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IL RICONOSCIMENTO DEL DIRITTO AD UNA MORTE DIGNITOSA: ALCUNE CONSIDERAZION

RIFLESSIONI METAGIURIDICHE SUL DIRITTO DI MORIRE

3.3 IL RICONOSCIMENTO DEL DIRITTO AD UNA MORTE DIGNITOSA: ALCUNE CONSIDERAZION

Riconoscere il diritto ad una morte dignitosa in una società moderna, liberale e pluralista, porta necessariamente con sé una congerie di questioni di difficile soluzione.

In linea di principio, sarebbe auspicabile che l’ordinamento giuridico assicuri a ciascun cittadino la possibilità di vivere e concludere la propria vita secondo i valori in cui crede. Allo stesso tempo, però, si dovrebbe evitare che l’etica privata assuma un carattere pubblico — e sia quindi imposta anche a chi non la condivide. Quindi l’etica pubblica si dovrebbe fondare su un principio di

autonomia, cioè dovrebbe possedere un “carattere formale” atto a rendere

compatibile l’etica pubblica con le istanze che le singole etiche private propongono.

Si pone a questo punto un dilemma cruciale: i cittadini di una società in cui tale principio di autonomia venisse garantito possono godere del diritto ad una morte dignitosa? In altre parole, il diritto a morire dignitosamente può essere dedotto dal suddetto principio di autonomia? La risposta a queste domande non è immediata.

Infatti, se il principio di autonomia si intende come libertà del soggetto di decidere “da sé e per sé solo” si rischia di dimenticare che, come abbiamo discusso in precedenza, l’autonomia individuale di un singolo finisce dove inizia l’autonomia degli altri e che, pertanto, autonomie private e pubbliche sono intimamente e inscindibilmente connesse . In altri termini, attribuire a qualcuno 91 il diritto di uccidersi, di essere lasciato morire o di essere aiutato a farlo — quando egli ritenga che la propria vita sia indegna di essere vissuta — significa conferire a questi un diritto soggettivo. Ciò implica necessariamente che altri debbano mettere in atto azioni conseguenti. Quindi, fornire a qualcuno la libertà o il potere di agire secondo la propria etica privata significa obbligare altri a fare, o a non fare, qualcosa. Ci si deve pertanto chiedere come tali azioni, di tipo attivo o omissivo, vengano valutate dall’individuo che le deve mettere in pratica, se siano cioè contrarie o quantomeno indifferenti rispetto alla sua etica privata ed ai suoi principi morali.

Una possibile soluzione potrebbe essere quella di configurare il diritto di morire in senso meramente attivo . Si dovrebbe cioè sempre permettere ad una persona 92 di porre fine alla propria esistenza, anche se questo comportasse azioni atte ad Cfr. Lalatta Costerbosa, M. (2012). Una bioetica degli argomenti. Torino: Giappichelli ed anche Porciello,

91

M. (2009). “Eutanasia e principi fondamentali: la costituzionalizzazione del dilemma etico”. In Falzea, P. (a cura di), Thanatos e Nomos. Questioni bioetiche e giuridiche di fine vita. Napoli: Jovene, pp. 8-9.

Si veda a tale proposito Milazzo, L. (2016), op. cit.

eludere i tentativi messi in essere da chi, per ragioni etiche o morali, vuole lecitamente impedirglielo. Questa soluzione porge però il fianco a due obiezioni. In primo luogo, è stato notato in dottrina che il diritto attivo proposto esiste già di fatto, dato che il suicidio non è vietato dall’ordinamento . In secondo luogo, 93 ci si deve chiedere se, posto in questi termini, si stia davvero parlando del diritto ad una morte dignitosa che da molti viene richiesto.

La seconda questione è senz’altro la più complessa e delicata da risolvere. Il diritto ad uccidersi, infatti, non può limitarsi ad attribuire alla persona il diritto ad essere lasciata morire “da sola”, perché spesso l’esigenza di chi si trova in condizioni disperate è quella di essere aiutato a morire — sia perché egli è fisicamente impossibilitato a mettere fine alla propria indegna esistenza, sia perché questi vorrebbe che qualcuno potesse aiutarlo a farlo in modi più degni rispetto a quelli cui egli potrebbe ricorrere in autonomia.

La discriminante principale sembra quindi essere la seguente: è possibile mettere sullo stesso piano l’atto di uccidere una persona che ritiene la propria vita indegna di essere vissuta e l’interruzione di un trattamento necessario alla conservazione della stessa? Detto in altri termini: se esiste un diritto ad essere aiutati a morire quando la vita dipende da trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, può esistere un uguale diritto nei casi in cui non serva l’ausilio di strumenti tecnologici per continuare a vivere in condizioni che si ritengono indegne?

Cavina, M. (2015). Andarsene al momento giusto. Culture dell’eutanasia nella storia europea. Bologna: Il

93

Se la risposta a queste domande è positiva, allora il diritto ad una morte dignitosa deve necessariamente includere il diritto ad essere lasciati morire, ed in ultima analisi, anche quello di essere accompagnati alla morte. Come sostiene Umberto Veronesi , quindi, piuttosto che una legge che permetta l’eutanasia, è necessario 94 che «l’azione pietosa di anticipare la fine della vita su richiesta del malato inguaribile venga considerata una cura dovuta, e non un atto omicida da depenalizzare» . Anche se così fosse, ovviamente, sarebbe imprescindibile 95 garantire l’esistenza di qualcuno che sia obbligato a prestare questa cura dovuta. In caso contrario, infatti, non si starebbe attribuendo alcun diritto di morire dignitosamente al paziente inguaribile non in grado di uccidersi autonomamente. Torniamo quindi alla spinosa questione legata al conflitto tra autonomie dei singoli e tra differenti “etiche private”. L’unica via d’uscita sembra pertanto essere l’individuazione dell’esistenza di gradi differenti di comprensione delle

singole autonomie. L’ordinamento dovrebbe cioè riconoscere la «prevalente meritevolezza dell’interesse del vivente, nelle diverse circostanze della vita, a

decidere della propria morte», valutando in termini relativi — ma per quanto possibile oggettivi e storicamente determinati — «gli interessi delle parti della relazione giuridica il cui conflitto l’ordinamento è chiamato a dirimere» . In tal 96 modo, l’interesse del paziente che decide della propria vita (e della propria morte) risulterebbe predominante rispetto a quello del medico che in alcuni casi potrebbe ritenere tale decisione contraria alle proprie convinzioni, o in qualche modo contrapposta alle ragioni dello Stato (per esempio a causa dei costi connessi alle pratiche da mettere in atto).

Veronesi, U. (2017), op. cit.

94

Cfr. Milazzo, L. (2016), op. cit.

95

Milazzo, L. (2016), op. cit., p. 75.

CAPITOLO 4

EUTANASIA E SUICIDIO ASSISTITO: