• Non ci sono risultati.

L’Icmesa e il rapporto con il territorio.

L’Icmesa di Meda e il disastro del

2.4 L’Icmesa e il rapporto con il territorio.

Dai dati che l’Icmesa mise a disposizione della commissione parlamentare d’inchiesta, non risultava una stima precisa della quantità di Diossina scartata dal prodotto finito e successivamente smaltita dalla stessa azienda mediante un inceneritore di piccole dimensioni situato nei pressi della fabbrica257. Tuttavia, era chiaro che la Diossina era una sostanza costantemente presente nel processo di lavorazione dell’azienda 258 , soprattutto, perché l’Icmesa utilizzava un procedimento di produzione di triclorofenolo che si discostava dal brevetto originale, seguendo il metodo imposto dalla Givaudan259. Tale metodo in particolare, a differenza di quello originale, non prevedeva la presenza e l’utilizzo di strumenti per calcolare e controllare la temperatura raggiunta nel reattore durante la produzione260. Nella fabbrica, infatti, vi era un diverso meccanismo di controllo costituito da una “valvola di sicurezza” manuale, che, in caso di surriscaldamento del reattore, provvedeva a rilasciare acqua fredda261. Questo, ovviamente, faceva sì che i residui della lavorazione evaporassero in atmosfera a causa del contatto con dell’acqua fredda con il reattore che raggiungeva altissime temperature (paradossalmente fu l’azione che Carlo Galante, di cui abbiamo parlato in precedenza, aveva svolto per fermare la fuoriuscita della Diossina dal reattore al momento dell’incidente.). Nonostante il processo di produzione del triclorofenolo richiedesse un controllo assoluto della temperatura, sia per prevenire lo scoppio del reattore, sia per ottenere un prodotto finito più puro, l’Icmesa non aveva previsto alcuno strumento di misurazione e controllo262. Per i vertici dell’Icmesa e della Givaudan il rispetto delle direttive tecniche e legislative

256

Ibidem.

257

“Commissione parlamentare d’inchiesta”, pag. 69.

258 Ibidem, pag. 66. 259 Ibidem. 260 Ibidem, pag. 70. 261 Ibidem. 262 Ibidem.

non era importante o fondamentale, poiché essi miravano, esclusivamente, a ottenere la maggiore produzione di triclorofenolo, anche impuro, al minor costo possibile263, rendendo, di fatto, la sostanza ancora più tossica264.

Per comprendere meglio perché tutto ciò fu possibile, è necessario fare un passo indietro nella storia dell’Icmesa e ritornare al momento della fondazione nel 1945 dello stabilimento chimico, ovvero al momento in cui Rezzonico inviò al comune di Meda la domanda per ottenere l’autorizzazione a costruire una fabbrica per la produzione di prodotti farmaceutici.

La richiesta di Rezzonico fu presentata in un momento storico particolare per il comune di Meda e per l’Italia in generale, perché la Nazione si trovava ad affrontare le conseguenze e le difficoltà che la Seconda Guerra Mondiale, appena conclusasi, aveva prodotto sul tessuto sociale ed economico. Tuttavia, bisogna precisare che nonostante le difficoltà sottolineate, le realtà urbane del Nord erano tra i principali comuni soggetti all’immigrazione interna italiana soprattutto da parte di cittadini proveniente dal Veneto e dal Sud del paese265. Erano comuni la cui economia si fondava, principalmente, sul lavoro artigianale266 che, nel caso di Meda, riguardava, principalmente, la produzione di mobili, un settore che assunse per il comune un’importanza notevole già nell’Ottocento267. Erano presenti, inoltre, grandi fabbriche che si erano insediate in quei territori attratte dalla posizione geografica che faceva riferimento all’area metropolitana milanese, garantendo non solo maggiori collegamenti infrastrutturali, ma anche vari vantaggi e relazioni economiche con il Nord d’Italia e l’Europa268.

Erano vantaggi che furono presi in considerazione non solo dall’Icmesa ma, anche, da altre aziende del settore chimico, come dimostrano ad esempio l’installazione dell’azienda Snia a Varedo 269 , azienda specializzata nella

263

Nebbia G., “Mai più altre Seveso”, in http://gaiaitalia.it/home/campagne-e-iniziative/proposta- letture/scripta-minima/188-mai-piu-altre-seveso.html

264

Ibidem.

265

Crainz G., Storia del miracolo italiano: culture, identità, trasformazioni fra gli anni Cinquanta e Sessanta, Donzelli, Roma, 2005, pag. 108.

266

In http://comune.meda.mi.it/cittadino/informazioni/

267

Ibidem.

268

Ascoli U., Movimenti migratori in Italia, il Mulino, Bologna, 1979, pag. 109.

produzione di rayon viscosa e nylon e l’Acna di Cesano Maderno270, azienda che si occupava principalmente di coloranti. Tuttavia, tali realtà industriali non consentivano di avere la piena occupazione della popolazione locale e migratoria e per questo motivo le istituzioni locali cercarono da sempre di attirare nuovi stabilimenti al fine di garantire la maggiore occupazione possibile.

Questo appena descritto fu, quindi, il contesto in cui s’inserì la domanda del Rezzonico per la costruzione dell’Icmesa, domanda che le autorità locali presero immediatamente in considerazione, autorizzando la costruzione dell’impianto dell’azienda Icmesa. La commissione parlamentare d’inchiesta istituita dopo l’incidente del 1976 rilevò, infatti, che:

In un momento di grave crisi economica, probabilmente prevalse su ogni altra considerazione la prospettiva di insediare nel comune di Meda – nella quale l’attività più rilevante era quella artigianale – un impianto industriale destinato ad espandersi e che, secondo le previsioni formulate dalla Icmesa nella domanda di approvazione del progetto, avrebbe dovuto consentire l’occupazione di almeno trecento persone, ossia la creazione di un numero di posti di lavoro senz’altro notevole rispetto alla popolazione del luogo che nel 1946 contava 10.309 abitanti271.

L’obiettivo di creare posti di lavoro e sviluppo fu, quindi, il fattore fondamentale nelle scelte operate dalle istituzioni locali che accolsero e consentirono in tempi rapidi la costituzione della fabbrica (va rilevato che al momento dell’incidente il personale preposto all’attività lavorativa era complessivamente di 160 unità: 3 dirigenti, 45 impiegati e 112 operai272. Ben al di sotto dell’occupazione prevista dalla fabbrica al momento della formulazione della domanda di approvazione del progetto).

Occorre rilevare che, inizialmente, i fondatori dell’Icmesa raffigurarono l’azienda come una fabbrica produttrice esclusivamente di prodotti

270

Ibidem.

271

“Commissione parlamentare d’inchiesta”, pag. 60.

farmaceutici273, e pertanto nessun addetto ai controlli poteva immaginare che all’interno della stessa, con il passare del tempo, sarebbero state compiute delle attività produttive pericolose per l’uomo e l’ambiente come, appunto, la produzione di triclorofenolo. Sostanza che avrebbe, di fatto, immesso lo stabilimento in una delle due classi previste dalla legge sulle industrie insalubri del 1889, successivamente integrata nel testo unico sulle leggi sanitarie con Regio decreto 27 luglio 1934 n. 1265 art. 216274, e che avrebbe reso impossibile l’approvazione del progetto in un terreno situato nelle vicinanze di un centro abitato. Per questo motivo, ossia l’omissione della dichiarazione della produzione del triclorofenolo all’interno della fabbrica, sia il comune, sia le autorità preposte ai controlli acconsentirono alla costituzione dell’azienda rilasciando tutte le opportune autorizzazioni.

Nella fase di costituzione dello stabilimento, i fondatori dell’Icmesa e le istituzioni locali, trovarono quindi una convergenza d’interessi, ma in seguito tale stato di consenso tacito venne sempre meno. Fin dall’inizio dell’attività di produzione dell’Icmesa, infatti, la popolazione e il comune si sollevarono più volte contro la fabbrica accusandola di inquinare con i propri scarichi il torrente Certesa275 (o come chiamato localmente, Tarò276). A preoccupare la popolazione erano, non solo gli odori sgradevoli provenienti dalla fabbrica e dalle acque del fiume, che persino gli animali rifiutavano di bere ma, soprattutto, i crescenti casi di decesso proprio degli animali di allevamento che pascolavano nei territori limitrofi allo stabilimento e si dissetavano nelle acque del fiume Certesa277. Inoltre, la popolazione era spaventata dalle conseguenze che potevano derivare dal fumo causato dai continui roghi di materiale proveniente dall’Icmesa, materiale

273

Ibidem, pag. 60.

274

L’articolo 216 del testo unico delle leggi sanitarie stabilisce che: “le manifatture o fabbriche che producono vapori, gas o altre esalazioni insalubri o che possono riuscire in altro modo pericolose alla salute degli abitanti sono indicate in un elenco diviso in due classi. La prima comprende quelle che debbono essere installate nelle campagne e tenute lontane dalle abitazioni; la seconda quelle che esigono speciali cautele per la incolumità del vicinato. “Commissione parlamentare d’inchiesta”, pag. 76.

275

Cementeri L., Ritorno a Seveso, Mondadori/Paravia, Milano, 2006, pag. 20.

276

Ibidem, pag. 20.

che era depositato nel territorio circostante la fabbrica e in seguito bruciato all’aperto o mediante inceneritore situato all’interno della stessa278.

Date le numerose denunce dei cittadini, il comune fu più volte costretto a inviare gli ufficiali sanitari a controllare lo stato delle acque e fu così che nel 1953, gli stessi individuarono “la nocività delle acque del Certesa […] ritenendo

che ci fossero tutti gli estremi per qualificare la fabbrica di Meda come industria insalubre279”.

I dati degli ufficiali e le loro conclusioni non ebbero alcuna conseguenza sull’attività dell’Icmesa, da una parte per la negligenza del comune che lasciò l’azienda libera di continuare a funzionare nonostante fosse a conoscenza delle forti irregolarità riguardo alla produzione e lo smaltimento dei rifiuti280. Dall’altra, per la continua resistenza da parte della dirigenza e della proprietà respingeva l’eventualità di inserire la fabbrica tra le industrie insalubri281.

La popolazione fu così costretta, suo malgrado, ad abituarsi a vivere in un ambiente molto inquinato e, purtroppo, tale abitudine si trasformò nel tempo in indifferenza, come faceva notare Laura Conti282.

Il 10 luglio 1976, infatti, la popolazione considerò la fuoriuscita della nube dalla fabbrica in seguito allo scoppio come un evento ordinario simile a molti altri casi che si erano registrati nel passato. D’altronde, la nube e il suo strano odore si erano dissolti nel giro di pochi minuti283 e sul terreno non erano rimaste tracce visibili del suo passaggio che potessero fungere da campanello di allarme fra le persone che in seguito furono le vittime inconsapevoli dell’incidente. Nessuno poteva, quindi, immaginare che quella nube era stata causata dal surriscaldamento di un reattore nel quale veniva prodotta una pericolosa sostanza chimica come il triclorofenolo; inoltre, nessuno poteva ipotizzare né che il surriscaldamento del triclorofenolo comportasse la produzione

278

Ibidem, pag. 19. Sulle problematiche derivate dall’incenerimento dei materiali di risulta vedi: “Commissione parlamentare d’inchiesta”, pag. 69. Vedi anche, APAT, Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici, Diossine, Furani e PCB, Olimpia Girolamo, Roma, 2006, pagg. 19-20

279

Cementeri L., Ritorno a Seveso,Mondadori/Paravia, Milano, 2006, pag. 19.

280

“Commissione parlamentare d’inchiesta”, pagg. 83-86.

281

Cementeri L., Ritorno a Seveso, Mondadori/Paravia, Milano, 2006, pag. 19.

282

Conti L., Visto da Seveso, Feltrinelli, Milano, 1977, pag. 14.

di Diossina284, né quali potessero essere i suoi effetti sull’ambiente e sulla salute della popolazione. Nel 1976, infatti, le conoscenze scientifiche sugli effetti della Diossina erano ancora scarse e limitate agli studi di laboratorio e sui pochi casi d’incidenti industriali in cui erano rimasti coinvolti un numero limitato di operai285. Inoltre, non esistevano ancora degli strumenti tecnici preposti per la misurazione della quantità di Diossina nel sangue degli esseri umani, ma esistevano, esclusivamente, degli strumenti tecnici, come il carotaggio del terreno, per stabilire la presenza di Diossina nel territorio286. In altri termini, era possibile quantificare la Diossina depositata sul terreno, ma non era possibile verificare se la Diossina fosse stata presente nei tessuti umani.

Solo dopo una settimana dall’incidente le autorità e la popolazione riuscirono a conoscere la dinamica dell’incidente verificatosi all’interno dell’Icmesa, tuttavia non sapevano ancora quali sostanze fossero fuoriuscite287, né potevano certamente capire quali sarebbero state le conseguenze dell’incidente sull’ambiente e sulla salute delle persone che vi fossero venute a contatto.

In seguito all’incidente le autorità suddivisero il territorio interessato in tre aree sulla base delle concentrazioni di Diossina presenti all’interno di ognuna di esse 288 : la zona A, quella con la maggior presenza dell’inquinante fu completamente evacuata e bloccata ogni attività agricola, di allevamento, artigianale e industriale; la zona B che circondava il perimetro della zona A, che le autorità ritennero di non fare evacuare in cui, tuttavia, furono bloccate per un periodo le attività produttive; la zona R, o di rispetto, un’area che comprendeva anche i comuni di Cesano Maderno e Desio che fu, semplicemente, tenuta sotto controllo289.

La scelta di non evacuare completamente le tre aree colpite fu adottata dalle amministrazioni comunali interessate e dall’amministrazione provinciale di Milano per evitare nuove problematiche riguardanti l’evacuazione di migliaia di

284

“Commissione parlamentare d’inchiesta”, pag. 66.

285

Conti L., Visto da Seveso, Feltrinelli, Milano, 1997, pagg. 28-29.

286

Cementeri L., Ritorno a Seveso, Mondadori/Paravia, Milano, 2006, pag. 26.

287

Ibidem, pag. 25.

288

Conti L., Visto da Seveso, Feltrinelli, Milano, 1997, pag. 52.

persone290. Si trattava in sostanza o di scegliere tra l’“accettare la patologia da Diossina” o l’“affrontare la patologia da sfollamento, da disadattamento291”, come osservava l’Assessore Vittorio Rivolta292, tra i principali protagonisti delle misure adottate dopo l’incidente.

La rilevanza del disastro rese necessaria l’emanazione di provvedimenti urgenti da parte non solo delle autorità locali ma anche degli organi statali e regionali al fine di “risolvere i molteplici problemi giuridici, amministrativi,

organizzativi, tecnico-scientifici e finanziari 293 ” e di circoscrivere l’area

contaminata e assicurarne il continuo monitoraggio del territorio e della salute della popolazione. Gli stessi provvedimenti stabilirono quale fosse la zona soggetta a contaminazioni e quali fossero le necessarie opere di bonifica294.

I lavori di bonifica furono avviati agli inizi del 1977 e proseguirono fino agli inizi degli anni ottanta295. Essi, in sostanza, portarono alla distruzione delle case che si trovavano nella zona A e della zona B e all’esportazione di una porzione di terreno pari a circa 20 cm. Alla fine dei lavori, nel 1983, le autorità comunali decisero di realizzare nella zona A un parco, poi denominato “Il bosco delle Querce”, in cui furono sotterrate le due vasche contenenti il materiale contaminato296. Le due vasche furono ubicate in due zone separate, una nel comune di Meda e l’altra nel comune di Seveso.

Fu una soluzione che fu adottata per rispondere al problema dello smaltimento dei materiali contaminati che ammontavano a circa 280.000 m3. Infatti, prima di adottare tale soluzione, la Regione Lombardia, che si era occupata di trovare un metodo idoneo allo smaltimento di un tale volume d’inquinanti, aveva proposto altre soluzioni, ritenute, tuttavia, di difficile realizzazione, soprattutto, l’ipotesi di costruire un inceneritore dove bruciare tutto il materiale contaminato. Fu una proposta, che in un primo momento fu accolta come la più fattibile ma che, in seguito, fu accantona per le preoccupazioni della popolazione e delle Autorità locali sull’affidabilità dell’impianto d’incenerimento e sulla

290

Conti L., Visto da Seveso, Feltrinelli, Milano, 1997, pag. 50.

291

Ibidem.

292

Cementeri L., Ritorno a Seveso, Mondadori/Paravia, Milano, 2006, pag. 95.

293

Di Fidio M., il Bosco delle querce di Seveso e Meda, Regione Lombardia, Milano, 2000, pag. 28.

294

Ibidem, pag. 31.

295

Ibidem.

possibilità che una volta finito di smaltire il materiale inquinato continuasse la sua attività come semplice inceneritore di rifiuti. Tuttavia, la scelta di costruire un Bosco laddove era avvenuta la tragedia fu dettata, anche, dall’esigenza di risarcire le popolazioni colpite, trasformando “il luogo del dramma in un ambiente affatto

diverso, non solo risanato, ma anche arricchito naturalisticamente e bello esteticamente297

La scelta di conservare il materiale contaminato in loco fu dettata dall’esigenza di evitare ulteriori complicazioni derivanti dallo smaltimento di un enorme volume di materiali inquinati, corrispondenti a circa 280.000 m3.