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L'ordinamento giuridico italiano dinanzi al diritto di morire. Normativa vigente e prospettive future

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Academic year: 2021

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale a Ciclo Unico in GIURISPRUDENZA (Classe LMG/01)

A.A. 2019-2020

L’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO

DINANZI AL DIRITTO DI MORIRE.

NORMATIVA VIGENTE

E PROSPETTIVE FUTURE

Candidato Relatore

Denise Chimenti Prof. Pierluigi Consorti

(2)

A mia madre, che con la sua mano, lontana, continua a guidarmi,

giorno dopo giorno.

Sento la tua anima esistere come io esisto.

(3)

“Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri.”

UMBERTO ECO

“L’eutanasia e il suicidio assistito sono una sconfitta per tutti. La risposta a cui siamo chiamati è non abbandonare mai chi soffre, non arrendersi, ma prendersi cura e amare per ridare la speranza.”

(4)

Sommario

Questo elaborato si propone di analizzare se, e in quale forma, il diritto di morire trovi, o possa trovare in futuro, uno spazio nell’ordinamento giuridico italiano. Rifletteremo su come la categoria “diritto” venga applicata in Italia alla riflessione sul morire, cercando di ragionare sia in un’ottica de iure condito, che, per quanto possibile, in una prospettiva de iure condendo. La trattazione prenderà le mosse, nel primo capitolo, con un esame della configurazione giuridica del concetto di morte e delle criticità legate all’individuazione del momento in cui si muore. Il secondo capitolo analizzerà come il diritto di morire non trovi attualmente spazio nell’ordinamento italiano. Esamineremo, dunque, in che misura le pratiche eutanasiche, nelle loro diverse fattispecie, siano considerate nel Codice Penale e come le pronunce della Corte costituzionale abbiano ammesso un ambito di aiuto non penalmente punibile al suicidio. Affronteremo poi i temi legati al diritto di rifiutare le cure, al consenso informato ed alla disposizioni anticipate di trattamento. Nel terzo capitolo, da una prospettiva metagiuridica, tenteremo di rispondere a tre domande: (i) chi dispone della nostra vita?; (ii) quali sono le relazioni tra diritto (e dovere) di vivere e diritto di morire?; (iii) esiste il diritto ad una morte dignitosa? Infine, nel quarto ed ultimo capitolo, prenderemo in esame le pratiche eutanasiche in generale, ed il suicidio assistito in particolare, in un’ottica de iure condendo.

(5)

INDICE

INTRODUZIONE 1

1. QUANDO SI MUORE? DEFINIZIONE DI MORTE

E SUO ACCERTAMENTO 6

2. IL DIRITTO DI MORIRE NELL’ORDINAMENTO

GIURIDICO ITALIANO 11

2.1 IL DIRITTO ALLA VITA NELLA COSTITUZIONE E NELLE SENTENZE DELLA CORTE COSTITUZIONALE 12 2.2 IL DIRITTO DI MORIRE NEL CODICE PENALE 14 2.3 L’ORDINANZA N. 207/2018 E LA SENTENZA N. 242/2019 18 2.4 CONSIDERAZIONI SULL’ORDINANZA N. 207/2018 25 2.5 IL DIRITTO DI NON CURARSI 29

2.5.1 IL RIFIUTO DELLE CURE ED IL CONSENSO INFORMATO 30

2.5.2 LE DISPOSIZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO 41

2.6 IL DIRITTO DI NON SOFFRIRE 49 2.7 LA LEGGE N. 219/2017: PROBLEMI INTERPRETATIVI 56

3. RIFLESSIONI METAGIURIDICHE SUL DIRITTO

DI MORIRE 62

3.1 CHI DISPONE DELLA NOSTRA VITA? 64 3.2 IL SUICIDIO: DIRITTO O DOVERE DI VIVERE (E MORIRE)? 66 3.3 IL RICONOSCIMENTO DEL DIRITTO AD UNA MORTE

(6)

4. EUTANASIA E SUICIDIO ASSISTITO:

UNA PROSPETTIVA DE IURE CONDENDO 72

4.1 LE PRATICHE EUTANASICHE: RIFLESSIONI PREMINARI 72 4.2 LA PRESUNTA INCOSTITUZIONALITÀ DELLE PRATICHE

EUTANASICHE ED IL CONCETTO DI DIGNITÀ DELLA VITA 76 4.3 I LIMITI AL RICORSO ALLE PRATICHE EUTANASICHE 79 4.4 L’ARGOMENTO DEL “PENDIO SCIVOLOSO” 81 4.5 LE CURE PALLIATIVE ED IL RUOLO DELLO STATO 83

4.6 LA PRONUNCIA DI NON PUNIBILITÀ NELLA SENTENZA N. 242/2019 DELLA CORTE COSTITUZIONALE 84

4.7 LA SENTENZA N. 242/2019 DELLA CORTE

COSTITUZIONALE: REQUISITI SOSTANZIALI 87 4.8 LA SENTENZA N. 242/2019 DELLA CORTE

COSTITUZIONALE: REQUISITI PROCEDURALI 89

4.9 CONSIDERAZIONI CRITICHE SULLA SENTENZA N. 242/2019 DELLA CORTE COSTITUZIONALE 91

4.10 LA QUESTIONE “FINE VITA” NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI 95

CONCLUSIONI 100

(7)

INTRODUZIONE

Il tema riguardante il diritto di morire è ritornato, negli ultimi anni, all’ordine del giorno nel dibattito politico, filosofico, e giuridico in larga parte dei Paesi occidentali . 1

Una delle principali ragioni per questa crescente attenzione va sicuramente ricercata nei recenti sviluppi tecnologici e bio-medici, che hanno permesso un allungamento della vita ed un aumento delle probabilità di sopravvivenza in circostanze che in passato avrebbero ineluttabilmente condotto alla morte, rendendo così possibile condizioni di esistenza nuove e drammatiche .2

Di conseguenza, l’opinione pubblica si è dovuta spesso confrontare con casi eticamente e moralmente laceranti — sia per la coscienza del singolo che per la tenuta sociale delle comunità di appartenenza — che coinvolgono delicate 3 questioni attinenti, in ultima analisi, alla relazione vita-morte ed all’autonomia individuale nel disporre della propria vita.

Il dibattito italiano sul diritto di morire è stato vieppiù stimolato dall’iter legislativo di approvazione della legge n. 219/2017 (“Norme in materia di

Borsellino, P. (2018), Bioetica tra “morali” e diritto. Milano: Raffaello Cortina Editore.

1

Balistreri, M. (2016). “La morte nella riflessione bioetica: il diritto a morire, il criterio di morte e la

2

speranza dell’immortalità”. Philosophical Readings, 8: 21-31.

Ci si riferisce qui in particolare ai noti casi, che in Italia hanno suscitato ampio clamore, di Fabiano

3

Antoniani (noto come “DJ Fabo”), Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, così come, al di fuori dei nostri confini, del piccolo Alfie Evans, di Charlie Gard e di Isaiah Haastrup. Si veda Razzano, G. (2018), “Il diritto di morire come diritto umano? Brevi riflessioni sul potere di individuazione del best interest, sull’aiuto alla dignità di chi ha deciso di uccidersi e sulle discriminazioni nell’ottenere la morte”. Archivio Penale, 3: 1-16.

(8)

consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) e da recenti 4 pronunce della Corte costituzionale . In particolare, queste ultime hanno avuto il 5 grande merito, da una parte, di sottolineare con forza l’assenza, nel nostro ordinamento, di una esplicita disciplina in materia di eutanasia e di suicidio assistito e, dall’altra parte, di orientare la discussione su questioni legate 6 all’intricato rapporto esistente tra ammissibilità giuridica delle pratiche eutanasiche e configurabilità di un diritto di morire nel nostro ordinamento.

Il legislatore non è stato però in grado sinora di iniziare il serio confronto politico da tanti auspicato, segno questo delle forti contrapposizioni esistenti nel Paese e nel Parlamento su questi temi. È solo del 28 settembre scorso la dichiarazione del Presidente del Consiglio dei Ministri, Prof. Avv. Giuseppe Conte, il quale, intervenendo a Ceglie Messapica (BR) durante un’iniziativa organizzata da “affaritaliani.it”, ha dichiarato, intervenendo «da giurista e da cattolico», che «se è possibile affermare con certezza l’esistenza di un diritto alla vita, non è altrettanto possibile affermare con la stessa certezza l’esistenza di un diritto di morire». Per contro, un’ampia parte dell’opinione pubblica (ed in particolare di medici, giuristi, filosofi e politici) si ritrova appieno nelle parole espresse da Umberto Veronesi , quando egli afferma che «l’eutanasia non può 7 che essere altro che il “diritto di morire”, il quale, come tutti i diritti della

Si veda infra in questa introduzione e più ampiamente nel capitolo 2.

4

In particolare, l’ordinanza n. 207/2018 e la sentenza n. 242/2019, anticipata nel comunicato rilasciato il 25

5

settembre 2019 dall’Ufficio Stampa della Corte costituzionale, al termine del giudizio di legittimità costituzionale inerente alla norma di cui all’art 580 Codice Penale. Si veda infra, capitoli 2 e 4.

Pertanto, non potendo affermare con certezza la liceità o meno delle pratiche eutanasiche, la dottrina ha

6

spesso individuato quali riferimenti norme costituzionali e sentenze della Corte costituzionale, norme di fonte codicistica e legislativa, il Codice di deontologia medica, e le norme contenute in trattati internazionali. Analizzeremo più approfonditamente questo punto nei capitoli 2 e 4.

Veronesi, U. (2005), Il diritto di morire. La libertà del laico di fronte alla sofferenza (A cura di Luigi

7

(9)

persona, fa capo unicamente al soggetto» e che ciò che va strenuamente difeso è il «diritto di ogni uomo all’autodeterminazione, cioè il diritto alla libertà» . 8

Questo elaborato si propone di analizzare se, e in quale forma, il diritto di morire trovi, o possa trovare in futuro, uno spazio nell’ordinamento giuridico italiano. Rifletteremo cioè su come la categoria “diritto” venga applicata in Italia alla riflessione sul morire, cercando di ragionare sia in un’ottica de iure condito, che, per quanto possibile, in una prospettiva de iure condendo.

La trattazione prenderà le mosse, nel primo capitolo, con un esame della configurazione giuridica del concetto di morte e delle criticità legate all’individuazione del momento in cui si muore. In particolare, ci soffermeremo sul concetto di morte come evento continuo e non puntuale, e su come il progresso biomedico abbia ormai posto questioni drammatiche circa la determinazione del fine della vita e pressanti interrogativi che riguardano la “qualità” di tale condizioni di vita.

Il secondo capitolo analizzerà come il diritto di morire non trovi attualmente spazio nell’ordinamento italiano. Verrà preso dapprima in considerazione il diritto alla vita e discuteremo di come esso, secondo la Corte costituzionale, possa essere desunto dalla Costituzione nonostante in questa non trovi un suo formale riconoscimento. Esamineremo quindi come le pratiche eutanasiche, nelle

Si noti che Veronesi qui intende il concetto di libertà individuale nell’accezione individuata dagli estensori

8

della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” promulgata in Francia nel 1789, cioè come possibilità per l’individuo di «poter fare tutto ciò che non nuoce agli altri» (art 4). Sempre nello stesso articolo della Dichiarazione, si legge che «l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento degli stessi diritti. Questi limiti possono essere determinati solo dalla legge». Secondo Veronesi, inoltre, chi nel confrontarsi con il tema del fine vita non possiede un sistema di pensiero che lo possa proteggere dalla violenza della morte, «non è più figlio di nessuno e diventa padre di sé stesso».

(10)

loro diverse fattispecie, siano considerate nel Codice Penale e come la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 207/2018 e soprattutto con la sentenza n. 242/2019, abbia ammesso un ambito di aiuto non penalmente punibile al suicidio, posto che questo venga richiesto dal malato che si trovi in particolari condizioni. Affronteremo dunque i temi legati al diritto di rifiutare le cure, al consenso informato ed alla disposizioni anticipate di trattamento, prendendo dettagliatamente in esame la legge n. 219/2017.

Nel terzo capitolo partiremo dalla considerazione che, se da una parte il diritto di morire rappresenta un interesse che attualmente non gode in Italia della protezione giuridica che spetta ad un diritto, dall’altra parte chi ne rivendica l’esistenza spesso lo concepisce come un “diritto morale”. Pertanto, anche il giurista si trova nella complessa situazione di valutare il significato di concetti quali vivere, soffrire e morire, specificatamente a ciascuna singola persona, in un contesto che va ben al di là della sua specifica sfera di competenza. Cercheremo quindi di muovere qualche passo in questa direzione metagiuridica, tentando di rispondere a tre domande: (i) chi dispone della nostra vita?; (ii) quali sono le relazioni tra diritto (e dovere) di vivere e diritto di morire?; (iii) esiste il diritto ad una morte dignitosa?

Infine, nel quarto ed ultimo capitolo, prenderemo in esame le pratiche eutanasiche in generale, ed il suicidio assistito in particolare, in un’ottica de iure

condendo. Ci concentreremo inizialmente su una più approfondita analisi del

concetto di eutanasia e delle critiche alla sua legalizzazione, discutendo anche il ruolo che il diritto può, e deve, avere nel disegnare nel futuro prossimo una disciplina normativa a riguardo. In seguito, torneremo sulla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale e ci chiederemo in che misura essa possa (o meno)

(11)

fornire le basi, negli anni a venire, per un percorso che conduca al riempimento dei vuoti legislativi al momento esistenti nel nostro ordinamento. Infine, analizzeremo sinteticamente come la questione fine vita sia stata affrontata nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani (Corte EDU) e quali siano, in prospettiva, le implicazioni per il nostro Paese.

(12)

CAPITOLO 1

QUANDO SI MUORE?

DEFINIZIONE DI MORTE E SUO ACCERTAMENTO

Il presente elaborato si pone l’obiettivo di analizzare se, e in quale forma, il diritto di morire trovi, o possa trovare in futuro, un suo spazio nell’ordinamento giuridico italiano. Al fine di muovere i primi passi in questa direzione, risulta imprescindibile, innanzitutto, comprendere come venga configurato giuridicamente in Italia il concetto di morte, e quali siano le criticità delle esistenti definizioni.

Appare importante notare, in via preliminare, che sebbene il tema della morte abbia da sempre rivestito un ruolo centrale nel dibattito giuridico, filosofico, psicologico e medico, la questione legata alla determinazione del momento in cui si muore non è stata caratterizzata, in passato, da elementi di problematicità.

Nell’ordinamento italiano, la legge n. 578/1993, rubricata “Norme per l’accertamento e la certificazione di morte”, ha introdotto una definizione legale di morte, identificandola «con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo» (art 1). Pertanto, secondo il legislatore, un organismo cessa di esistere come tale (cioè avviene il passaggio dall’essere uomo-vivente alla morte) quando l’encefalo perde irreversibilmente tutte le sue funzioni.

La definizione fornita dall’art 1, unitaria e generale, ambisce a ricomprendere tutti i tipi di morte, ma, per questo stesso motivo, pone una serie di questioni problematiche, prima fra tutte il fatto che la morte cardiaca venga ricondotta alla

(13)

morte cerebrale, cioè sia considerata fondamentalmente come una modalità del morire cerebralmente . 9

La definizione legale di morte va in ogni caso distinta dal suo accertamento , 10 per il quale la modalità più frequentemente utilizzata è quella “tradizionale”, ossia la rilevazione della cessazione dell’attività respiratoria e cardio-circolatoria. La legge n. 578 (art 2) propone il criterio della c.d. “osservazione passiva” ed è opportuno sottolineare che il paziente non può venir considerato cadavere – in linea di principio – se non è passato un giorno intero. Il tempo di rilevazione può essere esteso fino a 48 ore, se ricorrono elementi tali da far temere una mera apparenza della morte. Può d’altra parte anche essere abbreviato, per esempio in presenza di epidemie o di speciali esigenze di igiene pubblica.

Nella legge n. 578 sono però presenti anche dei criteri c.d. “efficaci” di accertamento della morte. In primo luogo, nel caso dell'accertamento della morte cardiaca, ossia «quando la respirazione e la circolazione sono cessate per un intervallo di tempo tale da comportare la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo», il criterio dell’osservazione passiva della morte è stato superato da quello dell’accertamento compiuto attivando un qualche strumento (elettrocardiogramma, elettroencefalogramma ecc.). Pertanto il paziente può considerarsi morto se l’elettrocardiogramma attesta la cessazione dell’attività

Azzoni, G.P. (2013). “Quando si muore? Presupposti ideologici e definizioni giuridiche”. In Carusi, D. (a

9

cura di), Davanti allo specchio. La persona, il diritto, la fine della vita. Atti del Convegno (Genova, 23

maggio 2012). Torino: Giappichelli, pp. 15-20.

A tale riguardo, si veda il decreto n. 582/1994 del Ministero della Sanità (“Regolamento inerente alle

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modalità per l'accertamento e la certificazione di morte”) ed il suo aggiornamento, cfr. decreto del Ministro della Salute dell'11 aprile 2008.

(14)

circolatoria per un periodo di venti minuti . In secondo luogo, per quanto 11 concerne la morte nei soggetti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a misure rianimatorie, essa si intende avvenuta quando si verifica la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo, ed è accertata con le modalità clinico-strumentali definite con decreto emanato dal Ministro della Sanità .12

Come già accennato, l’individuazione esatta del momento della morte non ha rappresentato oggetto di dibattito. In tempi più recenti, si è sviluppata però una nuova sensibilità verso l’interrogativo “quando si muore?”, soprattutto in forza del progresso biomedico. Da una parte, infatti, la chirurgia dei trapianti ha permesso la sopravvivenza di alcuni organi (ad esclusione del cervello) attraverso sempre più sofisticate tecnologie mediche, da un’altra parte le tecniche di rianimazione hanno consentito di prolungare una certa area grigia tra la vita e la morte.

Pertanto, il concetto di morte “vera e propria” ha assunto accezioni via via più sfumate e, allo stato attuale, ha perso la sua connotazione di certezza assoluta. Infatti (e ciò è vero già prima e indipendentemente dalle conquiste della téchne), la morte non è mai un evento istantaneo, ma piuttosto un processo: il corpo umano non muore tutto contemporaneamente, perché i diversi tessuti hanno differente capacità di resistenza alla mancanza di ossigeno. Ad esempio, anche nel caso in cui il cervello risulti compromesso, il cuore rimane in vita per un lasso di tempo che va dai quindici ai trenta minuti (anche senza rifornimento Cfr. l’art 1.1 del D.M. 11 aprile 2008, aggiornamento del decreto n. 582/1994, relativo al Regolamento

11

recante le modalità per l’accertamento e la certificazione di morte; e l’art. 8, D.P.R. 10 settembre 1990, n.

285, cit.

Azzoni, G.P. (2013). “Quando si muore? Presupposti ideologici e definizioni giuridiche”. In Carusi, D. (a

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cura di), Davanti allo specchio. La persona, il diritto, la fine della vita. Atti del Convegno (Genova, 23

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d'ossigeno), mentre i polmoni ed i reni possono continuare ad essere vitali per sessanta e centoventi minuti, rispettivamente. Altri tessuti, come le unghie e i capelli, continuano a crescere fino a molte settimane dopo la dichiarazione di morte.

Questa gradualità fisiologica del morire è stata intensificata dall’avvento delle tecniche di terapia intensive, attraverso le quali i pazienti ricevono, per esempio, il supporto alle funzioni vitali attraverso “respiratori artificiali” o “ventilatori”, in grado di mantenere la respirazione a tempo indeterminato .13

Così la morte, intesa quale processo che fa parte della vita, determinato da una cessazione lenta e progressiva degli organi e delle cellule che inizia con la vita stessa, ripropone il “paradosso del sorite” (dal greco antico σωρίτης, aggettivo di σωρός, che significa “mucchio”) attribuito al filosofo greco Eubulide di Mileto (IV secolo a.C.), ovverosia la questione del mucchio di sabbia per il quale non è dato sapere, togliendo un granello dopo l’altro, in quale istante smetta di essere un mucchio. Questo paradosso può essere utilizzato, per analogia, al fine di spiegare l’impossibilità di determinare con certezza assoluta l’inizio della vita di un individuo, ma anche, e forse soprattutto, per comprendere meglio la questione del fine della vita stessa: in che preciso momento un individuo può dirsi morto, giacché le parti del suo organismo non muoiono tutte simultaneamente e puntualmente? . 14

Azzoni, G.P. (2013). “Quando si muore? Presupposti ideologici e definizioni giuridiche”. In Carusi, D. (a

13

cura di), Davanti allo specchio. La persona, il diritto, la fine della vita. Atti del Convegno (Genova, 23

maggio 2012). Torino: Giappichelli, pp. 15-20.

Consorti, P. (2020). Diritto e Religione. Bari: Laterza.

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La possibilità che certe funzioni vitali possano essere controllate, in autonomia, da apparati tecnologici che non necessitano della collaborazione del paziente, la cui esistenza dipende di fatto da essi, non pone solo questioni circa la determinazione del fine della vita, ma anche e soprattutto interrogativi che riguardano la “qualità” di tale condizioni di vita, del senso della vita in tali circostanze, e di quanto tutto ciò possa dipendere da scelte operate da ciascuno in coscienza, al di là della applicazione di definizioni mediche e giuridiche più o meno stringenti (si pensi, per esempio, a pazienti in stato di coma profondo o vegetativo, o in stato minimo di coscienza) .15

La discussione condotta nel presente capitolo, esplorando alcune problematicità connesse al concetto di morte ed alla individuazione del momento in cui si muore, conduce necessariamente ad una riflessione sui profondi legami esistenti tra vita e morte ed apre la strada ad interrogativi profondi e complessi, riguardanti in ultima analisi la capacità dell’individuo di disporre della propria vita. Nel capitolo che segue, pertanto, analizzeremo diffusamente come il diritto alla vita e quello di morire siano giuridicamente ordinati in Italia.

Cfr. Consorti, P. (2020), op. cit. Si rimanda ai capitolo 3 e 4 per una discussione più approfondita di queste

15

(17)

CAPITOLO 2

IL DIRITTO DI MORIRE

NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO

La comprensione del significato di morte è strettamente correlata alla comprensione del significato di vita, e viceversa. Come scriveva infatti Georg Simmel, il modo in cui concepiamo la vita e la morte «sono soltanto due aspetti di un atteggiamento di fondo unitario» , suggerendo quindi che il nostro vivere 16 quotidiano in generale, e gli aspetti giuridici che lo regolano in particolare, non possano prescindere da un criterio uniforme mediante il quale diamo senso a questi due fenomeni così intimamente intrecciati.

Ne consegue che il tema del “diritto di morire”, declinato in termini di suicidio, assistito o meno, ed eutanasia , pone oggi una prima questione di fondo, 17 riguardante la capacità dell’uomo di disporre della (propria) vita. La centralità di tale tema è immediatamente comprensibile se si riflette sul fatto che diverse concezioni della vita implicano la possibilità che il morire (o il far morire) siano, da una parte, moralmente accettate e formalmente legittime da un punto di vista giuridico, o, d’altra parte, che siano negate sia eticamente che giuridicamente.

In questo capitolo, analizzeremo dunque come il diritto alla vita ed il diritto di morire siano giuridicamente ordinati in Italia, prendendo in considerazione la

Simmel, G. (2012). Metafisica della morte e altri scritti. Milano: SE, p. 9.

16

Per eutanasia si intende un’«azione od omissione che, per sua natura e nelle intenzioni di chi agisce

17

(eutanasia attiva) o si astiene dall’agire (eutanasia passiva), procura anticipatamente la morte di un malato allo scopo di alleviarne le sofferenze» (Enciclopedia Treccani). Si veda infra per definizioni più precise di ciascuna di queste fattispecie.

(18)

Costituzione, le sentenze ed ordinanze della Corte Costituzionale, i Codici Penale e Civile e soprattutto la legge n. 219/2017 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”).

2.1 IL DIRITTO ALLA VITA NELLA COSTITUZIONE E NELLE SENTENZE DELLA CORTE COSTITUZIONALE

Nonostante la sua incontestabile importanza, il diritto alla vita non trova un suo formale riconoscimento nella Costituzione italiana, così come del resto accade per il concetto di dignità umana. La ragione per tale scelta, nell’interpretazione della Corte costituzionale , va ricercata nell’esigenza di non circoscrivere nel 18 testo della Costituzione, quasi limitandoli, concetti appartenenti «all’essenza dei valori supremi» sui quali questa si fonda.

Ne consegue quindi che, come peraltro sottolineato in diverse occasioni dalla stessa Corte, il diritto alla vita debba essere considerato insito al nostro sistema costituzionale e vada reputato come “primo dei diritti inviolabili 19 dell’uomo” (sentenza n. 223/1996 Corte costituzionale), in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri . La tutela del diritto alla vita viene quindi 20

Se veda la sentenza n. 1146/1988.

18

Per una ricostruzione dei principi costituzionali in materia di diritto alla vita v. Loiodice, A. (1996). “Le

19

incoerenze degli ordinamenti giuridici in tema di aborto: profili costituzionali”. In Tarantino, A. (a cura di),

Per una dichiarazione dei diritti del nascituro. Milano: Giuffrè, pp. 189-196; Loiodice, A. (1997). “Il

protagonista della vita (l’embrione) nell’incertezza delle discipline giuridiche: profili costituzionali”. In Tarantino, A. (a cura di), Culture giuridiche e diritti del nascituro. Milano: Giuffrè, pp. 117-130; Loiodice, A. (2005). “La tutela dei soggetti coinvolti nella procreazione medicalmente assistita (ipotesi di riflessione)”. Intervento al Convegno “Procreazione assistita: problemi e prospettive”. Roma, Accademia dei Lincei, 31 gennaio 2005; Loiodice A. (1997). “La sfera giuridica del nascituro concepito: aspetti giuspubblicistici”. Relazione al Seminario di studi su: “L’inizio della persona umana, XX Anniversario della morte di Giorgio La Pira”. Roma, Università “La Sapienza”, 13-15 marzo 1997. Si veda anche Tarantino, A. (1998). Il rispetto

della vita - Aborto Tutela del minore ed Eutanasia. Napoli: ESI.

Torneremo sulle pronuncia della Corte costituzionale in materia di diritto alla vita nella sezione 2.3.

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garantita, secondo la Corte, dall’art 2 Costituzione (si veda la sentenza n. 35/1997 Corte costituzionale), nonché nonché dall’art 27 Costituzione, quarto comma — che prevede il divieto della pena di morte — e, in modo esplicito, 21 dall’art. 2 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) .22

Pertanto, secondo questa lettura, le decisioni costituzionali riguardanti il diritto alla vita possono essere prese in un contesto più ampio, rispetto ai singoli aspetti di esso che sono considerati rilevanti in specifiche disposizioni.

L’approccio della Corte costituzionale sin qui discusso, sebbene prevalente in dottrina, non è esente però da critiche , la principale tra le quali riguarda le 23 difficoltà che si possono incontrare a livello interpretativo quando si cerchi di individuare gli elementi identificativi del diritto alla vita. In particolare, non sempre è facile comprenderne la natura (se cioè si tratta di un diritto di libertà o di un diritto-dovere), l’ambito materiale (se cioè si parla di vita in senso meramente biologico o di dignità della vita) ed i limiti (se si tratta di un diritto 24 con limiti assoluti o relativi a date condizioni). Ne consegue che, sebbene l’esistenza del diritto sia di fatto affermata, può non essere semplice delimitare chiaramente una posizione giuridica sostanziale per il titolare.

Si veda la sentenza n. 54/1979 Corte costituzionale.

21

Cfr. Modugno, F. (1995). I “nuovi diritti” nella giurisprudenza costituzionale. Torino: Giappichelli.

22

Si veda Pirozzi, L. (2019), “Appunti per una riflessione sul diritto alla vita nella Costituzione italiana”.

23

Federalismi.it, 13.

Si veda il capitolo 4 per una discussione della distinzione tra vita biologica e biografica.

(20)

2.2 IL DIRITTO DI MORIRE NEL CODICE PENALE

Se, come abbiamo accennato, il diritto alla vita gode di un implicito riconoscimento, ottenuto attraverso l’esegesi della Carta Costituzionale, il diritto di morire sembra invece non trovare spazio all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, in generale, e nel Codice Penale, in particolare.

Va preliminarmente chiarito che l’eutanasia, in quanto azione od omissione che procura anticipatamente la morte di un malato allo scopo di alleviarne le sofferenze, può essere attiva o passiva (consensuale o meno). Essa si dice attiva quando avviene per cause esogene, cioè quando l’interessato richiede un intervento di un terzo senza il quale la morte avverrebbe a causa della naturale evoluzione della malattia. L’eutanasia si dice invece passiva quando avviene per cause endogene, cioè attraverso il rifiuto di trattamenti sanitari mediante il c.d. dissenso alle cure salvavita.

Rileva in particolare notare che, non esistendo al momento in Italia una regolamentazione del c.d. “fine vita”, l’eutanasia (passiva) sia di fatto assimilata all’omicidio. Più specificamente, nella disciplina penalistica, non viene punito il

suicidio ed il tentato suicidio. Lo Stato non può infatti impedire e punire la scelta

di morire, perché il suicidio spontaneo è un atto di libertà che non tocca la comunità e, di conseguenza, una legge che vietasse e sanzionasse in via generale il suicidio potrebbe essere considerata incostituzionale per violazione dell’art 2 della Costituzione.

(21)

Per ciò che concerne l’eutanasia attiva, essa viene considerata alla stregua di omicidio volontario, e pertanto è punita ai sensi dell’art 575 Codice Penale.

Esistono quindi due fondamentali diversità tra il concetto di “lasciarsi morire” e quello di “chiedere a qualcuno di essere attivamente aiutato a morire”. In primo luogo, quest’ultimo presume una richiesta, ed un atto ad essa conseguente, di carattere fondamentalmente anti-naturale. Ciò perché, sia la richiesta che l’atto, mirano a porre fine ad una vita umana, e non invece a lasciare che questa termini in tempi più brevi a causa del rifiuto di terapie di mantenimento. In secondo luogo, la richiesta di aiuto attivo configurerebbe la presenza di una relatio ad

alteros, poiché una terza persona (verosimilmente un medico) verrebbe coinvolto

nella scelta tutta personale di morire.

In altre parole, se fosse riconosciuto ad alcuni il diritto ad “ottenere un aiuto per morire”, per altri dovrebbe essere accordato specularmente una sorta di “dovere di uccidere” . Si tratterebbe cioè di estendere il diritto alla propria morte sino a 25 farlo coincidere con il diritto al proprio omicidio, giungendo pertanto ad un limite invalicabile. Infatti, nella situazione che si configurerebbe, di impossibile riconoscimento giuridico, un soggetto (cioè il paziente che vuole morire) dominerebbe la volontà di un altro (il medico che deve ucciderlo). In estrema

In altre parole, il riconoscimento del diritto sarebbe condizione perché il comportamento di un altro

25

soggetto sia scriminato; si veda: Chalersworth, M. (1996). L’etica della vita. I dilemmi della bioetica in una

(22)

sintesi, l’eutanasia attiva sarebbe intrinsecamente antigiuridica e, dunque, incostituzionale in quanto sostanzialmente antirelazionale . 26

Inoltre, il concetto di “lasciarsi morire” e la “richiesta di essere aiutati attivamente a morire” si differenziano anche poiché in quest’ultima non esistono di fatto intervalli temporali che possano permettere ripensamenti da parte del malato. Infatti, l’immediato nesso causa-effetto che lega la decisione eutanasica consapevole e l’evento morte «rend[e] di fatto “insostenibile” in tali situazioni la contraddizione teorica […] di una libertà (o diritto) “ad effetto irreversibile”» 27 Sarebbe pertanto impossibile riconoscere come diritto costituzionalmente garantito un atto che è causa della lesione istantanea e definitiva dell’integrità biologica del proprio corpo .28

Si veda: Cotta, S. (1983). “Aborto e eutanasia: un confronto”. Rivista di filosofia, 56-57: 22; D’Agostino,

26

F. (1991). “Criteri di valutazione giuridica. Parere del comitato nazionale per la bioetica sulla proposta di risoluzione sull’assistenza ai malati terminali”. Società e istituzioni, 9, p. 55, prevede anche l’ipotesi speculare in cui sia riconosciuta al medico «la potestà di negare con la sua la volontà eutanasica del paziente». Rimarrebbe anche in questo frangente l’antirelazionalità del rapporto, dal momento che «sarebbe in definitiva al medico che verrebbe riconosciuta dal diritto una vera e propria potestà sulla vita del paziente»; D’Aloia, A. (1998). “Diritto di morire? La problematica dimensione costituzionale della «fine della vita»”. Politica del Diritto. 4, p. 615; Portigliatti Barbos, M. (2006). “Diritto a morire”, in Digesto delle

discipline penalistiche, Torino: Utet, vol. IV, p. 5; Romboli, R., (1988). “La libertà di disporre del proprio

corpo, Art 5”. In Galgano, F. (a cura di), Commentario al codice civile Scialoja-Branca. Bologna: Zanichelli e Roma: Il Foro Italiano, p. 307; Stella, F. (1984). “Il problema giuridico dell’eutanasia: l’interruzione e l’abbandono delle cure mediche”. Rivista italiana di medicina legale, p. 1012; Ventrella Mancini, C. (1997). “L’eutanasia tra diritto alla vita e diritto alla libertà di autodeterminazione in Italia ed in Spagna”. Revista

española de derecho canónico. 54, p. 187. Per contro, Neri, D. (1995). Eutanasia: valori, scelte morali, dignità delle persone. Roma-Bari: Laterza, pp. 149-152, risponde a queste argomentazioni sostenendo che il

mandato eutanasico non possa essere insindacabile. Infatti, secondo l’Autore, il diritto di obiezione all’operatore sanitario sarebbe in ogni caso garantito. Neppure il paziente, d’altra parte, potrebbe rimanere in balia di una volontà contraria del medico, perché si garantirebbe il suo diritto imponendo all’obiettore di inviare il paziente a colleghi disponibili a praticare l’eutanasia. La relazionalità verrebbe in questo modo ristabilita.

D’Aloia, A. (1998), op. cit., p. 616.

27

Va rilevato che anche nel caso di rifiuto delle cure può seguire con relativa immediatezza il decesso

28

(instantaneità), non rimanendo spazi per ripensamenti e, quindi, per scelte future. D’altronde, Paesi che hanno legalizzato la possibilità di ottenere una prestazione terapeutica che consenta di porre fine alla propria vita di norma prevedono che tra la decisione e l’azione debba trascorrere un lasso di tempo che consenta ripensamenti. È il caso del “Death of dignity act” dell’Oregon (USA) che prevede debbano trascorrere 15 giorni in caso di richiesta orale e 18 ore in caso di richiesta scritta di aiuto a morire: Cfr. a tale riguardo Tripodina, C. (2001). “Eutanasia, diritto, Costituzione nell’età della tecnica”. Diritto Pubblico. 1, p. 149, nota 107.

(23)

L’analisi svolta sinora mostra che l’eutanasia attiva si configura come un evento contrario al diritto e quindi alla Costituzione, per gli elementi di antinaturalità, antirelazionalità ed instantaneità che la contraddistinguono.

Va notato altresì che, all’interno della fattispecie dell’eutanasia attiva, qualora sia stato manifestato il consenso del deceduto, viene configurata l’ipotesi di

omicidio del consenziente, punita ai sensi dell’art 579 Codice Penale.

Per quanto concerne, invece, il caso dell’eutanasia passiva (non consensuale), può essere configurato il reato di omicidio volontario, e ciò ai sensi dell’art 40 Codice Penale, per il quale «[n]on impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». In tale ipotesi, quindi, il reato viene in essere solo ove sussista a carico del responsabile un esplicito dovere giuridico di impedire l’evento morte.

L’eutanasia passiva consensuale, per converso, può ritenersi lecita: la diversa valutazione giuridica rispetto alle predette ipotesi (considerate illecite e perciò punibili) trae infatti origine dalla disposizione costituzionale di cui all’art 32, secondo comma, Costituzione. Da tale principio costituzionale, infatti, si deduce che la scelta di sottoporsi o meno alle cure è un diritto di libertà della persona, per cui non è possibile praticare una cura contro la volontà espressa del paziente (anche quando l’omissione della cura o la sua sospensione porti alla morte).

Infine, il suicidio assistito (inteso come aiuto medico e amministrativo fornito ad un soggetto che ha deciso di morire tramite suicidio) è ritenuto reato ed è punito ai sensi dell’art 580 Codice Penale. Tuttavia, la recente normativa (ordinanza n. 207/2018 della Corte costituzionale, la quale ha sollevato questione di legittimità

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costituzionale dell’art 580 Codice Penale e sentenza n. 242/2019 Corte costituzionale, che ne ha dichiarato una “parziale” illegittimità costituzionale) legittima il suicidio assistito se ancorato a particolari tutele .29

2.3 L’ORDINANZA N. 207/2018 E LA SENTENZA N. 242/2019

Giova qui ricostruire per sommi capi le questioni che hanno condotto alla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, riguardante la vicenda che ha coinvolto Fabiano Antoniani, da tutti noto come “Dj Fabo”, e il conseguente processo a Marco Cappato. Quest’ultimo si era infatti auto-denunciato presso l’Arma dei Carabinieri per il suo coinvolgimento nella vicenda di Dj Fabo, il quale, in seguito ad un grave incidente stradale, era diventato cieco e tetraplegico. Dopo anni di terapie senza esito, era giunto alla precisa consapevolezza di voler concludere un’esistenza che per lui non era più vita. Il 25 febbraio 2017, Cappato lo aveva accompagnato da Milano in Svizzera, utilizzando una vettura da lui guidata e predisposta appositamente a questo fine. Il personale della struttura medica prescelta in Svizzera, dopo aver verificato le condizioni di salute di Dj Fabo, aveva accertato il suo consenso ed il fatto che egli fosse capace di assumere autonomamente il farmaco che lo avrebbe condotto alla morte. Come si legge nella sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, il «suicidio era peraltro avvenuto due giorni dopo (il 27 febbraio 2017): azionando con la bocca uno stantuffo, l’interessato aveva iniettato nelle sue vene il farmaco letale». L’apporto di Cappato in termini di causa-effetto appare dunque limitato al suo ausilio nel trasferimento da Milano in Svizzera. Il contributo di Cappato, cioè, non è mai entrato nel cosiddetto momento

Per una trattazione critica della sentenza n. 242/2019 Corte costituzionale si vedano le sezioni 4.6-4.9.

(25)

“deliberativo” della decisione di porre fine alla propria esistenza, peraltro già precisamente maturata nel corso degli anni da Dj Fabo.

 

La vicenda giudiziaria nasce con la contestazione, da parte della Corte d’Assise di Milano, dell’art 580 Codice Penale, rubricato “Istigazione o aiuto al suicidio”.

Riportiamo testualmente il primo comma dell’articolo: «Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima».

 

La Corte d’Assise di Milano solleva, quindi, questioni di legittimità costituzionale dell’art 580 Codice Penale, con particolare riferimento ai seguenti due punti:

a) «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio», per ritenuto contrasto con gli artt 2 e 13, primo comma, e 117 della Costituzione, in relazione agli artt 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge n. 848/1955.

b) «nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante

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suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 [recte: 12] anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione», per ritenuto contrasto con gli artt 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Costituzione.

La Corte costituzionale ha quindi preso in esame le tre fattispecie che contraddistinguono l’aiuto al suicidio, e cioè l’istigazione, il rafforzamento del proposito e l’agevolazione, ribadendone la legittimità costituzionale per le prime due.  Per quanto riguarda la terza, la Corte ha invece concluso che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio per mezzo dell’agevolazione può essere, fermo restando alcune condizioni, compatibile con la Costituzione. Tali condizioni si riferiscono in particolare ai casi in cui il soggetto che viene agevolato sia una persona affetta da una patologia irreversibile, consideri intollerabili le sofferenze fisiche o psicologiche cui è sottoposto, si trovi nella condizione di essere mantenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, e sia in grado di prendere decisioni libere e consapevoli.

 

A riguardo, la Corte osserva che si tratta «infatti, di ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Costituzione».

 

La Corte richiama poi alcuni suoi principi — soprattutto in riferimento al caso Englaro — e le disposizioni normative vigenti, in particolare in relazione al 30

Per alcune riflessioni su questa vicenda, si veda p.es. Abignente, A. (2014). “Il caso Englaro. Una

30

(27)

consenso informato ed alle disposizioni anticipate di trattamento, contenute nella legge n. 219/2017 (si veda infra).

 

Secondo la Corte, però, «[l]a legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico di mettere a disposizione del paziente […] trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. Pertanto, il paziente, per congedarsi dalla vita, è costretto a subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care» (sentenza n. 242/2019, par. 2.3, cons. in dir.).

Inoltre, la Corte ribadisce che «entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt 2, 13 e 32, secondo comma, Costituzione» (sentenza n. 242/2019, par. 2.3, cons. in dir.).

 

Con ordinanza n. 207/2018, la Corte costituzionale ha quindi deciso di posticipare la decisione, al fine di permettere al legislatore di lavorare ad una disciplina legislativa più organica. Ha pertanto rinviato la mera declaratoria di incostituzionalità dell’art 580 Codice Penale, per quanto attiene all’aiuto al suicidio tramite agevolazione, garantendo un anno di tempo al legislatore affinché provvedesse.

Allo stesso tempo, la Corte ha fornito al legislatore una serie di suggerimenti ed indicazioni, riguardanti, per esempio, le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere

(28)

l’aiuto e la disciplina del relativo “processo medicalizzato”; l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale; e la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura. La Corte ha suggerito inoltre che l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non dovrebbe comportare il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, ad offrire al paziente concrete possibilità di accedere a cure palliative.

 

In seguito, nel 2019, la Corte ha preso atto dell’assenza di determinazioni del Parlamento, osservando che «nessuna normativa in materia sia sopravvenuta. Né, d’altra parte, l’intervento del legislatore risulta imminente». Pertanto, ha ritenuto di non poter «ulteriormente astenersi dal pronunciare sul merito delle questioni, in guisa da rimuovere il vulnus costituzionale già riscontrato con l’ordinanza n. 207/2018».

Ha così pronunciato la sentenza n. 242/2019, nella quale osserva che nei «casi considerati la decisione di accogliere la morte potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua».

 

La legge n. 219/2017 riconosce, infatti, ad «ogni persona capace di agire» il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella relativa nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art 1, quinto comma, si veda infra): diritto inquadrato nel contesto della «relazione di

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cura e di fiducia» tra paziente e medico. In ogni caso, il medico «è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo», rimanendo, «in conseguenza di ciò, […] esente da responsabilità civile o penale» (art 1, sesto comma).

 

La Corte osserva quindi che «[l]a legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte e la soluzione della sedazione profonda non sempre può essere un’alternativa, in quanto ha come effetto l’annullamento totale e definitivo della coscienza e della volontà del soggetto sino al momento del decesso». Ciò, sempre secondo la Corte, implica che «[n]on vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale».

La conclusione tratta dalla Corte nella sentenza n. 242/2019 è dunque che, entro lo specifico ambito considerato, «il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt 2, 13 e 32, secondo comma, Costituzione, imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita».

 

In conseguenza di ciò, l’art 580 Codice Penale deve essere dichiarato incostituzionale nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità

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previste dagli artt 1 e 2 della legge n. 219/2017 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) «agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente» .31

In estrema sintesi, il messaggio dato dalla Corte in questa fondamentale sentenza è che, poste determinate condizioni, l’agevolazione medicalmente assistita al suicidio risulta compatibile con i principi costituzionali dell’autodeterminazione e del diritto alla salute.

 

Inoltre, la sentenza della Corte vincola di fatto la legge n. 219/2017 agli ulteriori trattamenti di fine vita, quali il suicidio medicalmente assistito. Ciò viene espressamente enunciato dalla Corte nella declaratoria di incostituzionalità, nella parte in cui non si esclude la punibilità di chi agisce con l’articolo 1 – “consenso informato” – e con l’articolo 2 – “terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignità nella fase finale della vita” – della legge stessa (si veda infra).

 

Ci allineiamo a riguardo alle osservazioni della “Consulta di Bioetica Onlus”, che ha parlato di

31

“indicazione confusa” per quanto concerne il comitato etico territorialmente competente: «il comitato etico territorialmente competente oggi esistente è quello per la sperimentazione clinica, che non ha titolo né competenza di dare suddetti pareri”. Sottolinea inoltre la Consulta di Bioetica “che bisognerà correggere questa carenza e precisare l’indicazione in tal senso della Corte, ma tutto ciò, comunque, non modifica affatto né l’impianto né la direzione della sentenza».

(31)

Le motivazioni della Corte risultano infine coerenti con l’ordinanza del 2018. Il legislatore si è dimostrato assente, come purtroppo spesso accade in riferimento a decisioni che coinvolgono la sfera bioetica. La parola passa quindi, per l’ennesima volta, al legislatore, che ora è chiamato ad introdurre una disciplina che, seppur minima, sia in grado di permettere il riconoscimento dei diritti costituzionali evidenziati.

 

2.4 CONSIDERAZIONI SULL’ORDINANZA N. 207/2018

Al fine di inquadrare meglio la discussione che verrà ripresa ed estesa nel capitolo finale di questa tesi, è opportuno ora fare alcune importanti considerazioni riguardo all’ordinanza n. 207/2018 . 32

In primo luogo, l’ordinanza n. 207/2018, che nella forma si caratterizza come una decisione di rinvio a una nuova udienza, sottende in sostanza l’accoglimento della questione di costituzionalità dell’art 580 Codice Penale. Infatti, il passaggio chiave dell’ordinanza recita che «il diritto a por fine alla propria esistenza costituisce una libertà della persona, facendo quindi ritenere non lesiva di tale bene la condotta di partecipazione al suicidio che però non pregiudichi la decisione di chi eserciti questa libertà». Dunque, si vuole tutelare qui non tanto il diritto alla vita, quanto la libertà di suicidarsi, inteso come «un generico diritto all'autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita, che il rimettente fa discendere dagli artt 2 e 13, c. 1, Cost.» (par. 6, cons. in dir.). D’altra parte, la Corte riesce a fornire un’interpretazione dell’art 580 Codice Penale (che protegge la vita in quanto interesse sociale) che risulti conforme alla

Si veda Salazar, C. (2019). “Morire sì, non essere aggrediti dalla morte. Considerazioni sull'ordinanza n.

32

(32)

Costituzione. Ciò si evince dall’ordinanza quando essa sostiene che «l’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio — rinvenibile anche in numerosi altri ordinamenti contemporanei — è, in effetti, funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l'ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere» (par. 6, cons. in dir.). Quindi, lo scopo è anche quello di fornire una sorta di “cintura protettiva”, di carattere sociale appunto, per limitare i casi in cui «persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l'ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all'esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto» (par. 6, cons. in dir.), visto che è dovere della Repubblica «porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana» (art 3 Costituzione).

In secondo luogo, l’incostituzionalità dell’art 580 Codice Penale si basa per la Corte sulla mutazione del contesto fattuale: il progresso medico-tecnologico ha infatti trasformato la morte da evento naturale in un percorso artificiale, prolungabile in modo indeterminato, che però non garantisce l’eliminazione della sofferenza e quindi può trasformare il corpo in una insopportabile prigione. Tuttavia, la punizione dell’aiuto al suicidio è sì incompatibile con la Costituzione, ma solo in specifiche situazioni che non potevano essere

(33)

contemplate all’epoca in cui la norma impugnata è stata formulata, per esempio quando «il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli» (par. 9, cons. in dir.).

In terzo luogo, l’ordinanza sembra assimilare la libertà di suicidarsi, in quanto mera libertà di fatto, al principio dell’inviolabilità del corpo (art 13 Costituzione) ed al diritto all’autodeterminazione terapeutica (art 32 Costituzione) . Ciò si può 33 evincere da diversi passaggi, che fanno riferimento al «potere della persona di disporre del proprio corpo», all’«assenza nella nostra Carta costituzionale dell'obbligo di curarsi», al «diritto alla libertà e all'autodeterminazione [...] declinato dall'art. 32 della Costituzione», ed al «diritto a morire, rifiutando i trattamenti sanitari», ricondotto alla legge n. 219/2017.

In quarto luogo, la Corte non sembra interessarsi di questioni relative all’individuazione di nuovi diritti (senza Legge): nell’ordinanza non viene posto infatti il tema del diritto di morire come dimensione negativa del diritto alla vita, riconducibile all’art 2 Costituzione e art 2 CEDU. Per la Corte, da questi deriva solo il dovere dello Stato di tutelare la vita, «non quello — diametralmente opposto — di riconoscere all'individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire» (par. 5, cons. in dir.).

Cfr. Morrone, A. (2018). “Il «caso Cappato» davanti alla Corte costituzionale”. Forum dei Quaderni

33

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In quinto luogo, la Corte non mette sullo stesso piano il diritto di morire con quello di rifiutare le cure (art 32 Costituzione). Il tema è certamente complesso e verrà approfondito nei capitoli successivi. Giova però solamente sottolineare che il diritto di rifiutare le cure viene sovente equiparato al diritto di lasciarsi morire (o diritto di morire tout court), inteso come decisione individuale di sottrarsi (o negare il consenso) a trattamenti sanitari, anche a quelli salvavita, che non sono obbligatori per legge (legge n. 219/2017). L’ordinanza evidenzia invece come il «diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza» (par. 8, cons. in dir.) sia di fatto il punto di arrivo di un iter giurisprudenziale a cui si è arrivati dopo le sentenze sui casi Welby ed Englaro . Rimane pertanto aperta alla discussione una questione 34 fondamentale: in assenza di precisi vincoli imposti dalla Legge, in che misura il singolo può ritenersi «padrone assoluto e incondizionato della propria esistenza e del proprio destino biologico» ? Ovvero: esiste un modo di garantire 35 all’individuo il controllo sulle decisioni che riguardano la sua salute senza per questo fornirgli un’autodeterminazione illimitata?

Infine, l’ordinanza contiene un monito al legislatore, che si articola in quattro punti: (i) viene richiesta al Parlamento una previsione di verifica medica circa i presupposti per la richiesta d’aiuto, la disciplina del relativo processo medicalizzato, l’eventuale riserva esclusiva di erogazione del trattamento al servizio sanitario nazionale e l’introduzione dell’obiezione di coscienza; (ii) si suggerisce di operare sulla legge n. 219/2017 anziché sull’art 580 Codice Penale; (iii) si richiede che le vicende pregresse (come quella oggetto del giudizio a quo)

Si veda Consorti, P. (2020), op. cit. e Campione, F. (2009). L’etica del morire e l'attualità. Il caso Englaro,

34

il caso Welby, il testamento biologico e l’eutanasia. Bologna: Apocrifi.

Casonato, C. (2017). “Fine vita: il diritto all’autodeterminazione”. Il Mulino, 4: 597-604.

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possano beneficiare della nuova disciplina; (iv) si sottolinea la necessità di promuovere politiche che, come si è visto sopra, possano prevenire e contrastare situazioni di solitudine e di abbandono dei malati giunti alla fine della vita (par. 10, cons. in dir.).

2.5 IL DIRITTO DI NON CURARSI

Come si evince dall’analisi sin qui condotta, nell’ordinamento giuridico italiano il diritto di morire non viene espressamente garantito, sebbene venga invece riconosciuto il diritto di non curarsi (ed il diritto di non soffrire, che verrà preso in considerazione in maggior dettaglio più avanti).

Al fine di discutere più approfonditamente le tematiche connesse al diritto di non curarsi (e più in generali alle questioni inerenti al fine vita) nell’ordinamento italiano, ci concentreremo in questa sezione soprattutto sull’analisi della legge n. 219/2017, prendendo anche in considerazione l’ordinamento costituzionale, il Codice Civile, le sentenze della Corte costituzionale in materia e il Codice Dentologico . 36

Ci occuperemo qui, in particolare, del problema del rifiuto delle cure e del consenso informato, mentre nell’ultimo capitolo, in un’ottica de iure condendo, ci si interrogherà sulle possibili ragioni, favorevoli e contrarie, che possono portare ad un superamento dell’illiceità penale dell’eutanasia, riflettendo sulla legittimità costituzionale, o meno, di una possibile introduzione di tale pratica nel nostro ordinamento.

Per la discussione che segue si veda in particolare Adamo, U. (2018). Costituzione e fine vita. Disposizioni

36

anticipate di trattamento ed eutanasia. Padova: CEDAM; Eusebi, L. (1996). “Tra indisponibilità della vita e

miti di radicale indisponibilità della medicina: il nodo dell’eutanasia”. In Viafora, C. (a cura di), Quando

(36)

In via preliminare, va ribadito che, come già discusso in precedenza, il caso dell’eutanasia passiva (consensuale) trova una sua tutela costituzionale , dato che 37 comporta un non facere e determina il mancato avvio di un trattamento o la sospensione di un trattamento in corso (a prescindere dal suo costituire un sostegno vitale o meno). Nel caso di eutanasia attiva, invece, l’intervento da parte di un terzo non solo è riprovato dall’ordinamento, ma punito in quanto illecito penale. Ciò in quanto, come detto più sopra, il facere rappresenta l'attuazione della richiesta di condotta commissiva da parte del terzo (il medico) che è volta a procurare direttamente (da ciò il nesso di causalità) la morte dell’ammalato.

Va sottolineato, però, che anche nel caso di rifiuto di un trattamento già iniziato può rinvenirsi un sorta di esercizio di un’azione (p.es. il medico che “stacca la spina” configura una condotta attiva da parte di un terzo). Pertanto, al fine di minimizzare la possibilità che alcuni comportamenti risultino di difficile categorizzazione nelle due precise fattispecie di rifiuto o eutanasia attiva, è opportuno rifarsi ad un criterio basato sulla presenza o meno del rapporto causale, inteso come quel rapporto che intercorre tra la condotta del medico e il verificarsi o meno della morte (indotta o meno). In altre parole, in un caso l’interruzione del trattamento non comporta l’evento morte (non viene ucciso nessuno), nell’altro il decesso del paziente è provocato dal non arresto della fase patologica.

2.5.1 IL RIFIUTO DELLE CURE ED IL CONSENSO INFORMATO

Vediamo ora in più dettaglio come il diritto fondamentale al rifiuto delle cure trovi una sua tutela nella Costituzione e nel Codice Civile.

In particolare, la protezione dell'art 32, secondo comma, Costituzione.

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L’art 32 Costituzione riconosce il diritto fondamentale alla salute (sia come 38 diritto sociale che come diritto di libertà) e, nel secondo comma, sancisce esplicitamente il diritto fondamentale al rifiuto delle cure («nessuno può essere obbligato a un determinato :trattamento sanitario se non per disposizione di Legge»), prevedendo limitazioni solo per la tutela dell'interesse pubblico, dato che in nessun caso possono essere violati «i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Il diritto sancito nel secondo comma va inteso quindi non come diritto a morire, ma come diritto al rifiuto delle terapie. Poiché nella Costituzione non è fatta menzione di alcun dovere alla cura della propria salute, non vi sono pertanto limiti all’autodeterminazione del paziente, che quindi ha pieno diritto di non curarsi e persino di lasciarsi morire, non essendo permissibile la delineazione di un generale obbligo di curarsi. Va altresì notato che la Costituzione, anche in conseguenza del principio personalista sancito nell’art 2, ha operato un rovesciamento dell’assetto legislativo precedente, spostando in capo alla singola persona le scelte relative alla propria salute. Pertanto, i trattamenti sanitari possono avere carattere obbligatorio solo in alcuni casi particolari definiti dalla Legge, per esempio quando si riferiscono alla protezione della salute di una persona che non è in grado di provvedervi autonomamente.

Ovviamente, visto il sistema gerarchico esistente tra fonti di grado differente, anche il Codice Civile non può discostarsi dalle previsioni di una fonte di ordine superiore. Infatti, l’art 5 Codice Civile ribadisce che «gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica», alludendo alla libertà di porre in essere comportamenti relativi all’autodeterminazione che coinvolgono e interessano il proprio corpo, non già nei termini di poter

disporre, ma di libertà di disporre.

Si veda Carlassare, L. (1967). “L’art. 32 della Costituzione e il suo significato”. In Alessi, R. (a cura di),

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(38)

Giova qui sottolineare che il concetto di diritto alla salute, psichica oltre che fisica, va inteso in senso relativo (cioè dipende dalla concezione che ogni individuo ha del suo benessere psico-fisico) e trova riscontro anche nella sentenza n. 161/1985 della Corte costituzionale, nel passaggio in cui si sostiene che «gli atti dispositivi del proprio corpo, quando rivolti alla tutela della salute, devono ritenersi leciti», sempre che non siano lesivi di altri interessi costituzionali.

All’interno di questo quadro generale, va ribadito che il rifiuto delle cure (quando è libero) non è in alcuna maniera limitabile e va rispettato a prescindere dalle sue conseguenze, non trovando un limite assoluto nell’indisponibilità del “bene vita”. È importante notare che per rifiuto delle cure va intesa una qualsivoglia proposta terapeutica e pertanto tale rifiuto non si limita al solo accanimento terapeutico, evento nel quale ci si trova di fronte a «trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato (soggetto titolare del bene salute) e/o un miglioramento della qualità della vita» . 39 Ad esclusione dei trattamenti sanitari obbligatori, pertanto, esiste una libertà senza restrizioni, che ognuno può rivendicare, anche nella situazione in cui la richiesta di sospensione di un trattamento che mantiene in vita il paziente ne comporti la morte. Come già detto, tale sospensione (si pensi al distacco di un’apparecchiatura previo dissenso al trattamento in corso) va interpretata come rimozione di un ostacolo che fino a quel momento aveva ritardato il decorso della malattia verso la sua conclusione naturale.

Il rifiuto delle cure (o la richiesta di interruzione del trattamento sanitario) deve però avere un requisito essenziale: la persona deve essere giuridicamente capace, cioè deve trovarsi nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali e nelle condizioni di poter esprimere un consenso informato (inteso come il «risultato di un processo di

Si veda l’art 16 del Codice di Deontologia Medica (2006).

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condivisione degli elementi di certezza e di incertezza legati ad una determinata proposta diagnostica o terapeutica» ). Il consenso informato, considerato quale un 40 vero e proprio diritto della persona (che ha fondamento nei principi espressi negli artt 2, 13 e 32 Costituzione) è quindi un presupposto ordinario di legittimazione del trattamento medico, ed è caratterizzato da due aspetti: quello relativo all’essere informato sul trattamento sanitario e quello riferito all’accettazione (espressa con il consenso) del trattamento proposto.

Il paziente, in quanto soggetto decidente, non deve essere assoggettato al potere medico, sebbene le conoscenze teoriche del medico possano essere determinanti per l’accettazione del consenso, all’interno di un corretto e fiduciario rapporto di cura che si instaura tra medico e paziente. Per questo motivo, fornire un consenso non può limitarsi all’apposizione di una firma su un modulo prestampato. Il consenso, infatti, deve essere sempre qualificato: libero, informato (nel senso che il paziente deve aver ricevuto tutte le informazioni necessarie), cosciente e consapevole (nel senso che il paziente deve aver effettivamente compreso ciò che gli è stato spiegato e possa operare una scelta ragionata), completo ed effettivo . Superando gli schemi paternalistici applicati 41 in passato, oggi il paziente deve dialogare in modo informato col medico e, in quanto titolare della propria salute, deve decidere autonomamente. Sul medico ricade invece l’obbligo di informare in modo chiaro, per far sì che il consenso sia consapevole ed effettivo (la c.d. alleanza terapeutica).

Vediamo ora quali siano le basi giuridiche del consenso informato, libero e consapevole, del paziente all’attività medica. In primo luogo, esso trova un Si veda Casonato, C. (2008). “Consenso e rifiuto delle cure in una recente sentenza della Cassazione”.

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Quaderni costituzionali, 3:545-576.

Esiste anche un’ulteriore qualificazione del consenso, riguardante la sua attualità, nel senso che

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l’informazione e la consapevolezza dovevano emergere nel momento stesso in cui il trattamento doveva essere svolto. Si rimanda alla discussione di questo punto alla sezione in cui ci si occuperà delle cosiddette «dichiarazioni anticipate di trattamento».

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