EUTANASIA E SUICIDIO ASSISTITO: UNA PROSPETTIVA DE IURE CONDENDO
REQUISITI PROCEDURAL
4.9 CONSIDERAZIONI CRITICHE SULLA SENTENZA N 242/2019 DELLA CORTE COSTITUZIONALE
In questa sezione, ci concentreremo su alcune considerazioni critiche sulla sentenza n. 242/2019 Corte costituzionale. In particolare, discuteremo i rilievi mossi dall’Ordine dei medici a riguardo, in relazione al Codice di Deontologia Medica e del delicato ruolo che l’obiezione di coscienza riveste nella sentenza. Ci chiederemo quindi se, alla luce della pronuncia della Corte, sia davvero necessario un intervento del legislatore. Infine, torneremo su alcuni aspetti problematici della sentenza, ponendoci nell’ottica di chi la ha criticata più aspramente.
Una delle norme basilari del Codice di Deontologia Medica è enunciata nell’art 17, laddove si legge che «il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare ne favorire atti finalizzati a provocarne la morte». Appare quindi ovvio che la sentenza in discussione tocchi un aspetto fondamentale della professione medica, oggetto peraltro del giuramento di Ippocrate e da sempre considerato elemento di valutazione autonoma da parte della comunità medica. La risposta della Federazione Nazionale dei Medici Chirurghi ed Odontoiatri (FNOMCeO) non si è fatta attendere, ed il 30 maggio 2019, nel corso di un’audizione parlamentare, i suoi rappresentanti hanno ribadito che il medico non può far altro che definire clinicamente le condizioni sanitarie cui fa riferimento la Corte nella sentenza, ma che il suo compito non può essere quello di prescrivere farmaci che
possano condurre il paziente alla morte (nemmeno se questi abbia richiesto aiuto al suicidio). Due questioni rimangono pertanto aperte. Da un lato, è dubbio se sia sanzionabile, rispetto al Codice deontologico della sua professione, la condotta di un medico che metta in atto azioni ritenute non punibili dalla sentenza della Corte — e che, del resto non comporterebbero alcun obbligo. D’altro canto, come sottolineato dalla stessa FNOMCeO, l’eventuale entrata in vigore di nuove norme ispirate alla sentenza in esame non andrebbe automaticamente a modificare la disciplina deontologica — e dunque il Codice di Deontologia Medica sarebbe ancora valido.
La questione dell’obiezione di coscienza è un secondo punto che solleva problemi di non immediata soluzione123. Nella sentenza si legge infatti che si esclude «la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato». La Corte risolve cioè in poche righe la questione, ma al tempo stessa è molto chiara nel riconoscere indirettamente che il medico possa incorrere in un conflitto interiore e che la sua scelta debba essere interamente rimessa alla sua coscienza. Il conflitto che si crea, quindi, sta tutto nella contrapposizione tra la volontà del paziente e quanto enunciato dall’art 17 del Codice di Deontologia Medica, richiamato poche righe sopra. Dopo la sentenza in esame si apre quindi un dilemma inedito per il medico, una situazione in cui legge e coscienza, diritto positivo ed etica professionale, ontologia e deontologia, possono scontrarsi. Si badi bene che, come già ricordato, la sentenza non richiede al medico un obbligo che si contrappone alla deontologia, poiché se tale
Cfr. Colaianni, N. (2020). “Incostituzionalità prospettata e causa di giustificazione dell’aiuto al suicidio:
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contrasto emergesse il medico potrebbe fare ricorso all’obiezione di coscienza. Ciò che la sentenza invece produce è proprio creare la possibilità stessa del dilemma, acuire l’importanza del conflitto, rendere più rilevante la responsabilità del medico e, implicitamente, anche il suo imbarazzo, il suo disagio e la sua sofferenza.
Un terzo punto che merita di essere preso in considerazione riguarda la necessità di un intervento del legislatore a seguito della sentenza della Corte. Alcuni studiosi sostengono che, indipendentemente dalla condivisibilità del quadro 124 delineato nella sentenza, ed a meno di eventuali forzature, tale intervento sia possibile, ma non necessario. Si argomenta, infatti, che la materia potrebbe essere invece regolamentata ridefinendo la casistica individuata dalla sentenza in modo non penalistico e che in nessun caso sarebbe auspicabile un intervento parlamentare che estenda i requisiti sostanziali individuati dalla Corte125. In altri termini, questa interpretazione è quasi diametralmente opposta a quanto discusso
supra , perché individua un rischio di deriva (cioè di “pendio scivoloso”) che 126
porti infine a legalizzare l’eutanasia, vista come l’unica scelta davvero dignitosa.
Questa ultima considerazione ci porta a discutere del quarto punto che qui richiede ulteriore analisi, relativo cioè alle critiche che da diverse parti si sono sollevate circa alcuni passaggi fondamentali della sentenza in esame. Infatti, sebbene da molti la pronuncia della Corte sia stata accolta con grande soddisfazione, altri hanno manifestato forti riserve. In particolare, esse si concentrano sul fatto che la sentenza introduce una forte novità, ammettendo la
Per esempio Eusebi, L. (2019), op. cit.
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Ciò comporterebbe anche l’emergere di un contenzioso che consentirebbe un sindacato sulle nuove norme
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da parte della stessa Corte costituzionale. Si vedano le sezioni 4.1-4.5.
non punibilità di un soggetto che provoca la morte di un terzo al di fuori delle condizioni proprie nelle fattispecie di legittima difesa o di stato di necessità. Inoltre, risulta problematica la scelta di qualificare come terapie i mezzi attraverso i quali si possa pervenire a tale esito. Al di là di questioni legate alla condivisione di queste scelte della Corte nella loro sostanza, rimane il problema di valutare se esse siano state o meno opportune. Inoltre, ci si può interrogare sulla relazione di proporzionalità tra intenti della sentenza ed impatto sull’ordinamento giuridico. Infatti, l’obiettivo della Corte è quello di permettere ad un paziente che abbia interrotto le terapie di sostegno vitale di pervenire ad una morte rapida. Si argomenta che egli, però, se si avvalesse di una terapia del dolore (o se necessario sedazione palliativa profonda continua), potrebbe pervenire ugualmente allo stesso risultato in tempi brevi127. D’altra parte, questo obiettivo viene raggiunto nella sentenza introducendo nell’ordinamento giuridico il contesto di “cooperazione alla morte” e, in ultima analisi, della morte come risposta plausibile ai problemi dell’individuo.
In estrema sintesi, dunque, chi si oppone alla visione che abbiamo delineato nelle sezioni 4.1-4.5 (controbattendo alle critiche contrarie al ricorso alle pratiche eutanasiche ed alla loro presunta incostituzionalità) sostiene in primis che la sentenza si pone come fine quello di assicurare al paziente una morte dignitosa, ma è alquanto dubbio che anticipare artificialmente il fine vita sia dignitoso tanto quanto lo sia una morte naturale assistita che elimini (o minimizzi) le sofferenze. Inoltre, si ritiene che l’intento della sentenza di salvaguardare i congiunti ed i cari del paziente rispetto ad una morte che sopraggiunga più lentamente in
Va peraltro sottolineato che le motivazioni che portano un paziente a decidere di interrompere le terapie e
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scegliere il suicidio assistito possono essere fortemente influenzate dalla sua personale valutazione circa le modalità con cui si è sentito accolto, curato e sostenuto. Su questo aspetto si veda Colaianni, N. (2020), op.
condizioni di sedazione non abbia un esito scontato, dato che chi è vicino al paziente dovrebbe in ogni caso confrontarsi col il carattere mortale dell’esistenza umana. Ancora, si considera che i requisiti sostanziali e procedurali posti nella sentenza potrebbero risultare, nella prassi, di ardua ed incerta implementazione128, e quindi implicare forti rischi in quanto alla loro tenuta nel tempo. Infine, come discusso supra, si rileva esistere un irriducibile dilemma per il medico, che da una parte non può proseguire le terapie salvavita qualora il paziente ritiri il suo consenso, e dall’altra si deve attivare in prima persona per procurare la morte anticipata al malato.
4.10 LA QUESTIONE “FINE VITA” NELLA GIURISPRUDENZA