EUTANASIA E SUICIDIO ASSISTITO: UNA PROSPETTIVA DE IURE CONDENDO
REQUISITI PROCEDURAL
4.10 LA QUESTIONE “FINE VITA” NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMAN
In quest'ultima sezione, analizzeremo brevemente come la questione fine vita sia stata affrontata nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani (Corte EDU) e ci chiederemo in che termini la sentenza n. 242/2019 Corte costituzionale si sia approcciata ad essa.
Le principali pronunce in materia di fine vita della Corte EDU evidenziano, nel complesso, una cauta ma progressiva disponibilità rispetto al riconoscimento del
In particolare, da diverse parti — cfr. tra gli altri Colaianni, N. (2020), op. cit. — si sono sollevati dubbi
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circa l’effettività dei limiti sostanziali e procedurali tracciati dalla Corte, soprattutto in relazione all’esperienza passata riguardo all’accertamento medico del grave pericolo per la salute della donna richiesto dalla sentenza n. 27/1975 Corte costituzionale e all’impegno richiesto dalla legge n. 194/1978 per un serio aiuto alla donna che manifesti problemi in rapporto a una gravidanza.
diritto a morire con dignità129. Ciò appare chiaro, in particolare, nel passaggio della decisione del caso Pretty c. Regno Unito130, in cui i giudici di Strasburgo premettono che: (i) un qualsivoglia “diritto alla morte” non possa derivare dal diritto alla vita stabilito nell’art 2 CEDU; e che (ii) sebbene gli obblighi positivi di cui all’art 3 CEDU non impongano agli Stati di prevedere azioni volte a porre fine alla vita, le scelte di fine vita attengono pienamente all’autonomia personale (tutelata dall’art 8 CEDU).
Ne consegue, quindi, che si determini «un margine di apprezzamento molto ampio per gli Stati, anche alla luce dell'assenza di un consensus europeo in materia»131. D’altra parte, se la libertà individuale di scegliere come e quando porre fine alla propria vita rientra nell’art 8 CEDU, allora, uno Stato che voglia intromettersi nell’autonomia personale di un soggetto a riguardo, dovrà necessariamente farlo nei termini previsti dal secondo comma di tale articolo. In particolare, ogni ingerenza dovrà essere prevista per legge e perseguire uno scopo che, in una società democratica, sia «necessari[o] alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del Paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui». In tal modo, l’intromissione sarà giustificata da motivazioni sufficienti e risulterà proporzionale al fine di
Ci si riferisce qui in particolare alle sentenze sul suicidio assistito (Corte EDU, Pretty c. Regno Unito,
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ricorso n. 2346/02, sentenza 29 aprile 2002; Corte EDU, Koch c. Germania, ricorso n. 497/09, sentenza 19 luglio 2012); sui requisiti per l’accesso ai farmaci letali (Corte EDU, Haas c. Svizzera, ricorso n. 31322/07, 20 gennaio 2011; Corte EDU, Gross c. Svizzera, ricorso n. 67810/10, sentenza 14 maggio 2013); e sulla sospensione di idratazione ed alimentazione artificiale (Corte EDU, Grande Camera, Lambert e altri c.
Francia, ricorso n. 46043/14, sentenza 5 giugno 2015). In questo ultimo caso, vi sono state anche decisioni
di inammissibilità per manifesta infondatezza del ricorso, come nel caso della sentenza Corte EDU, Gard e
altri c. Regno Unito, ricorso n. 39793/17, decisione sull’inammissibilità del 28 giugno 2017.
Si noti che la sentenza della Corte EDU su questo caso è riportato anche sentenza n. 242/2019 Corte
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costituzionale.
Così Poli, L. (2020), op. cit.
contemperare l’interesse individuale e quello sociale, in una comunità basata sul pluralismo, la tolleranza e l’accettazione di visioni differenti in un contesto dialogico.
Un altro punto di sicura rilevanza che si può evincere da un’analisi della giurisprudenza della Corte EDU riguarda la preponderanza assunta, in molte sentenze, dal concetto di “vita biografica” rispetto a quello di “vita biologica”132. I giudici di Strasburgo, infatti, riconoscono che i recenti progressi in campo biomedico hanno reso necessaria una nuova e più profonda riflessione sui confini dell’esistenza umana e sulle convinzioni identitarie, in un’epoca in cui le persone potrebbero essere costrette a vivere in condizioni nelle quali in passato non sarebbero riuscite a sopravvivere133. Tuttavia, gli stessi giudici sostengono fermamente che ogni consenso ai trattamenti medici non possa essere inteso come mera accettazione di una terapia medica, ma debba essere fondato sulla percezione individuale della propria condizione, sulla propria struttura morale e sulla identità personale del paziente. Accettare che l’individuo possa vivere secondo le sue inclinazioni (e quindi svolgere attività che possano addirittura essere per se stesso dannose) implica però che, dal punto di vista giuridico, risulti in linea di principio complicato individuare i confini entro i quali uno Stato possa muoversi con gli strumenti del diritto penale per proteggere le persone dalle loro stesse azioni. Dunque, la giurisprudenza della Corte EDU indica nella casistica riportata nel secondo comma dell’art 8 CEDU gli ambiti all’interno dei quali lo Stato possa imporre delle limitazioni ad un soggetto che metta in atto comportamenti che costituiscano un pericolo per la sua salute o per la sua vita.
Per una definizione, si veda la sezione 4.2 supra.
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Cfr. Corte EDU, Pretty c. Regno Unito, Cit., par. 65.
Va altresì notato come l’impianto della sentenza n. 242/2019 Corte costituzionale sia abbastanza in linea con i due elementi che, come discusso sopra, caratterizzano la giurisprudenza di Strasburgo in materia. Infatti, i giudici della Consulta, da un lato, esprimono un timido riconoscimento del diritto a morire con dignità — delimitando nella sentenza in modo molto stretto le ipotesi di illegittimità costituzionale dell’incriminazione per aiuto al suicidio — e dall’altro sottolineano implicitamente la caratteristica soggettiva e morale del consenso come elemento centrale delle decisioni di fine vita.
Ci si può quindi chiedere, concludendo questo capitolo, quali possano essere le prospettive future per il nostro Paese, alla luce della giurisprudenza europea e della sentenza n. 242/2019 Corte costituzionale. Appare chiaro che, nonostante molte questioni rimangano aperte, la Corte EDU abbia largamente anticipato, con un lavoro di disamina ampio ed approfondito sulle questioni legate alle scelte relative al fine vita, ciò che avrebbe invece dovuto fare il nostro Parlamento. Allo stesso tempo, la giurisprudenza dei giudici di Strasburgo ha ampiamente informato le pronunce in materia della Corte costituzionale, che sembra avere recepito quanto sia fondamentale cogliere le peculiarità dei casi di specie e comprendere l’essenza della dignità del morire.
Ma ciò che forse emerge dalla discussione condotta in questo capitolo, in cui si è tentato di analizzare sinteticamente il dibattito esistente circa le pratiche eutanasiche e l’aiuto al suicidio, è la necessità di una approfondita, ampia e partecipata riflessione culturale sulla questione del fine vita, che coinvolga non solo la prospettiva del giurista, ma anche quelle del medico e dei cittadini (laici e credenti). L’auspicio è che questa riflessione abbia come punto di partenza l’attenzione alla condizione del malato terminale, alle sue fragilità e
vulnerabilità. Qualsiasi intervento normativo sulle pratiche eutanasiche e sul suicidio assistito non potrà infatti prescindere da un approccio “controllato”, che parta dalla necessità di tutelare di questi soggetti, ponendo da una parte chiari requisiti sostanziali e procedurali, e permettendogli di conservare la possibilità di decidere autonomamente circa la dignità della propria morte.
CONCLUSIONI
In questo elaborato ci siamo proposti di esplorare in che misura il diritto di morire ha (e potrebbe avere) un suo spazio nell’ordinamento giuridico italiano.
Partendo da un esame della configurazione giuridica del concetto di morte e delle criticità legate all’individuazione del momento in cui si muore, abbiamo dapprima discusso del diritto alla vita, inteso come speculare a quello oggetto di analisi, sottolineando come esso possa essere derivato dalla Carta costituzionale nonostante non trovi in essa un suo formale riconoscimento.
Abbiamo quindi analizzato come il diritto di morire sia giuridicamente ordinato in Italia, prendendo in considerazione la Costituzione, le sentenze ed ordinanze della Corte costituzionale, il Codice Penale ed il Codice Civile e soprattutto la legge n. 219/2017 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”).
La prima conclusione che si può trarre è che il diritto di morire non sembra avere spazio all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, in generale, e nel Codice Penale, in particolare. L’eutanasia attiva è infatti assimilata all’omicidio volontario — ed è pertanto punita ai sensi dell’art 575 Codice Penale — per gli elementi di antinaturalità, antirelazionalità ed instantaneità che la contraddistinguono. In presenza del consenso del deceduto, invece, viene configurata l’ipotesi di omicidio del consenziente (art 579 Codice Penale), mentre il suicidio assistito è considerato reato e punito ex art 580 Codice Penale. L’unica fattispecie di eutanasia che gode di uno spazio di tutela è quella passiva
e consensuale: secondo il dettato dell’art 32, secondo comma, Costituzione, infatti, la scelta di sottoporsi o meno alle cure è un diritto di libertà della persona e pertanto non è ammesso praticare una cura contro la volontà espressa del paziente (anche quando l’omissione della cura o la sua sospensione porti alla morte).
Ciò premesso, l’analisi dell’ordinanza n. 207/2018 Corte costituzionale (che sottende in sostanza l’accoglimento della questione di costituzionalità dell’art 580 Codice Penale sollevata dal giudice a quo) e della recente sentenza n. 242/2019 Corte costituzionale (che ne ha dichiarato una “parziale” illegittimità costituzionale), ha fissato i termini di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art 580 Codice Penale, in attesa dell’intervento del legislatore. Infatti, secondo la Corte, il progresso medico-tecnologico ha trasformato la morte da evento naturale in un percorso artificiale, prolungabile in modo indeterminato senza eliminare la sofferenza. Perciò, poste determinate condizioni, l’agevolazione medicalmente assistita al suicidio risulta compatibile con i principi costituzionali dell’autodeterminazione e del diritto alla salute.
Abbiamo quindi osservato come il concetto di diritto di morire sia strettamente connesso con quello di diritto di non curarsi, che a differenza del primo viene esplicitamente riconosciuto nel nostro ordinamento (art 32 Costituzione e art 5 Codice Civile), posto che il soggetto sia si trovi nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali e nelle condizioni di poter esprimere un consenso informato, le basi giuridiche del quale si trovano negli artt 2, 13 e 32 Costituzione. Un’importante considerazione su cui soffermasi è che il consenso informato, come sottolineato nelle sentenze n. 438/2008 e n. 253/2009 Corte costituzionale, debba essere considerato un diritto fondamentale, in virtù della sua funzione di
sintesi del diritto all’autodeterminazione e di quello alla salute. Questo principio viene accolto nella legge n. 219/2017, il cui esame (si veda il capitolo 2) ci ha permesso di sottolineare alcuni punti rilevanti per la nostra trattazione. Tra di essi: l’enfasi che nella legge viene riservata al concetto di relazione di cura, considerata come presupposto per un consenso davvero informato, e la chiara affermazione del diritto per il paziente di rifiutare qualsiasi terapia, o di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche quando tale revoca possa comportare conseguenze infauste.
Il tema del consenso previo al trattamento pone ovviamente una serie di problematiche di non semplice soluzione. Esse attengono soprattutto al potenziale conflitto tra libertà di coscienza del medico e scelta del paziente (per esempio nei casi di incoscienza del malato al momento in cui deve essere fornito il consenso) e vengono disciplinate nella legge n. 219/2017, come un’estensione logica del principio del consenso, attraverso l’istituto delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT). Sebbene con le DAT si miri a salvaguardare l’uguaglianza di trattamento tra soggetti capaci e incapaci ed evitare un godimento difforme di diritti fondamentali, è stato messo in luce un aspetto fortemente problematico, relativo alla conservazione della loro validità ed efficacia nel tempo.
La trattazione si è quindi concentrata sul diritto di non soffrire, anch’esso strettamente collegato, così come il diritto di non curarsi, a quello di morire. L’analisi svolta ci ha consentito di mettere in risalto alcuni importanti aspetti. In primo luogo, è stata sottolineato il carattere innovativo della legge n. 38/2010, che distingue chiaramente tra cure palliative e terapie del dolore. In secondo luogo, si è evidenziato come la legge n. 219/2017 da una parte consenta la “sedazione palliativa profonda continua” (che, diversamente da quella c.d. terminale — o eutanasia indiretta — ha
l’unico obiettivo di controllare il dolore attraverso il controllo dei sintomi refrattari), ma, dall’altra parte, vincola l’effetto positivo del trattamento sedativo ad essere sempre prevalente (in proporzione) al suo eventuale effetto negativo, quello cioè di accorciare la vita.
Sebbene la promulgazione della legge n. 219/2017 vada senz’altro considerata come un grande passo avanti, alcuni suoi passaggi non sono certamente scevri da problemi interpretativi. Tra i più rilevanti vanno ricordati quelli riguardanti il ruolo fondamentale del medico nell’interruzione del trattamento (ed i problemi deontologici che potrebbero emergere nel caso in cui egli per ragioni personali di coscienza, non volesse procedere attuando le misure necessarie per l’interruzione) ed i casi in cui la “sedazione palliativa profonda continua” venga messa in atto in situazioni di refrattarietà reversibile (per cui andrebbe interrotta se la condizione di refrattarietà cessasse, venendo a mancare il presupposto legislativo).
Si è quindi argomentato che, nonostante il vuoto legislativo esistente tutt’ora in Italia, il giurista che si accosta alle problematiche relative alle pratiche eutanasiche deve tener conto del fatto che spesso chi rivendica il diritto di morire lo concepisce come una pretesa giustificata da principi morali e, più in generale, che per comprendere appieno il suo significato occorre porsi da prospettive che vanno ben al di là della mera sfera giuridica. Pertanto, la discussione ha preso in considerazione, in un’ottica più filosofica e politica, alcune questioni legate alla complessa relazione tra vivere, soffrire e morire.
La prima di esse concerne la fondamentale domanda relativa a chi possa
realmente disporre della vita di ciascun individuo. L’analisi condotta ha posto in
politica in cui la collettività è immersa. Nelle moderne democrazie di stampo liberale, per esempio, si ritiene che la vita di ciascuno sia di chi la vive: pertanto, ogni decisione (consapevole) circa la sua prosecuzione in condizioni estreme e irrimediabili deve spettare solamente al titolare della vita stessa. Diametralmente opposte, invece, sono le concezioni di un credente (e per certi versi dei cittadini di regimi totalitari), per il quale, configurandosi una sorta di dovere di vivere, concepisce la sua vita come dono divino e quindi fuori dalla sua disponibilità.
La seconda questione riguarda la contrapposizione tra interessi della tra “società dei viventi” e le istanze dei morenti, che si pone in modo dirimente nel caso del “fine vita”. Pertanto, il giurista che perda di vista l’importanza di questa contrapposizione rischia di produrre soluzioni che, non riuscendo a cogliere la vita e la morte nella loro complessità, non riescono facilmente a contemperare le esigenze della “società dei viventi” con quelle dei morenti, destinatari ultimi delle scelte normative.
Un terzo punto oggetto di esame è quello relativo alle diverse concezioni riguardanti il tema del suicidio. In questo caso, analizzando la questione dal punto di vista del cittadino di uno Stato liberale e pluralista, abbiamo osservato che il diritto di vivere non può essere sostituito da un dovere di vivere. Chi decida di porre fine alla sua vita, quindi, potrà senz’altro chiedere aiuto altrui se fosse impossibilitato a farlo, ma dovrà scontrarsi con la libertà di autodeterminazione del terzo, che potrà esercitare o meno il suo diniego. Compito dello Stato sarà dunque quello di adoperarsi per prevenire le condizioni che potrebbero portare gli individui, soprattutto quelli deboli, a vivere condizioni di sofferenza ed infelicità che possono creare i presupposti per desiderare di mettere fine alla loro vita.
Per ultimo, è stata presa in considerazione la questione del riconoscimento del diritto ad una morte dignitosa in uno Stato liberale. Ci siamo cioè chiesti se, in presenza del diritto ad essere aiutati a morire quando la vita dipende da trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, possa esistere un uguale diritto nei casi in cui non serva l’ausilio di strumenti tecnologici per continuare a vivere in condizioni che si ritengono indegne, concludendo che, per chi propende per una risposta affermativa, il diritto ad una morte dignitosa deve necessariamente includere il diritto ad essere lasciati morire, ed in ultima analisi, anche quello di essere uccisi.
Il capitolo finale di questo elaborato si è quindi focalizzato sulle pratiche eutanasiche, in generale, e sul suicidio assistito in particolare, in una prospettiva
de iure condendo. Alla luce della discussione delle prime tre parti della tesi, ci si
è cioè interrogati su quali possano essere le basi, negli anni a venire, per un percorso che conduca al riempimento dei vuoti legislativi al momento esistenti nel nostro ordinamento.
L’analisi condotta ci ha permesso di fare alcune importanti riflessioni, che rappresentano anche le principali conclusioni di questo elaborato.
In primo luogo, l’introduzione dell’eutanasia nel nostro ordinamento dovrebbe superare la principale critica che gli viene mossa, cioè quella della sua presunta incostituzionalità, che deriverebbe sia dall’implicita negazione della protezione giuridica della vita, sia dal fatto che il diritto a morire insito in un atto eutanasico sarebbe fondamentalmente diverso dal diritto al suicidio (perché coinvolge spesso un terzo). Come si evince dalla nostra discussione, però, a tale critiche si
può controbattere argomentando che, da una parte, ogni diritto fondamentale non è mai assoluto, ma sempre relativo ad altri diritti e che, se il diritto alla vita e la dignità venissero considerati come origine di tutti gli altri diritti, non si vede perché da questi non possa derivare anche il diritto di morire. Dall’altra parte, è lecito sostenere che il terzo, avendo la facoltà di esercitare il diritto all’obiezione di coscienza, non avrebbe nessun “dovere di uccidere”.
In secondo luogo, una futura legge sull’eutanasia dovrebbe attentamente disciplinare le limitazioni imposte all’autonomia del richiedente, cioè circoscrivere e limitare il ricorso ad essa. Ciò perché, anche quando un diritto non interferisce in sfere giuridiche altrui, e ad ognuno è garantito il diritto di prendere in autonomia decisioni personali, le scelte individuali di grande portata non possono essere effettuate su basi emotive o irrazionali. Il legislatore, quindi, dovrebbe circoscrivere discrezionalmente, in conformità rispetto al dettato costituzionale, i limiti imposti all’autonomia del richiedente riguardo ai casi, i presupposti e le modalità di accertamento della validità della domanda di eutanasia. Si configurerebbe quindi un diritto a morire che non presuppone una scelta tra la vita e la morte, ma tra due modi di morire.
In terzo luogo, legalizzare l’eutanasia significherebbe anche superare chi vi si oppone con l’argomento del c.d. “pendio scivoloso”. Per far ciò, occorrerebbe disegnare un’eventuale proposta di legge di eutanasia in forma “controllata” e non assoluta, in cui cioè non si introdurrebbe un dovere di uccidere da parte del medico, ma piuttosto un “dovere” di aiutare a morire di morte serena ed opportuna il paziente che coscientemente lo richiede, sempre che questo non collida con i convincimenti del medico stesso.
In quarto luogo, la legge dovrebbe essere concepita in modo tale da superare l’obiezione che le cure palliative siano già sufficienti a rendere di fatto più dignitosa e meno disumana la condizione di vita del malato terminale. Ovviamente, a ciò si potrebbe controbattere sostenendo che un paziente sedato può ugualmente trovarsi in una condizione psicologica e relazionale tale da fargli considerare non dignitoso continuare a vivere. Diventa quindi centrale, in una futura Legge, il ruolo che può giocare lo Stato nel limitare al massimo il ricorso all’eutanasia come unica via di uscita da una situazione drammatica, per esempio attraverso l’assistenza sociale del malato con prognosi infausta e di quello terminale.
In quinto luogo, una futura legge non potrebbe non tenere in considerazione la recente sentenza n. 242/2019 Corte costituzionale (e l’ordinanza ordinanza n. 207/2018 che la precede), ma dovrebbe risolvere alcune questioni spinose che essa ha sollevato. Tra di esse, i rilievi mossi dall’Ordine dei medici a riguardo in relazione al Codice di Deontologia Medica; il delicato ruolo che l’obiezione di coscienza riveste nella sentenza; l’introduzione della non punibilità di un soggetto che provoca la morte di un terzo; la scelta di qualificare come terapie i