La disciplina concernente l’indeducibilità dei costi da reato, introdotta per effetto del comma 4-‐bis dell’art. 14 della L. n. 537/1993, aveva dato vita nel corso della sua vigenza ad accesi dibattiti e questioni, incentrati oltre che sui dubbi sopra prospettati relativi all’applicazione, alla natura e agli effetti della norma, anche alla legittimità sul piano costituzionale della previsione.
Le critiche al regime dei costi da reato erano state incentrate sulla presunta violazione da parte del comma 4-‐bis di alcuni dei principi costituzionalmente garantiti e, in particolare, quello della capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione.
L’applicazione della disciplina di cui al comma 4-‐bis contrastava in maniera evidente con tale principio cardine presente all’interno del nostro sistema tributario, ossia l’art. 53 della Cost., in quanto, comportava l’assoggettamento a imposizione dei ricavi lordi, anziché del reddito netto.
Dunque, appare necessario chiarire che cosa si debba intendere per capacità contributiva in modo tale da evidenziare i motivi per i quali la contestazione della deducibilità dei costi da reato, poteva essere vista come lesiva di tale principio. L’art. 53 della Costituzione sancisce che “1.Tutti sono tenuti a concorrere alle spese
pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. 2.Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.”
In sintesi, la capacità contributiva non è che l’attitudine economica a contribuire alle spese pubbliche.
La capacità contributiva assume un significato equivalente a quello di capacità economica, per cui si ritiene che ogni fatto espressione di forza economica sia indice di capacità contributiva; tra questi, il principale indice generatore di capacità contributiva è rappresentato dal reddito.
È importante sottolineare che l’art. 53 della Costituzione realizza una duplice funzione ed è proprio in considerazione di tali finalità che appariva chiara la
lesione di tale principio da parte della norma prevista in materia di indeducibilità dei “costi da reato”.
Innanzitutto, il principio della capacità contributiva svolge una funzione garantista, legittimando l’imposizione dei tributi solo in relazione a fatti indice di capacità contributiva e, quindi, indicatori di ricchezza effettiva. Pertanto, il legislatore è vincolato nel stabilire quale sia il presupposto del tributo limitando la scelta ai soli fatti espressione di forza economica e non riferendosi ad un qualsiasi fatto realizzato, in modo tale da limitare gli effetti espropriativi.
Inoltre, il principio della capacità contributiva assolve anche ad una funzione solidaristica, in quanto collegato al principio di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione che rappresenta un dovere inderogabile. Difatti, il dovere di partecipare alle spese pubbliche, inteso come dovere di tutti, deve essere proporzionale alla capacità contributiva.
Alla luce di tali delucidazioni, il regime dell’indeducibilità dei costi alterava i criteri normativi previsti per la determinazione della base imponibile e per la determinazione in termini quantitativi del tributo e contrastava con la funzione garantista assolta dall’art. 53 della Costituzione, in quanto, assoggettava ad imposizione componenti non espressivi di reale capacità contributiva. Questo perché con la disposizione di cui al comma 4-‐bis era prevista l’indeducibilità dei costi riconducibili al reato commesso a fronte, tuttavia, dell’imposizione dei ricavi derivanti dalla condotta penalmente illecita, con la conseguente tassazione dei componenti negativi non ritenuti espressione della capacità contributiva.
Dunque, con la disciplina di cui al comma 4-‐bis si assisteva ad un significativo ampliamento della base imponibile che appariva irragionevole e lesivo del concetto di capacità contributiva, dal momento che non vi era la sola tassazione esclusiva dei fatti realmente produttivi di nuova ricchezza.29
Le questioni sollevate da parte della dottrina e della giurisprudenza in merito al concetto di capacità contributiva, che si riteneva fosse violato per effetto della nuova disposizione in materia di indeducibilità dei “costi da reato”, avevano originato un acceso contenzioso riguardante la legittimità sul piano costituzionale della norma in esame anche con riferimento agli articoli 3 e 27, comma 2, della
29 VILLANI M. E RIZZELLI A., “Come difendersi dai reati tributari, Aspetti sostanziali e processuali”,
Costituzione, ossia rispettivamente ai principi di uguaglianza e di non colpevolezza fino a sentenza definitiva di condanna.
Si erano così susseguite una serie di ordinanze che avevano rimesso alla Corte Costituzionale il compito di dare un giudizio in relazione alla tenuta sul piano costituzionale della norma.
Prima fra tutte, va ricordata l’ordinanza del 11 novembre 2009, n. 161 emanata dalla Commissione tributaria provinciale di Terni, sulla quale il Giudice delle leggi, con l’ordinanza del 3 marzo 2011, n. 73, aveva evitato di esprimersi ritenendo manifestamente inammissibile la questione eccepita dalla Commissione tributaria. La Commissione aveva censurato la disposizione di cui al comma 4-‐bis perché:
-‐ riteneva comportasse una non giustificabile disparità di trattamento relativamente agli illeciti amministrativi, civili e penali;
-‐ faceva scattare l’indeducibilità dei costi connessi alla condotta penalmente rilevante alla sola qualificabilità di tali fatti come reato senza che fosse richiesto, quale presupposto, l’avvio dell’azione penale o l’accertamento del fatto;
-‐ comportava, con riferimento agli illeciti penali, la tassazione dei ricavi lordi. In particolare, la Commissione tributaria provinciale di Terni aveva contestato la lesione degli articoli 3, 27, comma 2 e 53 della Cost. in ragione delle seguenti considerazioni:
-‐ ai sensi dell’art. 3 della Costituzione in cui è sancito il principio di uguaglianza, era ritenuto giusto considerare i costi connessi al reato non deducibili solo qualora fossero afferenti a proventi non concorrenti alla formazione del reddito imponibile. A parità di costi sostenuti, se un soggetto non poteva dedurre il costo da reato veniva sottoposto ad un’imposizione più elevata. Inoltre, l’applicazione del comma 4-‐bis comportava un trattamento disparitario tra i soggetti che compievano illeciti civili e amministrativi, per i quali i costi restavano deducibili e gli illeciti penali, per i quali i costi rimanevano indeducibili, evidenziando il palese contrasto di tale trattamento con il principio di uguaglianza. -‐ ai sensi dell’art. 27, comma 2, della Costituzione in cui è stabilito il
principio di presunzione di non colpevolezza, la contestazione dell’indeducibilità dei costi con la sola qualificabilità del fatto come
reato, senza richiedere l’esercizio dell’azione penale, dotava l’Amministrazione finanziaria di un potere che all’interno del nostro ordinamento giuridico compete esclusivamente al giudice penale, in base al quale l’imputato non può essere ritenuto colpevole fino a quando non viene fornita prova contraria. Per di più, l’operatività del regime dell’indeducibilità dei costi da reato appariva come una specie di “sanzione indiretta” antecedente alla sentenza di condanna definitiva. -‐ ai sensi dell’art. 53 della Costituzione, ossia del principio di capacità
contributiva, la norma sull’indeducibilità si poneva in contrasto con l’effettiva determinazione della base imponibile, in quanto, comportava l’assoggettamento ad imposizione di una ricchezza, in realtà, mai entrata a far parte del patrimonio del soggetto. In base al comma 4-‐bis, infatti, il reddito si accresceva non sulla base dei maggiori proventi realizzati, ma in virtù di una sostanziale comparazione di componenti negativi effettivamente sostenuti ai proventi, che si sommavano tra loro.
Tuttavia, la Corte Costituzionale rilevando un’inappropriata motivazione circa la presunta violazione da parte della norma degli articoli 3, 27, comma 2, e 53 della Costituzione, aveva ritenuto la questione manifestamente non ammissibile.
In seguito, anche la Commissione tributaria regionale del Veneto, sezione staccata di Verona XXI, con l’emanazione dell’ordinanza del 11 aprile 2011, n. 27 aveva rimesso nuovamente alla Corte Costituzionale la questione circa la presunta violazione da parte del comma 4-‐bis degli articoli 3, 27, comma 2 e 53 della Costituzione. La questione si era ripresentata a seguito del caso che aveva riguardato alcune società ritenute responsabili di aver dato origine ad un complesso carosello fiscale, al fine di beneficiare in maniera fraudolenta della detrazione dell’imposta sul valore aggiunto, nell’ambito del commercio di automobili. In particolare, era stata contestata ad una società partecipante al predetto carosello fiscale la reiterata condotta fraudolenta attuata mediante l’utilizzo e l’emissione di fatture soggettivamente inesistenti di cui agli articoli 2 e 8 del D.Lgs. n. 74/2000. In proposito, l’Amministrazione finanziaria aveva contestato oltre all’indeducibilità dei costi documentati nelle fatture soggettivamente inesistenti, anche l’irrilevanza fiscale delle operazioni, in quanto, connesse a fatti penalmente rilevanti. Il giudice aveva però ritenuto di poter risolvere la causa solo
a seguito della risoluzione circa la legittimità sul piano costituzionale della norma di cui al comma 4-‐bis. Erano così stata rimessi gli atti alla Corte Costituzionale formulando una serie di motivazioni, con cui veniva contestata l’illegittimità della disposizione, in parte sovrapponibili a quelle eccepite dalla Commissione tributaria provinciale di Terni e in parte ampliate nel tentativo di stimolare la Corte ad una riforma della disciplina riguardante i “costi da reato”.30
La Commissione regionale del Veneto aveva nuovamente eccepito la violazione del principio di effettività della capacità contributiva sottolineando, tra l’altro, come il comma 4-‐bis riferendosi in apparenza alle categorie di reddito la cui determinazione avviene sulla base della contrapposizione dei costi ai ricavi, penalizzasse proprio tali categorie ingiustificatamente e, quindi, il reddito d’impresa, di lavoro autonomo e alcuni dei redditi diversi.
Perciò, si riteneva che non solo l’art. 53 della Costituzione fosse violato tassando i ricavi lordi, ma che tale imposizione lorda riguardasse solo alcune delle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del T.U.I.R..
Tra l’altro, secondo quanto riportato nell’ord. dell’11 aprile 2011 dalla Comm. trib. reg. Veneto, la contestazione della deducibilità del costo non era ritenuta giustificabile neppure in considerazione del criterio dell’inerenza ridefinito da un punto di vista etico, difatti tale concetto si riteneva dovesse rimanere svincolato dall’etica e rimanere ancorato a ciò che assume rilevanza a livello tributario per determinare il risultato complessivo dell’esercizio.
Di contro, si ricorda che, secondo quanto riportato da parte dell’autorevole dottrina, i costi connessi al reato, a prescindere dalle valutazioni sul piano etico e morale, si riteneva difettassero di tale requisito dell’inerenza inteso in un’accezione meramente fiscale, in quanto, tali costi erano sostenuti per realizzare attività che assumevano la connotazione di “attività extra-‐imprenditoriali”.
La Corte Costituzionale, chiamata nuovamente ad esprimersi in merito alla tenuta costituzionale della norma di cui al comma 4-‐bis, si era pronunciata, infine con l’ordinanza n. 190 del 4 luglio 2012 attraverso la quale aveva restituito gli atti alla Commissione, affinché procedesse ad una nuova valutazione della norma in virtù dello ius superveniens, ossia in considerazione delle modifiche apportate alla
30 TUNDO F., Ancora dubbi di costituzionalità sulla indeducibilità dei costi da reato, in “Corriere
disciplina dal nuovo art. 8 del D.L. n. 16 del 2012 avente efficacia anche retroattiva se le disposizioni in esso contenute risultano più favorevoli per il contribuente e sempreché i provvedimenti non siano già resi definitivi.
Tuttavia, come si avrà modo di approfondire nel corso del capitolo successivo, le rilevanti e significati novità introdotte al regime sull’indeducibilità dei costi da reato per effetto dell’art. 8 del D.L. n. 16/2012, in modo da garantire un’interpretazione della disposizione in chiave costituzionalmente garantita, risultano ancora non del tutto sufficienti.
Senza dubbio la circoscrizione dell’operatività della disciplina alle fattispecie delittuose più gravi, l’introduzione del concetto di “diretto utilizzo” del costo alla commissione del delitto, il presupposto dell’esercizio dell’azione penale per l’applicazione delle disposizioni e l’esplicitazione esclusione dall’alveo della norma dei costi documentati in fatture soggettivamente inesistenti garantiscono un maggiore rispetto di alcuni dei principi costituzionalmente garantiti come quello della capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costitizione.
Ciò nonostante appare evidente come la nuova disciplina comporti ancora una volta la violazione del principio della presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, comma 2, della Cost., in quanto l’avvio dell’azione penale, non rappresenta di certo il momento in cui si passa dall’astratta qualificabilità del fatto alla concreta qualificazione della fattispecie penalmente rilevante.
Ci si attende, pertanto, al più presto un ulteriore revisione della disciplina da parte del legislatore al fine di smorzare definitivamente le problematicità sorte in merito all’applicazione, ma soprattutto alla tenuta sul piano costituzionale della norma.
CAPITOLO 2
LA NUOVA DISCIPLINA SULL’INDEDUCIBILITA’ DEI COSTI DA REATO
Sommario: 2.1 Premessa. -‐ 2.2 La natura della nuova norma. -‐ 2.3 La nuova disciplina sull’indeducibilità dei costi da reato: art. 8, comma 1, D.L. n. 16/2012. -‐ 2.4 Il concetto di costi “direttamente utilizzati”. -‐ 2.5 La qualificabilità dell’atto/attività come delitto non colposo. -‐ 2.6 Il presupposto dell’avvio dell’azione penale. -‐ 2.7 Le sanzioni connesse all’indeducibilità dei costi. -‐ 2.8 Gli effetti dell’assoluzione. -‐ 2.9 La deducibilità dei costi connessi alle operazioni soggettivamente inesistenti.
2.1 PREMESSA
Dopo aver delineato, nel precedente capitolo, il trattamento fiscale dei “costi da reato“ previsto dalla normativa previgente, con tutte le problematicità sorte in merito alla legittimità della disciplina sul piano costituzionale, in questo capitolo verrà tracciato il nuovo regime concernente l’indeducibilità dei costi da reato. Il D.L. n. 16 del 2 marzo 2012, contenente <<Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento>>, tra le varie novità varate al fine di consentire una riduzione degli oneri finanziari a carico di imprese e cittadini e potenziare l’attività dell’Amministrazione finanziaria volta a combattere l’evasione, è intervenuto con una vera e propria riscrittura integrale del trattamento fiscale previsto per i “costi da reato”.
Difatti, il decreto, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 52 il 2 marzo del 2012, è stato introdotto con l’obiettivo principale di chiarire e risolvere le questioni riguardanti la portata e la natura della normativa sui “costi da reato”.
La tematica dell’indeducibilità dei costi da reato è stata revisionata dall’articolo 8, commi 1, 2 e 3 del D.L. n. 16 del 2012 sostituendosi al vecchio comma 4-‐bis dell’art. 14, L. n. 537 del 24 dicembre 1993.31
L’art. 8 del decreto n. 16/2012, convertito con modifiche dalla L. n. 44 del 26 aprile 2012, è volto, dunque, a superare le principali criticità e soprattutto i dubbi sul
31 Art. 14, comma 4-‐bis L. n. 537/1993: “Nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma
1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti.”