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Nelle precedenti sezioni di questo capitolo, abbiamo ampiamente discusso gli ambiti in cui si applica la legge n. 219/2017. Essa non è però esente da problemi interpretativi, che illustreremo brevemente in ciò che segue .73

Il primo punto rilevante riguarda il tema dell’interruzione del trattamento. Sappiamo infatti che il paziente ha il «il diritto di revocare» il consenso prestato anche quando «la revoca comporti l’interruzione del trattamento» (art 1, comma 4) e che «il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa del paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale» (art 1, comma 5). Appare ovvio come la collaborazione del medico assuma un ruolo fondamentale nell’interruzione di un trattamento (molto di più di quanto lo sia nel caso di un

Corleto, M. (2007), op. cit.

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La presente trattazione è basata su Eusebi, L. (2018). “Decisioni sui trattamenti sanitari o «diritto di

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morire»? I problemi interpretativi che investono la legge n. 219/2017 e la lettura del suo testo nell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale dell’art. 580 c.p.”. Rivista Italiana di Medicina Legale e del Diritto in

rifiuto) e che essa richieda comportamenti attivi (di fatto, dei trattamenti sanitari). In altre parole, non potendo caratterizzare l’interruzione del trattamento come una semplice cessazione di un facere, non si può escludere che in questo caso al medico possa essere richiesto di mettere in atto trattamenti contrari «alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali» (art 1, sesto comma). In tale situazione, ci si può porre una domanda a cui è difficile dare una risposta: cosa succederebbe se il medico, per ragioni personali di coscienza, non volesse procedere attuando le misure necessarie per l’interruzione, per esempio di un trattamento salvavita? Una possibile via d’uscita ci viene proposta dallo stesso Codice di Deontologia Medica, quando nell’art 22 esso dispone che «[i]l medico può rifiutare la propria opera professionale quando vengano richieste prestazioni in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico-scientifici, a meno che il rifiuto non sia di grave e immediato nocumento per la salute della persona, fornendo comunque ogni utile informazione e chiarimento per consentire la fruizione della prestazione». D’altra parte, se il rifiuto di agire contro coscienza da parte del medico si riferisse alla volontà di salvaguardare un bene rientrante entro l’ambito dei diritti umani fondamentali, il diritto di sottrarsi ad un obbligo per motivi di coscienza avrebbe un fondamento nella Costituzione (e sarebbe da questa direttamente desumibile), anche se non fosse disciplinato dalla Legge.

Un secondo ambito interpretativo problematico concerne i casi in cui il medico deve astenersi dal fornire trattamenti sanitari . L’art 2, secondo comma, recita 74 infatti che «[i]l medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati».

Si noti che la nutrizione e l’idratazione artificiali sono considerati trattamenti sanitari ai sensi dell’art 1,

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Un punto che merita qui adeguato approfondimento è l’interpretazione del significato dell’aggettivo sproporzionati . Va notato che il criterio della 75

proporzionalità dei trattamenti sanitari è regolato dall’art 16 del Codice di Deontologia Medica, nella parte in cui si afferma che il medico «tenendo conto delle volontà espresse dal paziente o dal suo rappresentante legale e dei principi di efficacia e di appropriatezza delle cure, non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati». Più oltre, viene inoltre ribadito che «[i]l controllo efficace del dolore si configura, in ogni condizione clinica, come trattamento appropriato e proporzionato» e che «[i]l medico che si astiene da trattamenti non proporzionati non pone in essere in alcun caso un comportamento finalizzato a provocare la morte». Pertanto, il concetto di proporzione o sproporzione di un trattamento sanitario va necessariamente interpretato in senso relativo, dato che la sua definizione deve contemperare il punto di vista informato del paziente.

Un terzo punto che richiede una più attenta analisi è quello relativo al concetto di “sedazione palliativa profonda continua”. La norma contenuta nell’art 2, secondo comma , chiarisce che, ferme restando certe condizioni, il malato si possa 76 avvicinare al momento della morte in modo non consapevole, dato che, essendo appunto “palliativa”, la sedazione deve evitare che il paziente consenziente si possa trovare esposto a «sofferenze refrattarie» ai trattamenti . In altre parole, la 77 legge n. 219/2017 introduce uno strumento palliativo estremo riferito ai casi

Abbiamo già discusso il tema dell’ostinazione irragionevole (vedi supra), mentre nulla quaestio in merito

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al divieto di trattamenti inutili, cioè di trattamenti inefficaci.

Ci riferiamo all’ultima parte del suddetto comma, in cui si prevede la possibilità di ricorso alla «sedazione

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palliativa profonda continua in associazione alla terapia del dolore», e «con il consenso del paziente», «in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari».

E quindi sono le sofferenze a dover essere refrattarie ai trattamenti e non la patologia stessa: da qui il

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refrattari alle normali cure palliative, in cui la refrattarietà è riferita a sofferenze di carattere irreversibile (da qui l’aggettivo “continua”). Pertanto, in tutti quei casi in cui la sedazione profonda venga messa in atto a fronte di situazioni di refrattarietà reversibile, essa andrebbe interrotta se la condizione di refrattarietà cessasse, venendo a mancare il presupposto legislativo.

Una quarta questione problematica, che emerge con forza nell’interpretazione della legge n. 219/2017, è quella relativa al rapporto tra le DAT, l’informazione ed il ruolo del fiduciario. Come già discusso in precedenza, l’art 4, primo comma, dispone che le volontà in materia di trattamenti sanitari posso essere espresse attraverso le DAT da «ogni persona maggiorenne capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale incapacità di autodeterminarsi», ma solo «dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche sulla conseguenza delle sue scelte». Di conseguenza, le DAT non potranno assumere il rilievo giuridico di cui all’art 4, quinto comma, se non vengono accompagnate da una dichiarazione del medico competente che attesti l’avvenuta informazione verso chi le esprima circa le patologie cui esse si riferiscono, le risorse diagnostiche, terapeutiche e palliative in proposito disponibili, nonché sugli effetti delle dichiarazioni medesime. Sappiamo inoltre che le DAT possono essere disattese dal medico quando esse «appaiono palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistono terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione» (art 4, quinto comma), ma «solo in accordo con il fiduciario», venendo rimessa al giudice tutelare la questione in caso di conflitto. Pertanto, il ruolo del medico e quello del fiduciario vengono messi qui sullo stesso piano, sebbene le valutazioni da farsi siano di natura prettamente medico- scientifica. Va da sé che se la questione fosse rimessa ad un giudice, egli non potrebbe discostarsi troppo da una valutazione medica scientificamente motivata.

Anche il tema del trattamento sanitario nei confronti del minorenne non è esente da aspetti contestabili. Il secondo comma dell’art 3 afferma infatti che «[i]l consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità, e avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità». Va qui sottolineato che il ruolo del genitore (e del tutore) non può essere equiparato a quello del fiduciario. Viene infatti a mancare qualsiasi investitura da parte del minore verso cui sono responsabili. Genitori e tutori non possiedono pertanto alcuna insindacabile autonomia decisionale in vece del minorenne, fermo restando ovviamente il loro dovere ad agire nel suo supremo interesse.

Infine, va sottolineata con forza una particolare dimensione dell’interpretazione del concetto di «relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato» (art 1, secondo comma). Essa è relativa al ruolo del medico in tale relazione, che non può e non deve rappresentare solo una controparte del paziente, atta a garantire l’espressione della sua autonomia. Piuttosto, il medico deve essere in grado di cogliere, quasi percependole, eventuali pressioni esterne cui il malato potrebbe essere sottoposto al momento di decidere se rifiutare o meno terapie ancorché ragionevoli. Ci si riferisce qui, per esempio, a pressioni di tipo mediatico, culturale o politico, volte a persuadere (indirettamente) il malato circa la dignità della scelta di lasciarsi morire, anche a causa del costo economico causato alla società (ed all’onere sul piano dell’assistenza) che il protrarsi dei trattamenti comporterebbe. O, altresì, alla percezione da parte del malato, affetto da patologie invalidanti con poche probabilità di guarigione, di un clima strisciante di colpevolizzazione associato a

richieste di impegni sanitari e, parimenti, a tagli alle risorse trasferite alle famiglie per accudire malati non autosufficienti. In tutte queste situazioni, dunque, il medico che all’interno della relazione di cura sappia intercettare tali segnali, potrebbe meglio salvaguardare, mediante il dialogo, i diritti del paziente.

CAPITOLO 3

RIFLESSIONI METAGIURIDICHE