Concludendo, come abbiamo avuto modo di approfondire, con l’introduzione della nuova disciplina, il Legislatore ha tentato di rispondere alle esigenze sollevate da parte della giurisprudenza e della dottrina circa la necessità di disporre il trattamento concernente i “costi da reato” in modo tale, da un lato, da sanzionare in maniera adeguata le condotte fraudolente connesse alle fattispecie penalmente più gravi (delitti non colposi) e, dall’altro, da far sì che la normativa prevista fosse maggiormente conforme al principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione.
Le modifiche apportate dal D.L. n. 16/2012 al regime sull’indeducibilità dei “costi da reato”, appaiono innovative rispetto alla previgente disciplina e alle interpretazioni fornite in passato dalla giurisprudenza di merito e di legittimità. Difatti, la nuova disciplina, abbandonando il generico riferimento ai “reati”, ha notevolmente ristretto l’ambito di applicazione della norma in commento, prevendo l’operatività della disposizione solamente in relazione ai “costi e alle
spese dei beni e delle prestazioni di servizi direttamente utilizzati per compiere gli atti e le attività qualificabili come delitto non colposo”, richiedendo, quindi, la
necessaria volontà/intenzionalità dell’agente che pone in essere il delitto (delitto non colposo) e il nesso del diretto utilizzo del costo alla commissione della fattispecie delittuosa e non più, come in passato, una generica riconducibilità del costo al reato compiuto, fosse stato questo un delitto o una contravvenzione.
Inoltre, è stato modificato il trattamento fiscale concernente i costi connessi ad operazioni soggettivamente inesistenti che, differentemente dalla previgente disciplina, risultano esclusi dall’alveo della norma e pertanto, sono deducibili qualora ricorrano tutti i requisiti previsti dall’art. 109 del T.U.I.R. ai fini della deducibilità dei costi. Per di più, diversamente da quanto previsto nel vigore della previgente disciplina, tali costi se documentati in fatture soggettivamente inesistenti, restano deducibili, per esplicita previsione normativa, anche ai fini dell’IRAP.
La nuova normativa ha poi voluto postergare il momento in cui scatta l’operatività della disciplina, aspetto non considerato dalla previgente formulazione, predisponendo come il disconoscimento a livello fiscale dei costi possa essere
eccepito solo a seguito del vaglio da parte del pubblico ministero. Tale vincolo temporale, quale presupposto per l’operatività della disciplina, è stato creato in modo tale da smorzare l’uso indiscriminato della norma da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Tuttavia, tale novità introdotta per effetto dell’art. 8, comma 1, del D.L. n. 16/2012, presenta tuttora talune criticità, perché l’avvio dell’azione penale, se pur richieda il vaglio da parte del P.M., soggetto senza dubbio dotato di maggiore oggettività rispetto all’Amministrazione finanziaria, non rappresenta ancora l’istante in cui si accerta incontrovertibilmente la rilevanza penale del fatto. Difatti, tale istante corrisponde al momento in cui il delitto assume solo astrattamente la “qualificabilità”, ma non la “qualifica” di delitto non colposo.
Quindi, pur essendo stato posticipato il momento in cui l’Amministrazione finanziaria può contestare la deducibilità dei costi da reato, rispetto alla disciplina previgente in cui, stando al parere dell’Agenzia delle Entrate, era sufficiente nel silenzio della norma, la sola trasmissione al P.M. della notizia di reato, tale modifica non ha risolto i problemi preesistenti dal momento che l’avvio dell’azione penale rappresenta solo l’inizio dell’accertamento della sussistenza del reato e non accerta la sua reale esistenza; di conseguenza, viene violato ancora una volta il principio di non colpevolezza sino alla sentenza definitiva di condanna, ma non solo, si crea anche una difficoltà di coordinamento tra i due processi, tributario e penale, che dovrebbero muoversi su due distinti binari ai sensi dell’art. 20 del D.L. 74/2000 senza, dunque, essere vincolati l’uno con l’altro.
Tra l’altro, è ben noto come il processo tributario abbia delle tempistiche più brevi rispetto a quello penale, concludendosi molto più rapidamente il primo rispetto al secondo.
Dunque, anche nel vigore della nuova normativa, il giudice tributario potrebbe accertare l’indeducibilità ai fini fiscali dei costi a seguito dell’esercizio dell’azione penale, con la possibilità che però lo stesso contribuente condannato in sede tributaria, costretto al pagamento della pretesa tributaria -‐ e per questo magari soggetto alla dichiarazione di fallimento -‐ venga successivamente assolto in sede penale con delle conseguenze irreparabili.
Difatti, in tale ipotesi, neppure la previsione del rimborso delle maggiori imposte versate e dei relativi interessi, qualora intervenisse una sentenza penale di
assoluzione tra quelle di cui al comma 1 dell’art. 8 del D.L. n. 16/2012, sembrerebbe rendere la norma maggiormente rispettosa dei principi costituzionalmente garantiti perché in ogni caso si sarebbe venuto a creare un danno ormai irreparabile per il contribuente.
Per di più, il legislatore avendo previsto quale presupposto per l’operatività del regime due ulteriori ipotesi, ossia l’emissione da parte del giudice del “decreto che
dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 del codice di procedura penale” e la “sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 del codice penale” ha complicato ulteriormente il già difficile coordinamento tra i
due processi.
Alla luce di tutte le considerazioni sopra prospettate, la disciplina, dunque, sembra ancora una volta non tenere sul piano della legittimità costituzionale, violando alcuni dei principi costituzionalmente garantiti dal nostro ordinamento, in particolare quello della presunzione di non colpevolezza sino alla sentenza definitiva di condanna.
Pertanto, è auspicabile che il legislatore intervenga nuovamente in modo tale da apportare le necessarie modifiche alla disciplina in esame per garantire il rispetto dei diritti costituzionalmente garantiti ed assicurare così al contribuente un “giusto processo”.
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