul suo ambiente.

L’obiettivo finale, che sarà riportato nelle conclusioni di questo lavoro, è quello di trovare gli elementi utili per realizzare un confronto tra il caso di Brescia e quello di Seveso. E una volta determinate le analogie e le differenze capire quale fra i due casi riponga maggiori rischi per la salute della popolazione e il loro ambiente.

Questo lavoro è realizzato nella speranza di poter dare dei punti di riferimento alla popolazione bresciana e contribuire ad una conclusione positiva di questa complicata e dolorosa storia.

(9)

Capitolo primo

La Caffaro di Brescia

L’inizio della storia della Caffaro (Società Elettrica ed Elettrochimica di Brescia) coincide con l’inizio dello sviluppo del settore chimico industriale italiano a partire dall’Unità di Italia1.

Il periodo compreso tra l’Unità d’Italia e gli inizi del XX secolo fu caratterizzato da una forte contrapposizione all’interno del paese, tra le classi borghesi che governavano la nazione e le masse popolari, in gran parte analfabete e con dialetti che differivano dalla lingua ufficiale italiana, insofferenti nei confronti del giovane regno italiano, considerato estraneo e quasi ostile. Da un lato, quindi, la destra storica e la sinistra storica, come furono denominate2, che controllavano completamente il parlamento alternandosi alla sua guida, dall’altro le classi popolari che trovavano voce politica soltanto attraverso i movimenti socialisti e cattolici.

Tale contrapposizione si rifletteva anche nel tessuto sociale ed economico del paese spaccato in due realtà, da una parte il Nord, dove l’iniziativa imprenditoriale privata con il supporto dello stato era riuscita a creare, in alcuni settori chiave come la siderurgia e la manifattura, le premesse per avviare un’industrializzazione di stampo europeo e dall’altra parte il Sud dove predominava il lavoro agricolo di singoli individui e delle loro famiglie costretti a lavorare sotto le dipendenze dei proprietari terrieri. Tale spaccatura si rafforzava soprattutto nei momenti di maggiore crisi economica come nel 1898, anno in cui l’aumento del prezzo del pane dovuto ad un cattivo raccolto del grano sul territorio nazionale e al blocco delle importazioni di cereali dagli Stati Uniti - che in quel periodo erano impegnati nella guerra contro la Spagna per la cosiddetta “questione cubana”- causò i cosiddetti “moti del pane”. Si trattò di una serie di proteste popolari che interessarono gran parte dell’Italia, coinvolgendo gli operai

1

Gasperini L., L’industria chimica nella storia italiana, Casa editrice G. d’Anna, Firenze, 1974, pag. 40.

(10)

delle fabbriche e i contadini che attraverso scioperi e rivolte, cercavano di avere risposte certe per migliorare la loro condizione economica e sociale. Le proteste iniziarono nel 1883, sui iniziativa dei fasci siciliani dei minatori e dei contadini in Sicilia e raggiunsero l’apice nel 1898, con i “fatti di Milano3”, quando, nel maggio di quell’anno, le proteste popolari furono represse dal governo grazie al supporto dell’esercito guidato dal Generale Bava Beccaris che non si fece scrupolo di usare le truppe e i cannoni contro le masse popolari in protesta. La reazione del governo provocò la morte di circa 80 persone e il ferimento di altre centinaia e dimostrò l’incapacità di quel parlamento di dare ascolto alle proteste popolari4.

Negli anni successivi, grazie ad una serie di fattori favorevoli come il miglioramento complessivo dell’economia5 e la costituzione di un governo liberale, il paese vide un allentamento delle tensioni tra il governo e le masse popolari.

All’inizio del XX secolo, infatti, l’Italia conobbe un vero e proprio decollo industriale6, agevolato dalle politiche adottate a fine Ottocento per tutelare le aziende nazionali, come le norme sulle tariffe doganali7, che valorizzarono il commercio interno e che permisero a varie aziende operanti in settori di forte interesse economico, come il settore siderurgico e tessile, di godere di benefici che ne consentirono la nascita e lo sviluppo8. Tale fu il caso, appunto, del settore della siderurgia che, in poco tempo, da un lato vide crescere impianti già esistenti come ad esempio quello di Terni, in Umbria, e dall’altro lato vide la comparsa di nuovi impianti come quelli di Piombino, in Toscana, e Bagnoli, in Campania9. Anche il settore tessile, che agli inizi del XX secolo costituiva quello con il maggior numero di stabilimenti e di addetti10, fu favorito dalla nuova congiuntura politica ed economica.

In questo nuovo quadro economico, si inserì anche l’industria chimica italiana, che proprio in quegli anni iniziò a dar vita alle proprie strutture produttive

3

Sabbatucci G., Vidotto V., Storia contemporanea: l’Ottocento, Laterza, Bari, 2009, pag. 376.

4 Ibidem. 5 Ibidem, pag. 379. 6 Ibidem. 7 Ibidem. 8

Gasperini L., L’industria chimica nella storia italiana, G. d’Anna, Firenze, 1974, pag. 40.

9

Ibidem, pag. 37.

(11)

e a costruire un proprio mercato interno diretto soprattutto alla produzione e allo scambio di prodotti di base ad uso agricolo a carattere prevalentemente inorganico, come la produzione dei fertilizzanti derivati dall’acido solforico e dai perfosfati e in minor misura di concimi azotati11, prodotti che venivano impiegati prevalentemente nell’agricoltura12. In realtà le scelte di produzione dell’industria chimica furono obbligate in quanto tale settore, a differenza dell’ industria tessile e di quella siderurgica, non riuscì a beneficiare dei vantaggi economici derivanti dall’introduzione delle tariffe doganali13 che avrebbero garantito i capitali per acquisire nuovi mezzi tecnici e investire in nuove linee produttive14.

Il fattore principale che impedì un forte sviluppo dell’industria chimica, soprattutto nel settore della soda, il principale prodotto fabbricato dalle industrie Caffaro, fondamentale al pari di altri prodotti chimici di base in quanto utilizzato in una vasta gamma di lavorazioni industriali come il sapone e le vernici, fu la carenza di materie prime combustibili da utilizzare nel processo di produzione. La principale fonte energetica era il carbone, una materia prima carente sul suolo nazionale, utilizzato dalle industrie chimiche sia come combustibile, sia per sviluppare determinate reazioni chimiche15. Il problema della carenza di carbone necessario per il funzionamento degli stabilimenti chimici, riduceva le possibilità di crescita e di sviluppo di tale settore. Con il passare degli anni si rese, quindi, fondamentale per creare un reale sviluppo dell’industria chimica la ricerca di fonti di energia alternative.

Furono due le scoperte che permisero alla chimica di cambiare la propria fisionomia. La prima fu l’invenzione della dinamo, dovuta all’inventore belga Zenobe Gramme nel 1870, che consentì all’industria chimica di abbandonare l’utilizzo del carbone e al suo posto sfruttare l’energia idroelettrica16. L’altra, fu l’elettrolisi, un nuovo sistema che permetteva di produrre la soda caustica scomponendo il sale marino con la corrente elettrica .

11

Gasperini L., L’industria chimica nella storia italiana, G. d’Anna, Firenze, 1974, pagg. 40 – 45.

12 Ibidem, pag. 41. 13 Ibidem, pag. 40. 14 Ibidem. 15

Trinchieri G., Industrie chimiche in Italia, Arvan, Firenze, 2001, pag. 177

(12)

La necessità di ingenti quantità di materie prime nella produzione delle industrie chimiche era legata al procedimento tecnico con cui veniva prodotta la soda caustica17. Il procedimento impiegato risaliva al 1791, anno in cui il medico chirurgo Nicolas Leblanc ottenne il brevetto per la produzione di soda caustica18. Il processo chimico utilizzato da Leblanc era nato per fabbricare il carbonato sodico, comunemente noto come carbonato di sodio (attraverso l’utilizzo di materie come il sale, l’acido solforico, il carbone e il calcare)19. Tale processo di lavorazione permetteva di ottenere una quantità di carbonato di sodio maggiore di quella che si sarebbe potuta ottenere dalle ceneri delle alghe come veniva fatto prima di tale scoperta20. Tuttavia il procedimento generava una quantità intollerabile di rifiuti di lavorazione, che causavano gravissimi danni ambientali e gravi problemi di salute ai lavoratori che erano a contatto con tali sostanze21.

Intorno al 1860, il processo Leblanc venne superato dal procedimento studiato dall’ingegnere belga Ernest Solvay che permetteva una migliore qualità del prodotto e riduceva i problemi ambientali legati al metodo Leblanc22. Il procedimento Solvay, infatti, si basava sul nuovo metodo elettrolitico e fu caratterizzato dall’innovazione della struttura mediante la realizzazione di apparecchiature e macchinari più adatti23. In tale procedimento, in una prima fase furono utilizzate le “celle a diaframma” che impedivano il contatto tra la soda caustica e il cloro mediante l’utilizzo di un diaframma che divideva la cella; successivamente, invece, furono utilizzate le “celle Castner – Keller”, che dividevano le sostanze facendo uso del mercurio, ottenendo, così, un prodotto migliore e più puro24.

Alla luce delle scoperte in campo energetico e dell’innovativo sistema Solvay, la migliore ubicazione per un’industria di produzione di soda, come per le altre industrie che utilizzavano l’energia idroelettrica, non poteva che essere in un contesto caratterizzato dalla presenza di una centrale idroelettrica capace di

17 Ibidem, pag. 177 18 Ibidem. 19 Ibidem, pag. 174. 20 Ibidem, pag. 171. 21 Ibidem, pag. 174. 22 Ibidem, pag. 175. 23 Ibidem. 24 Ibidem.

(13)

garantire energia al processo chimico. Questo fu il caso della Società Elettrica ed Elettrochimica della Caffaro. Il nome di questa azienda, infatti, deriva dal fiume principale che garantiva la produzione di energia elettrica, il fiume “Caffaro25” ovvero un torrente del bacino idrografico del Po che nasce nel territorio di Breno, paese situato a nord della provincia di Brescia, ed è alimentato dai vari laghetti e ghiacciai situati nel gruppo montano alpino dell’Adamello. La caratteristica principale che rese tale fiume attraente agli occhi degli imprenditori del settore chimico fu la presenza di un tratto del suo corso, all’incirca cinque chilometri, caratterizzato da una serie di rapide e cascate che fanno sprofondare il fiume di circa 250 metri fino a sfociare nella valle del fiume Chiese26, immissario ed emissario del lago d’Idro. Tale caratteristica consentiva la possibilità di installarvi una centrale idroelettrica per sfruttare l’energia prodotta da questo salto del fiume. Si trattava di un progetto che a Brescia era già nelle intenzioni dell’amministrazione comunale, sollecitata alla fine dell’ottocento dal comitato promotore della ferrovia elettrica “Brescia – Ponte Caffaro27”. L’auspicio era quello di utilizzare l’energia prodotta dalla centrale per far funzionare la linea che doveva collegare Brescia con Trento.

L’iniziativa per la costruzione della centrale idroelettrica fu promossa dall’Ingegnere Carlo Tosana28, “titolare in Brescia di uno studio tecnico per impianti elettrici, concessioni e progetti di forze idrauliche, tranvie e ferrovie elettriche”29. Fu L’ingegnere Tosana a ricevere l’incarico per la realizzazione della centrale elettrica da parte dell’amministrazione con il beneplacito del comitato promotore della ferrovia Brescia – Ponte Caffaro. Il progetto dell’Ing. Tosana relativo alla centrale idroelettrica prese forma grazie all’intervento di un altro personaggio, il Sig. Pietro Curletti, imprenditore milanese considerato tra i pionieri dell’industria chimica italiana30, che sul finire dell’800 aveva avviato a Milano una piccola produzione di soda tramite il processo Leblanc31. Curletti era stato avvicinato dall’ingegnere Tosana, in quanto quest’ultimo aveva saputo che

25

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 7.

26

È il maggiore fiume subalterno del Po (Nda).

27

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 36.

28 Ibidem, pag. 32. 29 Ibidem, pag. 33. 30 Ibidem, pag. 32.

(14)

lui ed altri due soci erano interessati alla costruzione di un’industria chimica nei pressi di Brescia. A tal proposito, infatti, il Curletti aveva costituito la ditta “Erba, Curletti e Zironi”. Una volta ottenuta la concessione dell’utilizzo dell’energia della futura centrale elettrica da parte del Comune di Brescia32, Curletti avrebbe avviato la costituzione della società chimica che nacque ufficialmente il 1° febbraio 1906 con il nome di “Società Elettrica ed Elettrochimica del Caffaro33”.

Curletti non fu soltanto l’ideatore dell’impresa ma, nei primi anni di vita della società Caffaro, rivestì il ruolo di amministratore delegato.34 Egli conosceva molto bene sia gli ambienti bresciani, sia gli ambienti milanesi, in quanto originario di Milano, e questo gli garantì la possibilità di ottenere discreti vantaggi nell’ambito del suo progetto di costruzione della società chimica, soprattutto quello di non dover affrontare i problemi burocratici che si presentavano per la realizzazione di un simile progetto, cioè il fatto di costruire una fabbrica rientrante tra le “industrie insalubri35” vicino ad un borgo cittadino36.

Ad accompagnare Curletti nella realizzazione del progetto relativo all’industria chimica vi erano anche altri due personaggi, Cesare Zironi e Luigi Erba. Cesare Zironi era il direttore dello stabilimento di Dergano dell’azienda farmaceutica “Carlo Erba”, fondata nella seconda metà dell’800 e ad oggi ancora attiva, leader nel settore dei farmaci sintetici (Carlo Erba37 fu uno dei fondatori della “Società Chimica di Milano” nel 1895, nata con lo scopo di sviluppare la chimica Lombarda attraverso la collaborazione tra loro delle aziende già presenti sul territorio). Di Luigi Erba, sappiamo soltanto che era il fratello di Carlo Erba. Il presidente della società Caffaro era Giuseppe Visconti di Modrone, genero di Luigi Erba. Il vice presidente era Federico Weil, direttore della Banca Commerciale Italiana38.

32

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 41.

33

Ibidem, pag. 187.

34

Ibidem, pag. 62.

35

Esaminerò più avanti il concetto di “industria insalubre”. Qui basti ricordare che fin dal principio esistevano problemi tra la città di Brescia e la costituzione di un simile progetto per problemi di salute pubblica relativi a ciò che la fabbrica avrebbe prodotto.

36

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 44.

37

Fu il primo ad avviare il progetto di industria chimico-farmaceutico in Italia. Per maggiori dettagli www.treccani/enciclopedia/carlo-erba_(dizionario-biografico)/.

(15)

Le prime produzioni della Caffaro erano incentrate interamente sulla lavorazione della soda caustica (NaOH), prodotto utilizzato principalmente dalle industrie dei saponi, dei tessuti e della carta, da cui l’azienda, come molte altre in campo europeo, cercò fin dagli inizi la maggiore resa possibile, attraverso la produzione di molti prodotti derivati. Per la Caffaro i principali erano: soda caustica, cloruro di calce, cloro liquido, ipoclorito di soda e ipoclorito di calcio39. Erano lavorazioni che la Caffaro aveva avviato attraverso l’acquisizione di alcuni brevetti della Solvay40, storica azienda produttrice di Soda caustica che prese il nome da Ernest Solvay, colui che perfezionò il processo LeBlanc ma, anche, il primo che permise la produzione industriale di questa sostanza41. Tali prodotti, tuttavia, non permisero alla Caffaro di poter sviluppare un proprio mercato di riferimento, in quanto erano già largamente commercializzati sul mercato europeo. Fu solo con il brevetto della “pasta Caffaro elettrocuprifera42” che

l’azienda riuscì ad avere un proprio marchio sul mercato, capace non solo di fare crescere l’azienda economicamente, ma di garantire alla stessa nuovi sbocchi produttivi. Infatti, “la pasta Caffaro”, come fu chiamata in sintesi, era un prodotto che veniva fabbricato attraverso l’utilizzo del cloro eccedente le lavorazioni della soda caustica.

Il cloro è un elemento chimico che agli inizi della storia della chimica si trova presente in grande quantità come materiale di scarto dalla produzione della soda ma di cui, inizialmente, non si trovava nessun utilizzò pratico.

La Caffaro, fu tra le prime aziende a trasformare il cloro da sottoprodotto ingombrante e inutilizzabile a principale elemento di sviluppo di nuovi composti chimici43, consentendo all’azienda di sviluppare nuovi brevetti e utilizzare il cloro eccedente delle lavorazioni. Fra i primi composti derivati dal cloro troviamo, appunto, la pasta Caffaro, un composto rameico a base di cloro44. Si trattava di un

39

Ibidem, pag. 66

40

Corsini P., Zane M., Storia di Brescia: politica, economia, società 1861 – 1992, Laterza, 2014, posizione 1142 (E-book).

41

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pagg. 58-59.

42

Trinchieri G., Industrie chimiche in Italia, Arvan, Venezia, 2001, pag. 187.

43

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 149

(16)

anticrittogamico45 per le viti, utilizzato per uccidere i parassiti presenti sulle medesime piante. Tale prodotto, tuttavia, non permise alla Caffaro di risolvere il problema del cloro eccedente, problema che attanagliava tutte le aziende produttrici di soda caustica. A questo proposito fu propizio il primo conflitto mondiale per permettere alla Caffaro, come ad altre aziende chimiche, di smaltire il cloro eccedente. Quest’ultimo, infatti, durante il conflitto fu utilizzato a scopo bellico, soprattutto, come agente chimico, dalle maggiori potenze coinvolte nel conflitto. La prima potenza ad utilizzarlo fu la Germania durante l’attacco ad Ypres, città belga, protagonista durante la guerra dell’offensiva dell’esercito tedesco contro le truppe francesi. Il 22 aprile 1915, infatti, i tedeschi, attaccarono l’esercito francese rilasciando nell’aria circa 170 tonnellate di cloro pressurizzato all’interno di cilindri, provocando la morte di oltre 6000 persone, nel giro di dieci minuti dal rilascio del cloro sul suolo. L’attacco di Ypres non fu purtroppo un evento isolato, infatti, da quel momento tutte le maggiori potenze europee fecero largo uso del cloro e di altre sostanze chimiche per fermare l’avanzata del nemico46. Se questa scelta fu una sciagura sia per i soldati che per i civili, lo stesso non si può dire delle aziende che mettevano a disposizione il cloro e le altre sostanze, le quali, Caffaro inclusa, poterono disfarsi di un prodotto di difficile smaltimento e recupero: “i brillanti risultati sul fronte fecero sì che la situazione

commerciale di questo elemento di scarto degli impianti della soda elettrolitica, fino ad allora superfluo e ingombrante, mutò radicalmente, diventando addirittura il prodotto trainante l’intero settore47.

La fine della Grande Guerra segnò un periodo di sofferenza per la popolazione e l’economia, tuttavia, per l’industria chimica rappresentò l’avvio di nuovi rami di sviluppo e di crescita industriale. Fu questo il caso della Caffaro, che negli anni venti, attraverso i cospicui profitti derivati dalla vendita dei prodotti chimici ad uso bellico, poté ampliare la propria struttura produttiva ingrandendo le linee di produzione48 e sviluppando nuovi rami di ricerca. Vennero sperimentati

45

Composto chimico o trattamento che nella pratica agraria si usa a scopo sia preventivo sia curativo, per combattere le piante crittogame (funghi), parassite delle piante coltivate o spontanee.

46

Montani M. C., Sposare gli elementi: breve storia della chimica, Sironi, Milano, 2011, pag. 144.

47

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 66.

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nuovi tipi di prodotti, principalmente cloro - derivati: l’acido cloridrico sintetico, il cloro liquido, l’acido carbonico e la potassa caustica; inoltre, vennero portati avanti i rami produttivi tradizionali, mediante la produzione di nuovi composti chimici da utilizzare in campo agricolo49. La vera svolta produttiva della Caffaro, tuttavia, fu realizzata attraverso la produzione del monoclorobenzolo, una sostanza chimica che si ricava mediante la clorurazione del benzene 50 , quest’ultimo ricavato dal petrolio 51 . Si tratta di una sostanza utilizzata principalmente nei carburanti, per la sua capacità antidetonante ma utilizzata anche dall’industria bellica per la produzione di esplosivi. La produzione all’interno della Caffaro di questa sostanza fu avviata per rispondere alle esigenze dell’industria bellica che con la Grande Guerra e successivamente con il fascismo, aveva avviato un rapporto molto stretto con la chimica. Il fascismo e le sue politiche, di fatto, favorirono l’industria chimica che durante il ventennio vide una forte crescita della domanda dei prodotti propri di questa industria. Fu la capacità imprenditoriale di Giovanni Morselli, dal 1911 amministratore delegato della Caffaro52 in sostituzione a Pietro Curletti, a permettere all’azienda di rivestire un ruolo di primo piano nei rapporti con il nuovo regime. Morselli fu una figura importante nel campo chimico, oltre che politico, e rivestì vari ruoli in seno al comune di Milano, prima come consigliere e successivamente come assessore ai servizi pubblici ma soprattutto fu un imprenditore53 capace di trasformare la Caffaro in un’azienda leader del settore durante tutto il ventennio fascista54, mediante la produzione “di soda caustica e cloro per esplosivi, gas asfissianti e

liquidi aggressivi55”.

Durante il ventennio, tuttavia, non vengono messe in secondo piano le altre produzione. Infatti, in questi anni, la Caffaro sviluppa nuovi brevetti, come il “Sinclor”, un nuovo clorurato di calcio che trovò un vasto campo di applicazioni

49

Corsini P., Zane M., Storia di Brescia: politica, economia, società 1861 – 1992, Laterza, 2014, posizione 3775 (E-book).

50

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag.83.

51

In http://www.industriaeambiente.it/schede/caffaro_Brescia/

52

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag.67.

53

Corsini P., Zane M., Storia di Brescia: politica, economia, società 1861 – 1992, Laterza, 2014, posizione 4286 (E-book).

54

In http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-morselli_(Dizionario-Biografico)

(18)

per le sue caratteristiche innovative56. Inoltre, a partire dagli anni trenta, all’interno della Caffaro ha inizio la produzione del clorobifenile, meglio conosciuto con la sigla di PCB57, un composto chimico cloro - derivato. La produzione di questa sostanza all’interno della Caffaro iniziò nel 1938 e fu venduta con il nome commerciale di “Fenclor”58. Si trattava di una sostanza utilizzata principalmente nella produzione di vernici, colle e carte copiative59.

Questi nuovi prodotti, soprattutto i cloro - derivati, rappresentarono una svolta nelle linea di produzione della Caffaro, che da azienda produttrice principalmente di composti chimici organici e inorganici, si trasformò gradualmente in un’azienda produttrice quasi esclusivamente di prodotti derivati dal cloro. Uno sviluppo che fu determinato dalle scelte dei dirigenti che videro nella produzione di cloro – derivati nuove possibilità di crescita industriale; infatti, la loro produzione consentì alla Caffaro di crescere economicamente per circa quarant’anni60, fino a quando la gran parte di questi prodotti fu messa sotto accusa e al bando61 e ciò decretò il lento declino della Società Elettrica e Elettrochimica di Brescia.

1.1

L’ubicazione della Caffaro

Il primo problema che sorse all’indomani della costituzione della società elettrica ed elettrochimica di Brescia fu la scelta dell’ubicazione della fabbrica. Secondo Marino Ruzzenenti62 tale scelta fu il “peccato originale” che diede origine al rapporto controverso tra lo stabilimento e la popolazione, in quanto la località scelta non era idonea per accogliere tale industria.

56 Corsini P., Zane M., Storia di Brescia: politica, economia, società 1861 – 1992, Laterza, 2014,

posizione 4286 (E-book).

57

Ibidem.

58

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 149.

59

Essendo i PCB uno degli argomenti principali di questa tesi, tornerò ad occuparmene più dettagliatamente in un paragrafo successivo.

60

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 149.

61

Il riferimento va alla Direttiva Europea 82/501/CEE, recepita in Italia con il DPR 17 maggio 1988, n. 175, comunemente nota come “Direttiva Seveso”.

62

Professore e dirigente sindacale della Cgil di Brescia, autore del libro “Un secolo di cloro e PCB. storia delle Industrie Caffaro di Brescia”, Jaca book, Milano, 2001.

(19)

L’ubicazione della fabbrica venne predisposta nell’area ovest del Comune di Brescia a poco meno di un chilometro dalle mura venete - edificate durante il dominio veneziano sulla città di Brescia tra il XV e il XVIII sec., che prima dell’abbattimento nel 190463, circondavano il centro storico della città - nel Borgo S. Giovanni – Fiumicello, un antico insediamento medievale con una popolazione di circa 3000 abitanti all’inizio del ‘90064. La scelta del sito rispondeva alle necessità di avere a disposizione una stazione ferroviaria per il transito delle merci. Era, infatti, qui presente la stazione della Ferrovia Brescia – Iseo65, costruita, soprattutto, per rispondere alle richieste della popolazione che auspicava di ottenere vantaggi economici proprio grazie a tale infrastruttura66. Il sito scelto presentava, quindi, fattori favorevoli alla fabbrica chimica come, appunto, la stazione ferroviaria ma anche un complesso di canali fluviali dai quali sarebbe stato possibile prelevare l’acqua necessaria al processo chimico.

Lo stesso luogo, tuttavia, presentava una serie di strutture per così dire incompatibili con un’industria chimica. Fra le varie strutture spiccava la scuola elementare “Dusi”, costruita nel 1898 che, alla fine dei lavori di costruzione del complesso chimico, si trovò completamente circondata da quest’ultimo su tre lati del suo edificio (nord, sud ed est)67. Questo fu possibile, da un lato grazie al supporto che Pietro Curletti ricevette da personalità di rilievo nell’ambiente bresciano interessate alla realizzazione di un simile progetto68, dall’altro lato grazie all’appoggio dei sindacati raccolti intorno alla Camera del Lavoro di Brescia69, desiderosi di veder sorgere uno stabilimento industriale in grado di fornire occupazione lavorativa alla popolazione della frazione. Si trattò, quindi, di una sorta di “solidarietà tecnica”70 che, avuto riguardo esclusivamente al tema dell’occupazione lavorativa, non tenne conto né del tema della tutela dell’ambiente né di quello della tutela della salute umana, non preoccupandosi se

63

Corsini Paolo, Zane Marcello, Storia di Brescia: Politica, economia, società 1861-1992, Laterza, Roma, 2014, posizione 1823 (E-Book).

64

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pagg. 48-49.

65

Abeni E., La storia Bresciana: dall’unità d’Italia all’affermazione del fascismo, Del Moretto, Brescia, 1989, pag. 189.

66

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 49.

67 Ibidem, pag. 51 68 Ibidem, pagg. 36-37 69 Ibidem, pag. 38 70 Ibidem, pag. 51.

(20)

e quali conseguenze avrebbe potuto avere la produzione di prodotti chimici sulla popolazione e sul territorio circostante71.

Il sito presentava un’ulteriore peculiarità che lo rendeva inadatto ad ospitare un complesso chimico ovvero la natura geografica del territorio. Tale territorio è di tipo alluvionale ed è caratterizzato da una forte permeabilità e dalla presenza di molte falde acquifere e canali che confluiscono nel fiume Mella. Era adatto all’attività agricola, molto diffusa all’epoca nella zona72 ma non ad accogliere uno stabilimento chimico in quanto gli strati di terra sotterranei formati da ghiaia e sabbia si prestavano ad assorbire facilmente tutti gli inquinanti che potevano fuoriuscire dal processo chimico73.

Un ulteriore elemento che avrebbe dovuto preoccupare l’amministrazione bresciana sull’ubicazione della Caffaro era costituito dalla normativa vigente in quel periodo sulle industrie che trovandosi nelle vicinanze di centri abitati, potevano procurare nocumento alla popolazione. Infatti, nel 1888, il governo del Presidente del Consiglio Francesco Crispi, con l’ausilio di Luigi Pagliani74, aveva promulgato la “legge sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica”. Si trattava della normativa che assestò l’intero assetto sanitario italiano, attuando una riorganizzazione delle strutture e delle competenze. L’obiettivo era quello di prevenire rischi per la salute dei cittadini attraverso la creazione di un corpo normativo omogeneo per tutto lo Stato. La legge n. 5849 del 22 dicembre 1888, denominata “Legge Crispi – Pagliani”, inoltre, all’art. 38 si occupava di quelle industrie ritenute “insalubri75” per la salute dei cittadini.

71

Ibidem, pag. 54.

72

Corsini P., Zane M., Storia di Brescia: politica, economia, società 1861 – 1992, Laterza, 2014, posizione 1095-1096 (E-book).

73

Ibidem, pag. 48.

74 Luigi Pagliani era un medico e professore di igiene ambientale. Fu il primo a realizzare un

laboratorio di Igiene in Italia all’Università di Torino. Nel 1885 fu incaricato dal governo italiano di occuparsi dell’epidemia di colera scoppiata in Sicilia. Successivamente, nel 1887, fu incaricato dal Presidente del Consiglio Francesco Crispi di redigere la legislazione sanitaria che fu approvata con la “Legge sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica” nel 1888.

In http://www.treccani.it/enciclopedia/luigi-pagliani_(Dizionario-Biografico)/.

75

Secondo Silvana di Rosa, avvocato e consulente legale ambientale, per industrie insalubri la legge non indicava determinate tipologie di industrie, ma soltanto quelle che potevano emettere esalazioni insalubri o che potevano riuscire in altro modo pericolose alla salute degli abitanti. Fu solo con il “Testo Unico delle leggi sanitarie” legge n. 1265 del 27 luglio 1934, che il termine “insalubri” sarà riferito a determinate tipologie di industrie, come ad esempio quelle chimiche. Di

(21)

In base all’art. 38 tutte le manifatture e/o fabbriche che provocavano esalazioni rischiose per la salute degli abitanti dovevano essere indicate in due classi distinte. Nella prima classe venivano indicate quelle che dovevano essere isolate dalle campagne e dalle abitazione; nella seconda classe, invece, quelle che, in seguito all’adozione di “speciali cautele76”, potevano essere ubicate nei pressi dei centri rurali e urbani. Tuttavia, la legge introduceva una sorta di salvacondotto per le industrie che rientravano nella prima classe: era sufficiente che i proprietari delle industrie provassero alle amministrazioni di avere introdotto metodi innovativi o di adottare particolari cautele di produzione al fine di non arrecare nocumento alla salute dei cittadini. Ciò garantiva la possibilità di essere inserite nella seconda classe e quindi di poter edificare o mantenere la fabbrica nei pressi del centro abitato77. La valutazione della fabbrica e la sua classificazione legislativa era di competenza della Giunta comunale, secondo il R.D. n. 45 del 3 febbraio 1901 art. 93, decreto sviluppato per sollecitare gli adempimenti di tutela della salute da parte delle autorità locali, mentre, nei casi più spinosi, in base all’art. 94 della medesima la competenza spettava al Sindaco78.

Né la natura geografica del territorio né le leggi statali riuscirono, però, ad ostacolare la nascita della Caffaro a Brescia nel territorio indicato. Tutto questo fu altresì agevolato dalla situazione sociale ed economica del territorio che accolse la Caffaro agli inizi del ‘900.

La città di Brescia, all’epoca della costituzione della Caffaro, presentava un’economia mista, caratterizzata prevalentemente dal settore artigianale e agricolo, ma non mancavano casi isolati di piccola imprenditoria79. Fu proprio in questi anni, comunque, che Brescia, grazie all’iniziativa privata di alcuni bresciani, riuscì a sviluppare rami industriali capaci nel tempo di essere annoverati tra le maggiori realtà economiche nazionali. Fu il caso della società Tempini, che da piccola bottega artigianale fu trasformata in uno stabilimento capace di

Rosa Silvano, Industrie Insalubri, ma non solo industrie, in <<L’amministrazione italiana>>, Barbieri Editore, 1999, fasc. 5, pag. 750 – 760.

76

Barone A., Il diritto del rischio, Giuffré, Milano, 2006, pag. 6.

77

Ibidem.

78

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 54.

79

Corsini P., Zane M., Storia di Brescia: politica, economia, società 1861 – 1992, Laterza, 2014, posizione 1028 (E-book).

(22)

garantire lavoro a circa 400 dipendenti, fabbricando granate in ghisa e in acciaio, sciabole e spolette, commissionate dalla Regia Marina 80; stesso discorso vale per la Ditta Togni, che riuscì in quegli anni a garantire il lavoro a circa 1000 dipendenti, sfruttando le commissioni statali per la produzione di vagoni per i treni81. Il resto dell’industria bresciana era, invece, di derivazione straniera, in quanto i capitali e la gestione arrivavano tutti da fonti al di fuori del territorio bresciano. Ciò perché tale territorio offriva condizioni naturali, come la presenza di numerosi torrenti in grado di permettere lo sviluppo di energia idroelettrica, tali da agevolare lo sviluppo dell’industria siderurgica, ma anche metallurgica e tessile82. Tuttavia, non vi era una situazione economica e sociale in grado di garantire la piena occupazione della popolazione. Tale risultato poteva, quindi, essere raggiunto, solo, attraverso l’installazione di nuove realtà industriali capaci di assorbire una grande quantità di manodopera. Una situazione che fu sfruttata da coloro, banche e sindacati, i quali per rafforzare la loro posizione a favore della costruzione della Caffaro, ponevano con forza l’accento sul problema occupazionale del territorio e sui vantaggi che l’impianto stesso avrebbe potuto garantire. Secondo le organizzazioni sindacali riunite sotto la Camera del lavoro, infatti, lo stabilimento chimico avrebbe garantito l’occupazione di circa 500/1000 persone, in base ai numeri indicati dalla Ditta Erba e C.83. In realtà l’occupazione massima raggiunta dalla Caffaro arrivò a garantire l’impiego negli anni ’60 del novecento a circa 700 persone, per poi attestarsi di media sulle 450 unità84.

Tuttavia, con queste promesse l’azienda “Erba, Curletti e Zironi” si garantì anche l’appoggio incondizionato della classe operaia locale.

In definitiva: fu la società bresciana in tutte le sue espressioni istituzionali

a chiedere a Curletti, Erba e Zironi di insediare la loro fabbrica della soda a Brescia; ad essi, quindi, non si poteva che dimostrare gratitudine per avere infine donato alla città un complesso industriale tecnologicamente all’avanguardia in

80

Ibidem, posizione 1326 (E-book).

81

Ibidem, posizione 1360 (E-book).

82

Ibidem, posizione 1239 (E-book).

83

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 38.

(23)

un settore, quello chimico, che si riteneva portatore di straordinarie promesse di progresso e di quasi “miracolose” novità85.

1.2

PCB (policlorobifenili)

I PCB vengono prodotti per la prima volta agli inizi del XX secolo in America dalla multinazionale Monsanto86. La Monsanto fu fondata nel 1901 a St. Louis, Missouri, da John Francis Queen, il quale chiamò tale azienda con il nome “Monsanto” in onore della moglie, Olga Mendez Monsanto. L’azienda si caratterizza, fin dai primi anni, per la produzione di saccarina, il primo edulcorante sintetico che venne venduto in esclusiva ad un’altra azienda che si affacciava sulla scena economica mondiale negli stessi anni, la Coca-Cola. Successivamente la Coca-Cola richiese alla Monsanto di produrre per suo conto non solo la saccarina ma anche la vaniglia e la caffeina anche essi necessari per la produzione dell’omonima bevanda. I rapporti commerciali con la Coca-Cola consentirono alla Monsanto di accumulare i capitali necessari per la produzione e immissione di nuove sostanze chimiche sul mercato87.

Un importante passo per lo sviluppo dell’industria chimica americana fu costituito dalla capacità di ottenere dalla lavorazione del petrolio diversi composti organici mediante il processo di sintesi. Tra i più importanti per lo sviluppo successivo dell’industria chimica vi era il “benzene”, derivato dai composti chimici ottenuti dal petrolio e dal catrame e successivamente trasformato in “bifenile”, il quale, attraverso il processo di clorurazione, dà forma ai “poli-cloro-bifenili”, una famiglia di 209 composti chimici, detti “congeneri”, che si formano in funzione del rapporto cloro- bifenile e delle condizioni di reazione88.

L’elemento chimico che permise alla Monsanto di ottenere una posizione di monopolio sul mercato della produzione di sostanze chimiche (posizione che

85

Ibidem, pag. 52.

86

Robin M. M., Il mondo secondo Monsanto, Arianna Editrice, Bologna, 2009, pag. 14.

87

Ibidem.

88

APAT: Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici, Diossine, Furani e PCB, Roma, 2006, pag. 27.

(24)

ancora oggi detiene89) fu il PCB (policlorobifenile), una sostanza brevettata nel 1925 dalla Swann Chemical Company, un’azienda produttrice d’armi da fuoco e sostanze chimiche per l’esercito americano, costituita nel 1917 nella città di Anniston e che nel 1935 viene acquistata dalla Monsanto insieme al brevetto sui PCB90. Negli anni’30 del XX secolo, la Monsanto per ricavare dal brevetto sui PCB ulteriori introiti, concesse la produzione in esclusiva di tali prodotti ad alcune aziende nei paesi a maggiore industrializzazione, capaci di commercializzare tale prodotto nei mercati interni. In Italia, fu la Caffaro che nel 1936 riuscì ad acquisire i diritti per la produzione dei PCB91.

I PCB nascono per rispondere a varie esigenze in campo industriale in quanto si tratta di un composto chimico molto stabile e resistente sia agli acidi che al calore. Venivano usati negli spazi chiusi92, tipicamente industriali, come, per esempio, le apparecchiature elettriche, onde evitare la possibilità che si infiammassero; negli spazi aperti come additivi per antiparassitari o come ritardanti di fiamma, isolanti e vernici93. Inoltre, essendo sostanze cloro – derivate, hanno la capacità di sciogliere i grassi e di sciogliersi in essi mantenendo le loro proprietà in quanto composti non degradabili biologicamente94. Di fatto, i PCB venivano utilizzati per la produzione di vari prodotti in quanto le loro caratteristiche li rendevano un materiale unico per i lavori in alta pressione o in alta temperatura e per i prodotti destinati a durare nel tempo come le vernici o le carte auto copianti95.

Agli inizi della produzione dei PCB, nessuno sapeva quali sarebbero stati gli effetti della loro dispersione né sull’ambiente e sulla vita umana né animale e

89

Valsania Marco, Bayer acquisisce Monsanto per 66 miliardi di dollari, 14 settembre 2016, “Il sole 24 ore”. In http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-09-14/

90

Robin M. M., Il mondo secondo Monsanto, Arianna Editrice, Bologna, 2009, pag. 14.

91

Ruzzenenti M., La storia dei PCB, miracoli e disastri della tecnica nel Novecento, Fondazione Micheletti, pag. 4

92

La terminologia dei sistemi chiusi e dei sistemi aperti deriva dalla Termodinamica. Nel primo caso rientrano quei sistemi che non hanno rapporti di scambio di energia e materia con l’esterno. Nel secondo, invece, i sistemi che hanno rapporti di scambio di energia e materia con l’esterno. In http://www.treccani.it/enciclopedia/teoria-dei-sistemi_(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/

93

APAT, Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici, Diossine, Furani e PCB, Olimpia Girolamo, Roma, 2006, pag. 28.

94

Spezzano Pasquale, Inquinanti organici persistenti. In “Energia, ambiente e innovazione”, fascicolo 5, volume 50, 2004, pag. 30.

95

APAT, Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici, Diossine, Furani e PCB, Olimpia Girolamo, Roma, 2006, pag. 28.

(25)

soprattutto, né la Monsanto né le ditte che acquisirono la concessione se ne preoccuparono. La prima causa di tale indifferenza sugli effetti che avrebbero potuto avere i PCB fu il fatto che le loro molecole non hanno alcun odore percettibile a differenza di altre sostanze chimiche, come ad esempio il cloro, che emanano un forte e sgradevole odore percepibile da qualsiasi essere vivente96. Ciò comportava, che nessuna persona poteva essere consapevole di essere venuto a contatto o avere ingerito PCB e quindi queste sostanze non erano ritenute responsabili di causare determinate patologie, come la cloracne, una malattia che colpiva la pelle degli individui che erano stati a contatto con questo composto97.

A questo punto, è utile ricordare la definizione generale che oggi viene data dei PCB, una molecola “xenobiotica98” ovvero “estranea alla vita”, resistente alla degradazione biologica naturale, che si accumula nei tessuti degli organismi viventi attraverso quattro canali preferenziali: l’esposizione diretta sul posto di lavoro, l’utilizzo di materiali che lo contengono, l’abitare in una zona inquinata e nutrirsi di cibo proveniente dalla stessa zona. L’unico modo per distruggere i PCB è il processo di combustione ad altissime temperature mediante incenerimento.

Se da un lato, all’inizio della produzione dei PCB negli anni ’30, non si conosceva la reale tossicità di tali prodotti per l’ambiente e per la salute, dall’altro lato, ben presto la comunità scientifica poté stabilire quali fossero gli effetti che il contatto con i PCB provocava sui lavoratori degli stabilimenti interessati a tale produzione. Negli stabilimenti della Monsanto si erano, infatti, registrati, già negli anni ‘3099, numerosi casi di lavoratori fortemente intossicati mentre alla Caffaro il problema dei danni alla salute dei lavoratori si presentò solo alla fine degli anni ’70.

Nel 1977, un allevatore di Trezzano sul Naviglio, un grosso centro a sud di Milano, si vide “rifiutare il latte di sua produzione dalla ditta Nestlé, che l’aveva

trovato contaminato dal terribile tossico. I PCB provenivano dalla ditta Iempsa, che aveva rapporti commerciali con la Caffaro”100. Questo episodio fu il caso che

aprì la questione PCB in Italia e che, per la prima volta, mise in serie difficoltà la

96

Iacona R., Presa diretta, Puliamo il mondo, puntata del 31 marzo 2013 (minuto 4.35).

97

Ibidem.

98

Ibidem.

99

Robin M. M., Il mondo secondo Monsanto, Arianna Editrice, Bologna, 2009, pag. 19.

(26)

Caffaro in quanto ebbe una forte visibilità mediatica sugli organi di stampa101. Questo caso servì a puntare i riflettori sulla zona di Trezzano sul Naviglio; ne emerse una zona inquinata e con un alto tasso di persone affette da “cloracne” una malattia provocata soprattutto dal contatto della pelle con prodotti cloro derivati. Inoltre, si accertò la presenza di un alto tasso di mortalità a causa di tumori tra gli ex lavoratori della fabbrica dove si producevano condensatori contenenti PCB102.

Il 1977 rappresentò per la storia dei PCB una data chiave in quanto proprio in quell’anno, negli USA, ne fu sospesa la produzione, dopo che nel 1976 il Governo americano aveva avvertito tutte le aziende nazionali produttrici di PCB, come la Monsanto, della pericolosità di tali composti chimici103.

Prima dell’incidente di Trezzano Sul Naviglio, un altro caso aveva smosso l’opinione mondiale sulla questione dei PCB. Nel maggio del 1968, il Ministro della Sanità giapponese aveva incaricato l’università di Kyushu di studiare un caso di intossicazione verificatosi in circa 20 città del sud-est del Giappone, nelle quali per cause assolutamente sconosciute, oltre 1000 persone avevano perso la vita e altre migliaia era state intossicate. Nell’ottobre dello stesso anno, i ricercatori dell’università di Kyushu arrivarono alla conclusione che l’intossicazione era stata provocata dalla presenza nell’organismo delle persone colpite di “Kaneclor 400” ovvero una miscela di PCB (si stima che contenesse dalle 3 alle 5 parti per milione di PCB104). Attraverso gli studi effettuati su quelle persone i ricercatori riuscirono a stabilire, altresì, come tale sostanza inquinante fosse riuscita ad arrivare negli organismi umani. In pratica, tutte le persone che avevano subito l’intossicazione avevano assunto un olio commestibile estratto dal riso che in Giappone è denominato “Yusho” ( nome da cui deriva il nome che venne utilizzato per indicare l’intossicazione), infatti, il Kaneclor 400 veniva impiegato nello scambiatore di calore utilizzato nel processo di raffinazione dell’olio di riso e le tubazione dello scambiatore presentavano delle piccole micro fessurazioni che avevano rilasciato tracce di Kaneclor 400 nello stesso olio105.

101

Marzio Fabbri, Anche casi di tumori per il terribile PCB? In “La Stampa”, del 18 maggio 1977, pag. 13.

102

Ibidem.

103

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 357.

104

Fraser A., I PCB: un’altra Seveso?. In “Sapere”, Edizioni Dedalo, dicembre 1977, pag. 34.

(27)

Negli anni ’70, pertanto, vennero alla luce alcune conseguenze e alcuni degli effetti derivanti dalla produzione di PCB e in poco tempo una lunga serie di prodotti chimici appartenenti alla stessa famiglia, vennero messi sotto accusa e giudicati pericolosi106. Così, mentre in Italia una parte del dibattito ambientale era concentrata sui problemi dei “limiti dello sviluppo”, dibattito promosso dal Club di Roma, fondato da Aurelio Peccei107, l’altra parte si rendeva conto che lo sviluppo oltre ad avere dei limiti era anche pericoloso per l’uomo108. Ad aprire il dibattito sui problemi legati alla produzione dei PCB in Italia fu Barry Commoner, biologo americano e storico ambientalista di vecchia data, che concentrò le sue analisi sulle responsabilità dell’industria chimica e sugli effetti della sua produzione sull’ambiente. Secondo Commoner alcune delle produzione dell’industria chimica erano incompatibili con le “proprietà dell’ecosfera” e gli stessi prodotti non solo potevano essere pericolosi per l’ambiente e la salute degli essere umani ma potevano rappresentare un fattore in grado di sovvertire la stabilità ecologica del pianeta109.

Il sud-est del Giappone e, come vedremo in seguito Anniston e Brescia, furono, purtroppo, la dimostrazione della pericolosità dei composti chimici come i PCB; inoltre fornirono ai governi coinvolti la consapevolezza della loro pericolosità e la necessità di sospenderne la produzione. Nonostante tutto ciò, a distanza di quarant’anni da questi incidenti, i PCB sono ancora presenti nell’ambiente e hanno altresì raggiunto zone distanti anche migliaia di chilometri dai luoghi di produzione, come dimostrano diverse ricerche che hanno rilevato una presenza considerevole di PCB e di altre sostanze chimiche pericolose in animali, come lo squalo della Groenlandia110 e l’Orso polare111.

106

Spezzano P., Inquinanti organici persistenti, in “Energia, ambiente e innovazione”, Ente per le nuove tecnologie e l’ambiente, fascicolo 5, volume 50, 2004, pag. 31.

107

Della Valentina Gianluigi, Storia dell’ambientalismo in Italia: lo sviluppo insostenibile, Mondadori, Milano, 2011, pag. 108.

108

Commoner B., Le fabbriche del veleno. In “Sapere”, Edizioni Dedalo, aprile – maggio 1975

109

Ibidem, pag. 15

110

Lamorgese S., L’animale più inquinato? Lo squalo della Groenlandia., 14 aprile 2014. In http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/

(28)

1.3

La scoperta di un disastro ecologico

Come già accennato, l’episodio che permise di accendere i riflettori nazionali sulla produzione di PCB a Brescia e sui loro effetti, fu quello che interessò un allevatore di bovini residente a Trezzano Sul Naviglio, Comune in provincia di Milano. Nel 1977, infatti, la Multinazionale Nestlè si rifiutò di acquistare il latte prodotto dallo stesso allevatore in quanto dalle analisi espletate esso risultava contaminato dai PCB112. Su varie testate giornalistiche locali e nazionali in seguito a tale episodio si aprì un ampio dibattito sulla natura di tali composti e sui loro effetti sull’ambiente e sulla salute umana, arrivando a metterne in discussione la loro produzione113. Per la prima volta la Caffaro, dopo quarant’anni di produzione di PCB, si trovò ad affrontare le prime conseguenze delle sue scelte produttive e a far fronte ad un duro colpo per la sua situazione economica e per la sua immagine114.

La questione relativa ai problemi legati alla produzione di PCB, apertasi con l’episodio del 1977, si chiuse, definitivamente, soltanto nel 1988 con la chiusura all’interno della Caffaro, dei reparti in cui si producevano sostanze derivate dai PCB, come il fenclor, il cloresil e l’apirolio115. Si trattò di una scelta della Caffaro che a seguito della diffusione di notizie che riportavano i pericoli di queste sostanze, ravvisò una contrazione del mercato di riferimento di questi prodotti116.

A partire da quel momento l’interesse dell’opinione pubblica sul tema PCB si ridusse sensibilmente fino a scomparire completamente per quasi trent’anni ed essere riaperto soltanto nel 2001117. Ciò accadde, però in un contesto completamente diverso in cui la Caffaro risulta fortemente ridimensionata e sull’orlo del fallimento118. Infatti, lo stabilimento bresciano, dopo la chiusura dei reparti di maggior profitto, come quelli dei PCB e la crisi che colpì il settore

112

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 355.

113

Commoner B., Le fabbriche del veleno, in “Sapere”, Edizioni Dedalo aprile – maggio 1975.

114

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pagg. 355-366.

115

Ibidem, pag. 411.

116

Ibidem, pag. 374.

117

Bellu G., Bonini C., A Brescia c’è una Seveso bis, in “Repubblica”, 13 agosto 2001.

(29)

chimico dagli anni ’70 in poi119, si ritrovò in una situazione economica stagnante che gli amministratori della fabbrica cercarono di risolvere attraverso la fusione con altre grandi aziende chimiche. Tale strateglia, tuttavia, non permise di risollevare le sorti della Caffaro, che agli inizi del 2000 arrivò, sull’orlo del fallimento.

Il 13 agosto del 2001, sul giornale “La Repubblica” usciva un articolo di di Giovanni Maria Bellu e Carlo Bonini dal titolo inquietante: “a Brescia c’è una

Seveso Bis120”. Il titolo di per sé creava molte perplessità, in quanto ipotizzava

che nel Comune di Brescia fosse accaduto un disastro dall’entità paragonabile a quello che accadde nel comune di Seveso con l’Icmesa. Nonostante la presenza di un’industria chimica a Brescia come a Seveso e nonostante l’episodio del 1977 a Trezzano Sul Naviglio, nessun fattore faceva pensare ad un disastro causato dalla Caffaro. Le riflessioni a cui il lettore poteva essere indotto dal titolo dell’articolo erano, quindi, causate dal fatto che, a differenza di Seveso, in cui il disastro fu provocato da un episodio acuto di breve durata, a Brescia il disastro fu un evento di lunga durata che interessò il comune per tutto l’arco del tempo in cui furono prodotti i PCB; quindi, per conoscere realmente di cosa si trattava era necessario conoscere ciò che veniva prodotto dalla Caffaro, l’entità di tale produzione e quanto era stato versato nell’ambiente.

In sostanza, per capire se davvero c’era stato un inquinamento pericoloso e di quale entità esso fosse, sarebbe stato necessario analizzare ciò che era avvenuto all’interno della fabbrica nel periodo lungo quarant’anni in cui si producevano i PCB, per stabilire se e come tali sostanze fossero fuoriuscite dalla stessa fabbrica e quali effetti avessero avuto sull’ambiente e sulla popolazione circostante.

Questo fondamentale lavoro di analisi fu realizzato da Marino Ruzzenenti, professore di Storia Industriale all’Università di Brescia e sindacalista. Il professore, dal 1997 al 2001, attraverso l’analisi dei documenti interni allo stabilimento della Caffaro e della documentazione del Comune di Brescia riguardante tale fabbrica, riuscì a ricostruire l’intera storia della società chimica in relazione alla sua attività produttiva. Il lavoro fu pubblicato, nel 2001, con il

119

Ibidem, pag. 347.

(30)

titolo: “Un secolo di cloro e PCB: storia delle industrie Caffaro di Brescia121”. Al

suo interno troviamo la ricostruzione della storia della fabbrica dal 1906 ad oggi. Inoltre, sono presenti i primi risultati delle analisi condotte da diverse istituzioni che hanno rilevato la presenza su tutte le parti del territorio analizzato di diversi composti chimici, tra cui il PCB e altri materiali, come il mercurio, utilizzati durante le produzioni chimiche della Caffaro. Infine, nel libro troviamo le prime basi per lo sviluppo di un confronto tra il caso Caffaro e l’incidente di Seveso.

L’articolo comparso sul giornale “ la Repubblica” fu scritto dai due giornalisti proprio con l’intento di sottolineare l’importanza dei lavori di Ruzzenenti e, soprattutto, al fine di raccontare i risultati raggiunti, primo fra tutti, la dimostrazione che l’inquinamento di PCB era stato provocato dalla Caffaro. Sempre dall’articolo e sulla base degli scritti del Professore Ruzzenenti, emergeva chiaramente che anche la Caffaro aveva provocato a Brescia un disastro paragonabile al tragico incidente di Seveso, in quanto la produzione di PCB aveva “silenziosamente appestato Brescia122” lasciando nell’ambiente scarti tossici di

produzione insieme a sostanze già note per la loro tossicità come mercurio, rame e diossina.

Il paradosso di questa storia è che le ricerche di Ruzzenenti furono avviate per rispondere alle perplessità dei cittadini in merito al progetto di costruzione di un inceneritore 123 proprio in quella parte del Comune di Brescia che, storicamente, aveva ospitato la Caffaro e che era stata maggiormente colpito dalle sue emissioni.

All’inizio degli anni ‘90, infatti, il Comune di Brescia, attraverso l’Azienda dei Servizi Municipalizzati (ASM), aveva avviato un progetto per accogliere sul territorio un inceneritore di rifiuti solidi urbani. Si trattava della costruzione di uno degli impianti più grandi d’Europa, con una capacità di smaltimento di circa 266.000 tonnellate annue124. Proprio per queste rilevanti caratteristiche, il progetto dell’inceneritore fu, fin dall’origine, oggetto di interessamento e preoccupazione da parte della popolazione bresciana che

121

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001.

122

Bellu G., Bonini C., A Brescia c’è una Seveso bis, in “Repubblica”, 13 agosto 2001.

123

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 522.

(31)

attraverso la costituzione di comitati e con l’aiuto delle associazioni ambientaliste125 locali fece pressioni sul Comune affinché venissero effettuate le opportune analisi sul terreno che avrebbe dovuto ospitare il futuro inceneritore, in modo da conoscere le caratteristiche chimiche del territorio e valutare l’impatto che le emissioni dell’inceneritore avrebbero avuto sul futuro del territorio.

Le analisi furono effettuate dall’Azienda Sanitaria di Brescia (Asl) nel 1994, nel 1996 e nel 1998126, attraverso la costituzione di un équipe specializzata e attraverso i campionamenti di settanta punti omogeneamente distribuiti nel territorio del comune di Brescia e di altri venti nei comuni limitrofi. La porzione di territorio analizzata era a forma di cono, al vertice del quale si trovava la Caffaro e alla base i comuni meridionali al confine con Brescia, per un totale di circa 7 km2 di territorio posto sotto analisi.

Le prime analisi furono pubblicate nel 1995 e mostrarono un quadro molto preoccupante in quanto rilevavano un’elevata presenza nel terreno di PCB e mercurio127. Tuttavia, in quegli anni, in Italia non esisteva nessuna normativa che stabilisse i limiti legali massimi di tali sostanze e, pertanto, l’équipe che si occupò delle analisi dovette fare riferimento ai “limiti stabiliti dalle linee guida Olandesi

per quanto riguarda i composti organo clorurati128”, per avere elementi utili a

comprendere il livello della contaminazione129. Sulla base di tali linee guida l’équipe stimò che vi erano soprattutto tre punti del territorio che richiedevano particolari attenzioni e soprattutto un immediato intervento di bonifica130.

Le analisi, che erano state avviate per rispondere ai quesiti dei cittadini bresciani sullo stato del proprio territorio e sulla sua capacità di accogliere un inceneritore, resero edotti i cittadini della sussistenza di un inquinamento diffuso nello stesso territorio e della necessità di effettuare su di esso un’opera di bonifica.

125

In http://www.ambienteBrescia.it/inceneritoreAsm.html

126

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 523.

127

Asl di Brescia, opuscolo: il Caso Caffaro: un’analisi oggettiva, Castellanza, 2002, pag. 17.

128

ASL di Brescia, Relazione finale del comitato tecnico scientifico per la valutazione del rischio per la salute umana, correlato alla presenza nel terreno di sostanze tossiche, PCB e mercurio, nell’area Caffaro del comune di Brescia, Keisdata, 2003, pag. 25.

129

Ruzzenenti M., Un secolo di cloro e PCB, Jaca book, Milano, 2001, pag. 523.

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