È già stato evidenziato come nell’ordinamento giuridico italiano il diritto di morire non venga espressamente garantito, sebbene sia invece riconosciuto il diritto di non curarsi ed il diritto di non soffrire.
Pertanto, a seguito dell’analisi condotta nella precedente sezione sul diritto di non curarsi, nella presente discussione verrà preso in considerazione, per sommi capi, il diritto di non soffrire.
La legge n. 219/2017, all’articolo 2, rubricato “Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignità nella fase finale della vita”, dispone anche sulla sedazione palliativa, e lo fa nel modo seguente: «[i]n presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente. Il ricorso alla sedazione palliativa profonda
continua o il rifiuto della stessa sono motivati e sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico».
Innanzitutto, è opportuno distinguere il concetto di “sedazione palliativa profonda continua” da quello di “sedazione terminale” (detta anche eutanasia indiretta), dato che il primo non ha come obiettivo quello della morte del paziente, bensì quello del “controllo” del dolore. La sua finalità è pertanto differente dall’atto eutanasico, poiché se la sedazione palliativa profonda continua mira ad eliminare il dolore, l’eutanasia indiretta elimina invece, con il dolore, anche la vita (biologica).
Inoltre, il mezzo attraverso il quale viene perseguito questo obiettivo è rappresentato dalla «somministrazione intenzionale di farmaci ipnotici, alla dose necessaria richiesta, [impiegati] per ridurre il livello di coscienza fino ad annullarla, allo scopo di alleviare o abolire la percezione di un sintomo, senza controllo, refrattario, fisico e/o psichico, altrimenti intollerabile per il paziente, in condizione di malattia terminale inguaribile in prossimità della morte» . Ne 64 consegue, dunque, che la sofferenza sarà alleviata o eliminata attraverso il controllo dei sintomi refrattari (ovverosia quei sintomi la cui percezione è intollerabile per il paziente, e che non possono essere alleviati, nonostante gli sforzi atti a trovare un trattamento adeguato, senza compromettere lo stato di coscienza) .65
Parere approvato dal comitato nazionale per la bioetica italiano (CNB) il 29 gennaio 2016, riguardante la
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sedazione palliativa profonda continua.
Cherny, N. I. e Portenoy, R. K. (1994). “Sedation in the management of refractory symptoms: Guidelines
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La dottrina del c.d. “doppio effetto” ha messo in evidenza che il fine di alleviare la sofferenza refrattaria del paziente deve sempre prevalere sulla circostanza fattuale, per cui l’impiego di questo trattamento sanitario può (e non in modo certo e automatico) avere l’effetto di accorciare la vita. È possibile perciò la presenza di più effetti concorrenti: un effetto positivo (voluto dal soggetto agente) ed un effetto negativo (il quale deve essere previsto e tollerato). In ogni caso, l’effetto positivo deve essere proporzionalmente maggiore di quello negativo.
Per concludere l’analisi dell’art 2, secondo e terzo comma, è opportuno soffermarci sulla prima parte del comma secondo, dove si legge che «[n]ei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati».
In dottrina , si sottolinea la superfluità dell’aggettivo irragionevole che 66 accompagna il lemma ostinazione (non potendosi dare un’ostinazione che non sia irragionevole) e si suggerisce che sarebbe stato più corretto l’utilizzo, da parte del legislatore, del concetto di “eccesso” o di “insistenza” irragionevole.
Infine, giova richiamare il primo comma della legge n. 219/2017, il quale dispone quanto segue: «[i]l medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico. A tal fine, è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del
Adamo, U. (2018). Costituzione e fine vita. Disposizioni anticipate di trattamento ed eutanasia. Padova:
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medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative di cui alla legge 15 marzo 2010, n. 38» .67
La legge n. 38/2010 (“Disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”) e, più precisamente, il suo art 2, per non lasciare spazio a dubbi interpretativi, ricorda che le cure palliative — e la sedazione profonda continua lo è, non trattandosi di una terapia del dolore — sono «l'insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un'inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici» (lett. a). Quanto alla terapia del dolore, invece, s’intende «l'insieme di interventi diagnostici e terapeutici volti a individuare e applicare alle forme morbose croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative, tra loro variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi diagnostico- terapeutici per la soppressione e il controllo del dolore» (lett. b).
Tenendo presente che è il contesto del fine vita che solo legittima tali trattamenti, la legge n. 38/2010 deve ritenersi come fortemente innovativa, poiché per la prima volta viene garantito l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da parte del malato nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza, al fine di assicurare il «rispetto della dignità e dell'autonomia della persona umana, il
Come sottolineato in Consorti (2019), op.cit., “[i]l riferimento a queste ultime circostanze attesta la
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prospettiva olistica che la legge intende attribuire alla relazione di cura, che non mira soltanto alla guarigione della malattia, ma al benessere del malato, che anche nel caso di prognosi infauste o malattie inguaribili ha diritto ad essere curato. Perciò l’equipe sanitaria ha il dovere di adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario eventualmente indicato”.
bisogno di salute, l'equità nell'accesso all'assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze» (art 1, secondo comma).68
In quest’ottica, ai sensi dell’art 1, comma terzo, viene assicurato un programma di cura individuale, sia per il malato che per la sua famiglia, al fine di garantire: (a) la tutela della dignità e dell'autonomia del malato, senza alcuna discriminazione; (b) la tutela e la promozione della qualità della vita fino al suo termine naturale; e (c) un adeguato sostegno sanitario e socio-assistenziale della persona malata e della famiglia.
Appare inoltre importante mettere in risalto che destinatario della normativa non è soltanto il malato (adulto e pediatrico), ma anche la sua famiglia. La palliazione, quindi, non è connotata da un carattere esclusivamente medico, ma anche da uno relazionale, perché in definitiva offre al malato anche una cura in relazione alle dinamiche psico-relazionali della malattia.
A conclusione dell’analisi della legge n. 38/2010, si rende opportuna una breve rassegna degli aspetti più rilevanti del testo legislativo.
Va in primo luogo sottolineato che la legge prevede l’annotazione, all’interno della cartella clinica, delle caratteristiche del dolore e della sua evoluzione nel corso del ricovero, della tecnica antalgica e dei farmaci utilizzati, dei relativi dosaggi e del risultato antalgico conseguito.
Ai sensi dell’art 1, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni.
Inoltre, si prevede l’istituzione, da parte del Ministero, di reti nazionali per le cure palliative e per la terapia del dolore, in grado di fornire ai pazienti risposte assistenziali uniformi su tutto il territorio nazionale.
Viene quindi contemplata la semplificazione delle procedure d’accesso ai medicinali impiegati nella terapia del dolore, che si concretizza nella possibilità, da parte dei medici del Servizio sanitario nazionale, di prescrivere farmaci oppiacei non iniettabili non più su ricettari speciali, ma utilizzando il semplice ricettario del Servizio sanitario nazionale.
Infine, la legge n. 38/2010 disciplina la formazione del personale medico e sanitario, realizzata attraverso l’individuazione di specifici percorsi formativi (e master) in materia di cure palliative e di terapia del dolore.
Sinora è stata condotta un’analisi essenziale dei principali riferimenti normativi che riguardano il diritto di non soffrire. Ci concentreremo ora su qualche considerazione attinente al campo della bioetica.
In bioetica, la tematica delle cure palliative riveste un ruolo rilevante, specialmente con l’avanzare delle richieste eutanasiche dell’ultimo secolo. Una delle finalità principali delle cure palliative è quella di evitare che il malato trovi normale fuggire dalla sofferenza e dal dolore con la richiesta di morte.
Infatti, come è stato giustamente osservato, i pazienti con sofferenze non sopportabili possono intravedere nella morte l’unica soluzione alla loro condizione. Di conseguenza, si è andata a profilare la richiesta di vedersi
garantito il diritto a non soffrire ed a «morire con dignità» , dato che le cure 69 palliative non servono tanto a scegliere quando morire, ma piuttosto sono serventi al diritto di essere assistiti correttamente nell’imminenza della morte. In questo senso, si parla di “eubiosia”, cioè di qualità della vita nella fase terminale.
Umberto Veronesi, famoso oncologo e politico italiano, ha sostenuto che, da un punto di vista bioetico, sarebbe un atteggiamento ipocrita distinguere il “lasciar morire”, interrompendo l’accanimento terapeutico (c.d. cure di fine vita) dall’ “aiutare a morire”, sedando il male e ed il dolore con dosi sempre più elevate di oppiacei (c.d. suicidio assistito) e dal “provocare il morire”, somministrando un farmaco o iniezioni letali (c.d. eutanasia passiva), perché sempre di “diritto a morire” si parla. Queste differenze possono esser fatte valere soltanto sul piano giuridico .70
Da ultimo, è opportuno mettere in rilievo che, a fronte di una complessa variabilità di situazioni individuali, contro chi fa richiesta di cure palliative e di farmaci antidolorifici (col rifiuto di terapie aggressive) si colloca l’atteggiamento di coloro i quali, invece, preferiscono sopportare il dolore pur di mantenere lucida la coscienza. A questo punto viene spontaneo chiedersi come comportarsi di fronte a tale variabilità di richieste, in particolare modo da parte di chi assiste. In altri termini: quale etica andrebbe privilegiata o incoraggiata?71
Marie De Hennezel, nota psicologa che a Parigi si è dedicata all’assistenza dei malati terminali, in un libro
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che descrive la sua larga esperienza, afferma che “per la maggior parte della gente, morire in dignità significa morire senza sofferenza ed essere accompagnato con rispetto”. Si veda De Hennezel, M. (2002). La dolce
morte. Milano: Sonzogno.
Veronesi, U. (2017). Il diritto di non soffrire. Cure palliative, testamento biologico, eutanasia. Milano:
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Mondadori.
Corleto, M. (2007). Diritto e diritti di fronte alla morte. Dall'eutanasia al diritto di morire. Atti del
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Come sostiene Corleto , la tentazione da evitare è quella di voler ridurre a 72 semplicità e omogeneità quello che si presenta complesso ed eterogeneo. Non esiste un’unica etica di fine vita che possa vantare un primato assoluto ed imporsi a tutti. Le politiche pubbliche non dovrebbero, quindi, privilegiare nessun etica particolare ma dovrebbero, al contrario, porsi il problema della loro reciproca convivenza in un quadro normativo chiaro e condiviso. Questa sensibilità alla tolleranza verso etiche alternative, purtroppo, manca ancora nel nostro Paese.