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LA PRESUNTA INCOSTITUZIONALITÀ DELLE PRATICHE EUTANASICHE ED IL CONCETTO DI DIGNITÀ DELLA VITA

EUTANASIA E SUICIDIO ASSISTITO: UNA PROSPETTIVA DE IURE CONDENDO

4.2 LA PRESUNTA INCOSTITUZIONALITÀ DELLE PRATICHE EUTANASICHE ED IL CONCETTO DI DIGNITÀ DELLA VITA

La principale critica all’introduzione dell’eutanasia nell’attuale ordinamento si basa essenzialmente sulla sua presunta incostituzionalità.

Da una parte, infatti, si argomenta che le pratiche eutanasiche, negando la protezione giuridica della vita, sarebbero inconciliabili con la Costituzione, laddove essa (in modo implicito o esplicito) tutela invece il “bene vita”101. In altre parole, non vi può essere un “diritto a morire” perché il “diritto alla vita” possiede un carattere assoluto. Quindi, l’eutanasia equivale all’omicidio, in quanto la vita dell’uomo è sempre degna di essere vissuta. A questa tesi si può però controbattere con il seguente ragionamento: ogni diritto fondamentale non è mai assoluto, ma sempre relativo ad altri diritti, ed infatti il diritto al rifiuto delle cure c.d. “salva vita” è tutelato dalla Costituzione. Inoltre, se anche il diritto alla Cioè, nei passaggi in cui questa richiama la tutela della libertà di coscienza, il principio di

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autodeterminazione, e la tutela della dignità.

Si veda a tale proposito Mantovani, F. (1988). “Aspetti giuridici della eutanasia”. Rivista italiana di

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diritto e procedura penale, 2: 455. Si noti anche che, secondo questo argomento, la legalizzazione

dell’eutanasia è incostituzionale, mentre le previsioni penali che la vietano sono in linea col dettato costituzionale.

vita e la dignità venissero considerati come origine di tutti gli altri diritti, non si vede perché da questi non possa derivare anche il diritto di morire102.

D’altra parte, come già discusso ampiamente nel capitolo 2, chi propende per l’incostituzionalità dell’eutanasia sostiene che il diritto a morire implicito in un atto eutanasico sia fondamentalmente diverso dal diritto al suicidio. Infatti, mentre quest’ultimo non richiede una relatio ad alteros, il primo appartiene alla sfera dei diritti di libertà e quindi implica una componente prestazionale, cioè presuppone un diritto di uccidere in capo ad un terzo. Anche questo argomento è però confutabile, dato che il terzo (tipicamente il medico) ha la facoltà di esercitare il diritto all’obiezione di coscienza: la prestazione può quindi essere fornita da un collega non obiettore. Piuttosto che di un “dovere di uccidere” cui il medico genericamente dovrebbe sottostare, si dovrebbe invece parlare della possibilità per il medico di formarsi un libero convincimento circa il comportamento da seguire nel caso fosse chiamato a mettere in atto una pratica eutanasica103.

Il medico, quindi, in quanto soggetto attivo del gesto eutanasico, non commetterebbe un atto antigiuridico104: il suo intento non sarebbe infatti quello di uccidere, ma di assecondare la richiesta di un paziente che ritiene la sua vita non più degna di essere vissuta, e di porle fine in modo indolore invece che terminarla in modo doloroso ed indegno.

Su questo punto: Jonas, H. (1997). Tecnica, medicina ed etica prassi del principio responsabilità. Torino:

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Einaudi.

Cfr. Neri, D. (1999). “La porta è sempre aperta? Osservazioni su dignità del morire, diritto ed etica

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medica”. Bioetica, 1: 156. Si noti che la situazione è simile a quella in cui si trovi un medico in caso di richiesta di aborto.

Va osservato che il potere pubblico, se da una parte è obbligato a proteggere il “bene vita” da azioni da

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altrui perpetrate, non può non disconoscere l’autonomia e la dignità della persona, se questa non danneggia direttamente gli altri.

La natura della valutazione circa la dignità o meno della condizione di vita dovrà quindi essere necessariamente soggettiva, perché non può esistere un modello di dignità oggettivo ed assoluto cui le vite delle persone possano essere comparate a parità di situazione vissuta. In altri termini, due persone che si trovino a vivere le stesse condizioni di malattia potranno valutare in modo differente il grado di dignità della loro vita — e quindi esprimere l’uno la volontà di porre fine ad essa e l’altro no — ma dovranno entrambi ricevere tutela per la loro posizione105.

Per comprendere meglio la natura inevitabilmente soggettiva del concetto di dignità della vita è utile rifarsi alla distinzione tra vita biologica e vita

biografica . Per vita biologica intendiamo, infatti, il periodo temporale che 106

intercorre dalla nascita alla morte del corpo umano. Ogni vita in senso biologico è quindi intrinsecamente degna in ogni sua fase, e deve essere tutelata in modo oggettivo. Non vi è qui spazio per una valutazione personale e soggettiva della dignità della vita umana, perché essa assume una sua “etica della sacralità”107. Per converso, la vita biografica è l’insieme delle esperienze e relazioni che un individuo ha vissuto durante la sua vita biologica. Ciò rende ciascun individuo unico e, in quanto essere senziente e pensante, capace di esprimere in modo tutto personale una valutazione soggettiva circa la dignità della propria vita per come la ha vissuta. La vita biografica è quindi caratterizzata da una dimensione umana, di autocoscienza, che ci riporta ad un’etica della qualità della vita ed al concetto di persona umana.

Si veda a riguardo Gemma, G. (2008). “Dignità umana: un disvalore costituzionale?”. Quaderni

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costituzionali, 2: 379-380.

Torneremo su questo punto nel capitolo 4.10, a proposito della giurisprudenza della Corte europea dei

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diritti umani.

Cfr. Neri, D. (2017). “Autonomia e dignità alla fine della vita”. Notizie di Politeia, 125: 117.

Pertanto, è solo rifacendosi all’idea di vita in senso biografico che si può fondare un’efficace valutazione di dignità della vita: «[l]a dignità è ciò che la persona, nella sua irrimediabile singolarità ed irriducibile autonomia, decide che sia e si basa sulla rappresentazione che si ha di sé stessi»108.