LA NUOVA DISCIPLINA SULL’INDEDUCIBILITA’ DEI COSTI DA REATO
2.9 LA DEDUCIBILITA’ DEI COSTI CONNESSI ALLE OPERAZIONI SOGGETTIVAMENTE INESISTENTI
L’intervento apportato dal legislatore con l’art. 8 del D.L. n. 16/2012 ha riguardato anche il trattamento previsto per i costi e le spese connessi ad operazioni soggettivamente inesistenti.
113 L'art. 531 Codice di Procedura Penale sancisce che “1. Salvo quanto disposto dall'articolo 129
comma 2, il giudice, se il reato è estinto, pronuncia sentenza di non doversi procedere enunciandone la causa nel dispositivo.
2. Il giudice provvede nello stesso modo quando vi è dubbio sull'esistenza di una causa di estinzione del reato [537].”
114 CARINCI A., La nuova disciplina dei costi da reato: dal superamento del doppio binario alla
dipendenza rovesciata, in "Rassegna tributaria", n. 6 di novembre-‐dicembre 2012, pag. 1439.
115 CARINCI A., La nuova disciplina dei costi da reato: dal superamento del doppio binario alla
Innanzitutto, è opportuno chiarire che cosa si intenda per operazione soggettivamente inesistente, guardando alla definizione contenuta nel D.Lgs. n. 74 del 10 marzo del 2000 rubricato la “Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell'articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205.”
L’art. 1, comma 1, lettera a, del D.Lgs. n. 74/2000 stabilisce che “per "fatture o altri
documenti per operazioni inesistenti" si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l'imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l'operazione a soggetti diversi da quelli effettivi.”
Dal tenore letterale dell’articolo si evince come le fatture per operazioni inesistenti possano essere suddivise in oggettivamente inesistenti e soggettivamente inesistenti.
Tralasciando la valutazione del trattamento previsto per le operazioni oggettivamente inesistenti di cui all’art. 8, comma 2, del D.L. n. 16/2012, del quale si parlerà nel prossimo capitolo, in questo paragrafo si considereranno le fatture emesse a fronte di operazioni soggettivamente inesistenti.
Le operazioni soggettivamente inesistenti si connotano per il fatto che la fattura viene emessa da un soggetto diverso rispetto a quello che ha realmente effettuato l’operazione economica in essa indicata.
Quindi, pur essendo effettivamente posta in essere l’operazione, la fattura è rilasciata da un soggetto che non ha partecipato realmente all’operazione.
La falsità ideologica della fattura non è dovuta alla mancata sussistenza dell’elemento oggettivo dell’operazione avvenuta, ma soltanto all’aspetto subiettivo.
In altre parole, una delle parti che ha partecipato alla transazione posta in essere non compare nella fattura, figurando al suo posto un soggetto interposto cosiddetto “prestanome” che nasconde la parte che ha realmente intrattenuto l’operazione.
Le operazioni soggettivamente inesistenti nella maggior parte dei casi s’inseriscono all’interno delle così chiamate “frodi carosello” di cui si dirà più avanti.
Con il nuovo art. 8, l’intento del legislatore è stato quello di voler circoscrivere notevolmente l’ambito di applicazione della disciplina sull’indeducibilità dei costi da reato, prevedendo con le novità introdotte, l’esclusione dall’alveo della norma dei costi e delle spese connessi a fatture soggettivamente inesistenti.
Sul punto la relazione illustrativa al “decreto semplificazioni fiscali” è stata chiara disponendo che “per effetto di tale disposizioni, l’indeducibilità non trova
applicazione per i costi e le spese esposti in fattura o in altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l’operazione a soggettivi diversi da quelli effettivi”.
Anche l’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 32/E del 2012 ha pienamente appoggiato la soluzione sopra prospettata, sottolineando come la nuova formulazione sia una diretta conseguenza della delimitazione dell’ambito di applicazione della disciplina ai soli componenti negativi direttamente utilizzati per il compimento di delitti non colposi.
Nel caso di costi e spese documentate da fatture soggettivamente inesistenti -‐ sempreché siano presenti i requisiti ordinari per la deducibilità, previsti dal T.U.I.R. -‐ non può, pertanto, essere contestata l’indeducibilità dei componenti negativi in esse indicati, in quanto manca il nesso del diretto utilizzo del bene o servizio a cui tale costo si riferisce.
Sino a oggi, il previgente art. 14, comma 4-‐bis della L. n. 537/1993 estendeva l’indeducibilità dei costi a tutti i componenti negativi “riconducibili a fatti, atti o
attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti”.
Dalla formulazione dell’articolo ne derivava un’applicazione della norma omnicomprensiva da parte dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di finanza che, in presenza di fatture soggettivamente inesistenti, recuperava a tassazione tutti i componenti negativi da queste documentate, in quanto, ritenuti riconducibili all’illecito.
Il contribuente era tenuto a corrispondere le imposte sui ricavi, anziché sul reddito percepito con delle conseguenze ritenute irragionevoli, soprattutto in virtù della violazione dell’art. 53 della Costituzione.
La questione dell’indeducibilità dei costi documentati in fatture soggettivamente inesistenti è stata al centro dell’attenzione della pubblica opinione soprattutto per
il loro frequente utilizzo all’interno delle cosiddette frodi carosello, in cui una società “cartiera” pur non essendo titolare dell’operazione avvenuta emette la fattura per poi scomparire senza versare all’Erario l’Iva dovuta a fronte della transazione documentata.
In breve, all’interno di una frode carosello vi è una società priva di consistenza patrimoniale, ossia una mera “scatola vuota” che in realtà non esercita alcuna attività economica e che risulta domiciliata presso un indirizzo di comodo o comunque fittizio e che ha come unico scopo quello di rilasciare fatture per operazioni inesistenti da cui ne deriva il nome di società cd. “cartiera”. La società, invece, cosiddetta “buffer” o “filtro”, come si evince dal termine utilizzato, svolge un ruolo di interposizione tra la società “cartiera” e quello che è il reale cessionario della merce.
Nell’ambito comunitario, la frode carosello si verifica quando un società comunitaria X vende della merce ad un operatore Y, il quale è soggetto passivo in un altro Stato membro, dando così luogo ad una cessione intracomunitaria che, in quanto tale, non risulta ab origine imponibile; l’operatore Y, dopo aver contabilizzato la fattura senza pagare l’imposta per effetto del peculiare regime impositivo IVA riguardante gli acquisti intracomunitari (reverse charge), rivende la merce ad un prezzo ridotto ad un terzo soggetto Z appartenente allo stesso Stato membro, sottoponendo regolarmente ad imposta l’operazione. L’operatore Y, dopo l’incasso del corrispettivo della cessione e dell’imposta dovuta, anziché adempiere gli obblighi fiscali connessi al versamento dell’IVA incassata, successivamente scompare senza versare l’IVA incassata dal cessionario all’Erario.
L’operatore Z rivende poi la merce ad un altro soggetto appartenente allo stesso Stato membro del cedente iniziale X, realizzando una transazione intracomunitaria e quindi non imponibile, con conseguente richiesta di rimborso dell’Iva pagata al suo cedente Y, in realtà, mai versata. Tutto questo nel caso in cui la frode assuma la configurazione più semplice.
Tuttavia, le frodi carosello possono assumere degli schemi ben più complessi nell’ipotesi ad esempio in cui l’operatore Z cd. “filtro” venda la merce ad un prezzo ridotto ad un soggetto W dello stesso Stato membro, versando regolarmente l’Iva sulla vendita e detraendo l’imposta pagata a monte; in seguito W rivende la merce ad un operatore appartenente al medesimo Stato membro ad un prezzo sempre
ridotto e con regolare addebito dell’imposta e così via fino a quando la merce non rientra nello Stato membro dell’operatore iniziale X, venendosi a realizzare una cessione intracomunitaria non imponibile e che in quanto tale legittima l’ultimo soggetto alla detrazione o al rimborso dell’Iva pagata per rivalsa al cedente. L’operatore X, una volta tornato in possesso della merce, può così riavviare tutti i passaggi effettuati tra i diversi operatori dando luogo ad un vero e proprio “carosello fiscale”.
Non bisogna dimenticare che all’interno di questo schema, non tutti i soggetti partecipanti alle operazioni potrebbero essere a conoscenza del meccanismo di frode nel quale sono coinvolti, anche con riguardo all’ultimo operatore che fa rientrare la merce all’interno dello Stato originario dal quale ha preso avvio la cessione.
Nell’ambito delle frodi carosello i soggetti consapevolmente partecipanti non hanno diritto a detrarre l’Iva pagata al cedente dal momento che questa non è stata versata all’Erario e la cessione non rappresenta una reale attività economica, in quanto la transazione realizzata nei confronti dell’intermediario formale ha come unico scopo quello di beneficiare della detrazione dell’IVA.116
Con la previgente formulazione, l’Amministrazione finanziaria, inoltre, disconosceva la deducibilità dei costi documentati da fatture soggettivamente inesistenti emesse nell’ambito delle “frodi carosello”; sulla base di tale normativa, pertanto, oltre alla tassazione dei ricavi conseguiti in seguito alla cessione dei beni acquistati (all’interno di operazioni soggettivamente inesistenti), venivano sottoposti a tassazione anche i costi sostenuti per realizzarli, con la conseguenza che si assisteva all’amplificazione di tutte le basi imponibili delle società coinvolte nella “frode carosello”.117
Durante la vigenza della precedente normativa, la contestazione della deducibilità dei costi documentati nelle fatture soggettivamente inesistenti, ma realmente sostenuti dal soggetto, comportava, pertanto, una tassazione del reddito lordo, anziché del reddito netto prodotto, con conseguente violazione del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione.
116 Cass., Sez. trib., 19 settembre 2012, n. 15741.
117 BAGAROTTO E. M., L'applicazione della novellata disciplina in materia di "costi da reato" agli
effetti reddituali degli acquisti conclusi nell'ambito delle c.d. frodi carosello, in “Rivista trimestrale di diritto tributario”, 2013, fascicolo 2, pag. 267-‐268.
L’accertamento delle maggiori imposte effettuato in capo a tutti i soggetti partecipanti al carosello fiscale comportava un aumento degli imponibili accertati tanto maggiore quanto più era elevato il numero dei soggetti coinvolti nella frode, nonostante da tale allungamento non derivasse un occultamento di reddito maggiore all’Erario.
Tale normativa, comportando una tassazione sul reddito lordo (conseguenza della tassazione dei ricavi a fronte della indeducibilità dei costi relativi alle operazioni soggettivamente inesistenti) risultava portare ad un effetto paradossalmente più iniquo rispetto a quello riservato dall’art 109, comma 4 del T.U.I.R., secondo il quale, a seguito dell’acquisto e della cessione di beni “in nero”, il contribuente è tassato sul reddito netto; di contro, nel vigore della previgente normativa, nel caso in cui il contribuente dichiarasse i ricavi e i costi sostenuti mediante l’utilizzo di fatture inesistenti, la contestazione della deducibilità di tali costi comportava una tassazione sul reddito lordo, nonostante tali costi fossero stati realmente sostenuti, anche se corrisposti ad un soggetto diverso da quello indicato nella fattura.
Per di più, la previsione appariva ingiustificata considerando che l’art. 14, comma 4 della L. n. 537/1993 prevede la tassazione dei proventi nonostante detti componenti derivino da attività illecite; alla luce di tale disposizioni, dunque, non si poteva neppure giustificare l’indeducibilità dei costi da reato facendo leva sul fatto che tali componenti negativi fossero stati sostenuti a fronte di attività in contrasto con la legge e, quindi, non eticamente corrette.
Secondo la Cassazione, sentenza 11 novembre 2011, n. 23626 in realtà, il costo documentato in una fattura soggettivamente inesistente difettava dell’indispensabile requisito dell’inerenza all’esercizio dell’attività d’impresa. Stando alla lettura dell’art. 14, comma 4-‐bis della L. n. 537/1993 che contestava la deducibilità dei componenti negativi riconducibili a fatti qualificabili come reato, ne discendeva che i costi sostenuti a fronte di un’attività penalmente illecita, essendo questa finalizzata verso scopi ulteriori rispetto a quelli propri dell’attività d’impresa, difettassero già in partenza del nesso di inerenza che era necessario sussistesse tra i suddetti costi e l’attività istituzionalmente svolta.
Tuttavia, il testo della norma, non comportando una definizione univoca circa la sua portata, faceva sì che la lettura in chiave estensiva prospettata dall’Agenzia
delle Entrate e da parte della giurisprudenza, non fosse l’unica interpretazione possibile.
Dal testo della norma si ricavava solamente che l’indeducibilità dei costi riconducibili ad attività qualificabili come reato poteva essere invocata fatto “salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti”.
Tale ultima considerazione era stata letta da parte dell’Amministrazione, nel senso che potessero essere portati in deduzione esclusivamente i costi sostenuti per l’esercizio dei diritti costituzionalmente garantiti, esplicitando come per questi si intendessero solamente le “spese necessarie per l’assistenza legale in tutte le fasi del
procedimento e del processo penale”,118con la conseguenza che tutti gli altri costi in qualsiasi modo riconducibili al reato erano considerati indeducibili.
Di contro, secondo altro orientamento dottrinale, la previsione “dell’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti” poteva essere vista come un elemento a favore dell’applicazione della norma in chiave costituzionale e, quindi, in particolare, nel rispetto del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costitizione. Pertanto, tale lettura della clausola di salvaguardia dei diritti costituzionalmente garantiti faceva sì che l’indeducibilità di un costo effettivamente sostenuto, se pur nei confronti di un soggetto diverso da quello indicato, contrastasse apertamente con tale concetto di cui all’art. 53 della Costituzione.
La contestazione della indeducibilità dei costi era stata oggetto di analisi anche da parte della Cassazione la quale, con la sentenza n. 9537 del 29 aprile 2011, aveva sostenuto come il soggetto potesse portare in deduzione tali costi solo nell’ipotesi in cui comprovasse la sua buona fede, ossia la sua estraneità alla frode e sempreché la cessione fosse realmente stata intrattenuta e ad un corrispettivo tale a quello riportato in fattura, tutto questo nel rispetto del nesso di inerenza di tali costi all’attività d’impresa.
Da tale sentenza emergeva, dunque, come l’indeducibilità dei costi da reato fosse considerata la regola generale, con possibilità di eccepire un’eccezione a tale regola, con onore della prova a carico del contribuente, qualora fosse provata l’inconsapevolezza del cessionario circa la non corrispondenza tra il cedente effettivo e quello indicato nella fattura (falsità ideologica).
118 Circ. 26 settembre 2005, n. 42.
La deducibilità dei costi documentati da fatture soggettivamente inesistenti nell’ambito di un carosello fiscale, quindi, presupponeva la medesima condizione prevista per la detrazione dell’Iva e la non punibilità in ambito penale, ossia la buona fede del terzo soggetto e la non consapevolezza delle frode.
In proposito, con riferimento alla detrazione dell’imposta sul valore aggiunto, la Corte di Giustizia con le sentenze del 12 gennaio 2006, cause riunite C-‐354/03, C-‐ 355/03 e C-‐484/03, del 11 maggio 2006, causa C-‐384/04 e del 6 luglio 2006, cause riunite C-‐439/04 e C-‐440/04 aveva affermato come il diritto di un soggetto a detrarre l’Iva pagata non fosse di per sé pregiudicato per il solo fatto che a tale operazione fosse preceduta o susseguita un’altra inficiata da frode sull’Iva di cui il soggetto non fosse stato a conoscenza o comunque non avrebbe potuto esserne consapevole.
Inoltre, la Corte aveva individuato i criteri oggettivi idonei a determinare la consapevolezza dell’individuo della partecipazione alla frode, ritenendo che questi si realizzassero qualora l’acquisto della merce fosse avvenuto ad un prezzo inferiore a quello di mercato e qualora ci fosse stato un accordo simulatorio con il fornitore cd. interposto e quello effettivo.
Tutto ciò a tutela del legittimo affidamento, facente parte dell’ordinamento giuridico comunitario, espressione del generale principio dell’apparenza che, tutelando il soggetto in buona fede, dà rilevanza a quelle situazioni per le quali il terzo ha confidato se pur non corrispondenti alla realtà.
In seguito, l’introduzione dell’art. 8 del D.L. n. 16/2012 ha sgombrato ogni dubbio circa la deducibilità o meno di tali costi contabilizzati in fatture soggettivamente inesistenti, togliendo all’Amministrazione finanziaria ogni possibilità di disconoscere dalla deducibilità tali costi per il mancato nesso del diretto utilizzo al compimento della fattispecie delittuosa e ciò a prescindere dalla buona fede o meno del cessionario della merce o del servizio.
La relazione illustrativa al suddetto decreto n. 16/2012, tuttavia, lascia ferma la possibilità di contestare la deducibilità dei componenti negativi sulla base di quelli che sono i principi in materia di imposte sui redditi. Quindi, l’eventuale indeducibilità di tali componenti negativi, documentati in fatture soggettivamente inesistenti, potrà essere invocata sulla base della mancanza dei requisiti ordinari
dell’inerenza, dell’effettività, della competenza, della certezza e dell’oggettiva determinabilità o determinatezza.
Lo stesso orientamento è stato assunto anche dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 10167/2012 sostenendo come, a norma del nuovo art. 8, i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti sono deducibili anche qualora il soggetto acquirente sia a conoscenza della frode, ad eccezione che nel caso in cui tali costi contrastino con i principi ordinari del T.U.I.R..
Con il nuovo art. 8 del D.L. n. 16/2012 i costi afferenti ad operazioni soggettivamente inesistenti non possono più essere indeducibili per il solo fatto della loro riconducibilità al reato, ma al contrario sono deducibili in quanto difettano di uno dei presupposti richiesti dal nuovo articolo, ossia quello del loro “diretto utilizzo al compimento del delitto non colposo”.
Infatti, i costi e le spese sostenute per l’acquisto di un bene o di un servizio, anche se documentati da fatture soggettivamente inesistenti, non possono essere ritenuti strumentali/direttamente utilizzati al compimento dell’attività delittuosa; semmai la contestazione della loro indeducibilità potrà essere sollevata qualora il contribuente non riesca a dimostrare la sussistenza dei requisiti previsti per la loro deducibilità.
Conformemente, l’Agenzia delle Entrate, nella sua circolare n. 32/E del 2012, ha affermato che anche nel caso in cui si realizzi il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000, il costo contabilizzato nella fattura soggettivamente inesistente non è considerato solo per questo direttamente utilizzato per il compimento del delitto non colposo.119
119 In realtà, la norma penale tributaria di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000, ancor prima delle
modifiche apportate dal nuovo art. 4-‐bis, distingueva “le fatture per operazioni inesistenti” dagli “elementi passivi fittizi”. Infatti, il legislatore se avesse ritenuto sufficiente per la sussistenza della fattispecie delittuosa la sola inesistenza dell’operazione, si sarebbe limitato a prevedere per la realizzazione del reato l’esposizione di elementi passivi nelle fatture e non l’esposizione di elementi passivi “fittizi” nelle suddette fatture. L’aggettivo “fittizio” sottolinea come gli elementi passivi siano fittizi non come diretta conseguenza dell’inesistenza dell’operazione, al contrario la giurisprudenza afferma che tali componenti siano effettivi se pur l’operazione in essere sia soggettivamente inesistente (Cass., Sezione III pen., 14 novembre 2011, n. 41444). La “fittizietà” attiene quindi alla non veridicità del costo dando rilevanza alla sua materialità e realità. Conclusione che porterebbe ad estendere tale principio della non veridicità in senso materiale del costo anche nell’ambito dell’Iva per rilevare il reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000.
Di contro, il costo da considerarsi strumentale al compimento dell’attività delittuosa sarà eventualmente riscontrabile nel “compenso” pagato all’emittente della fattura falsa, cercando di ricavare l’ammontare di questo (indeducibile) qualora quest’ultimo sia ricompreso nell’ammontare totale esposto in fattura o in uno degli altri costi in questa esposti.
Nonostante la riforma apportata dal nuovo art. 8 del D.L. n. 16/2012 abbia risolto quello che è il trattamento previsto, nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti realmente effettuate, per i soggetti che partecipano al carosello fiscale come “reali acquirenti”, il trattamento previsto per i soggetti che partecipano alla frode in qualità di “cartiera” e “filtro” appare più complicato.
Se la cartiera e le società filtro avessero partecipato al carosello fiscale acquistando e cedendo effettivamente i beni, se pur nell’ambito di operazioni soggettivamente inesistenti, senza dubbio come per il reale acquirente tali costi sostenuti risulterebbero, in virtù della nuova normativa, deducibili.
Tuttavia, le perplessità sorgono qualora la cartiera e le società filtro partecipino alla frode senza realizzare alcuna cessione effettiva, ma semplicemente occupandosi del ricevimento e dell’emissione delle fatture soggettivamente inesistenti.
In questo caso il corrispettivo contabilizzato nella fattura, dal momento che lo scambio del bene non è stato effettivamente realizzato in quanto la cessione è intervenuta direttamente tra il cedente a monte e il cessionario “reale”, potrebbe configurarsi come un componente oggettivamente inesistente e, quindi, in quanto tale essere indeducibile. Con la conseguenza che si arriverebbe, malgrado l’intento del legislatore di restringere l’ambito di applicazione della disciplina, ad un gonfiamento della base imponibile per effetto dell’indeducibilità del costo sostenuto dalla “cartiera” considerato oggettivamente inesistente.
L’art. 8, comma 2, del D.L. n. 16/2012 prevedendo che “non concorrono alla
formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non