Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex
D.M. 270/2004)
in Amministrazione, finanza e controllo -
Consulenza amministrativa
Tesi di Laurea
L'evoluzione normativa della disciplina
sull'indeducibilità dei costi da reato
Relatore
Prof. Loris Tosi
Laureanda
Carlotta Bordignon
Matricola 821473
Anno Accademico
2013 / 2014
INDICE
L’EVOLUZIONE NORMATIVA DELLA DISCIPLINA SULL’INDEDUCIBILITA’ DEI COSTI DA REATO
pag. Profili introduttivi . . . . . . . . . . . . . 1 Capitolo 1
La normativa previgente
1.1 L’indeducibilità dei costi da reato ante D.L. n. 16/2012 . . . . 5 1.2 Dubbi di legittimità costituzionale . . . . . . . 28
Capitolo 2
La nuova disciplina sull’indeducibilità dei costi da reato
2.1 Premessa . . . . . . . 34 2.2 La natura della nuova norma . . . . . . . . . . . 37 2.3 La nuova disciplina sull’indeducibilità dei costi da reato: art. 8, comma 1, D.L. n. 16/2012 . . . . . . . . . . . . 42 2.4 Il concetto di costi “direttamente utilizzati” . . . . . . 44 2.5 La qualificabilità dell’atto/attività come delitto non colposo . . . . . . . 51 2.6 Il presupposto dell’avvio dell’azione penale. . . . . . 55 2.7 Le sanzioni connesse all’indeducibilità dei costi. . . . . . 68 2.8 Gli effetti dell’assoluzione . . . . . . 72 2.9 La deducibilità dei costi connessi alle operazioni soggettivamente inesistenti . . . 81
pag. Capitolo 3
Le operazioni oggettivamente inesistenti
3.1 I costi documentati in fatture oggettivamente inesistenti: art. 8, comma 2, D.L. n. 16/2012 . . . . . . . . . . . 92
Capitolo 4
Il regime transitorio
4.1 Il trattamento di maggior favore per il contribuente: art. 8, comma 3, D.L. n. 16/2012. . . . . . . . 104
PROFILI INTRODUTTIVI
Questo lavoro si pone come obiettivo principale quello di esaminare il trattamento tributario riservato dal legislatore ai cosiddetti “costi da reato”.
Negli ultimi anni la disciplina in materia è stata oggetto di un forte dibattito da parte della giurisprudenza e della dottrina, che non si è concluso neppure a seguito della rivisitazione della normativa di riferimento avvenuta nel corso dell’anno 2012.
I principi riguardanti il trattamento da riservare alla tassazione dei proventi illeciti sono stati introdotti nel nostro ordinamento dall’art. 14, comma 4, della L. 24 dicembre 1993, n. 537, e sin dall’origine si sono sollevate questioni incentrate sull’applicazione della predetta normativa, che si sono accentuate per effetto della successiva integrazione da parte del comma 4-‐bis (avvenuta per effetto dell’art. 2, comma 8, della L. 27 dicembre 2002, n. 289) del regime concernente l’indeducibilità dei costi da reato.
La previsione dell’indeducibilità dei costi e delle spese riconducibili ad attività penalmente rilevanti ha suscitato, infatti, sin dal suo ingresso all’interno dell’ordinamento giuridico, non pochi dubbi interpretativi in ordine al corretto approccio interpretativo circa i presupposti, oggettivi e soggettivi, necessari per un’appropriata applicazione del regime.
La tanto discussa applicazione della disciplina relativa all’indeducibilità dei costi da reato, la quale aveva anche sollevato rilevanti questioni, oltre che in ambito applicativo, anche sul piano della legittimità costituzionale -‐ in quanto ritenuta lesiva di alcuni dei diritti inderogabili costituzionalmente garantiti -‐ ha, da ultimo, comportato la necessità di un intervento di riscrittura integrale del predetto regime concernente “i costi da reato”, avvenuto per effetto dell’art. 8 del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, convertito con modificazione dalla L. 26 aprile 2012, n. 44. Tra le novità di maggior rilievo introdotte dal decreto legge n. 16/2012 rubricato <<Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento>>, ha, infatti, assunto particolare rilevanza la riformulazione dell’art. 14, comma 4-‐bis, che ha tentato di smussare le svariate e principali problematicità sorte nel vigore della previgente normativa e di
superare il dibattito dottrinale alimentato da una giurisprudenza affatto univoca circa i dubbi di legittimità costituzionale emersi con la previgente formulazione, senza però raggiungere del tutto l’obiettivo prefissato.
In particolare, la novellata disciplina ha notevolmente ristretto l’area d’indeducibilità dei “costi da reato”, non più predisponendo una generica indeducibilità dei componenti negativi in qualsiasi modo riconducibili ad una condotta penalmente rilevante, ma restringendo l’ambito di applicazione ai soli costi e alle sole spese afferenti a beni e prestazioni direttamente utilizzati per il compimento di delitti non colposi, con il necessario presupposto, ai fini dell’operatività dell’indeducibilità di tali costi, dell’esercizio dell’azione penale, o dell’emissione da parte del giudice del decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 del codice di procedura penale, ovvero della sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 del codice di procedura penale per intervenuta prescrizione del reato.
Nonostante i notevoli miglioramenti apportati dal nuovo regime, tuttavia, persistono ancora talune residue incertezze applicative e interpretative che minacciano la concreta funzionalità della disciplina.
Difatti, restano non del tutto risolte le questioni che, nella previgente disciplina, hanno dato luogo ad una serie di ordinanze emesse da parte delle Commissioni tributarie, con le quali la Corte Costituzionale è stata invocata ad esprimersi circa la tenuta sul piano costituzionale della norma.
Nel presente elaborato, verrà trattata l’evoluzione della normativa in tema di indeducibilità dei costi da reato, partendo nel primo capitolo dall’esposizione delle disposizioni vigenti, prima della riforma apportata dal decreto n. 16/2012, in materia di tassazione dei proventi illeciti di cui all’art. 14, comma 4 della L. n. 537/1993 e di indeducibilità dei costi genericamente riconducili ad attività penalmente illecite di cui all’art. 14, comma 4-‐bis della predetta legge, con attenzione all’ambito di applicazione della norma, alla natura di questa e al momento di operatività della disposizione in esame.
Ci si soffermerà anche sul significato da attribuire all’esplicita clausola di salvaguardia dei diritti costituzionalmente riconosciuti, nonché ai principali dubbi sorti in merito alla tenuta costituzionale della normativa ritenuta lesiva degli artt. 3, 27, comma 2, e 53 della Costituzione.
Nel secondo capitolo verranno delineate, invece, le novità apportate dalla nuova disciplina relativamente al tema della indeducibilità dei costi da reato, per effetto dell’art. 8, comma 1, del D.L. n. 16/2012 evidenziando: la natura della nuova norma, il notevole restringimento dell’ambito di applicazione della stessa, il concetto di costi “direttamente utilizzati” per commettere il reato, la qualificabilità del delitto come non colposo, il necessario presupposto dell’esercizio dell’azione penale per l’applicazione della nuova disciplina.
Si approfondiranno anche gli effetti derivanti dall’assoluzione del contribuente, con la conseguente nascita di un vero e proprio diritto al rimborso, a favore del contribuente, delle maggiori imposte versate e dei relativi interessi, nonché le questioni sorte in merito alle sanzioni irrogabili per effetto della nuova disposizione.
Verrà, poi, affrontato il tema, tanto dibattuto in passato, relativo al trattamento fiscale dei costi documentati in fatture soggettivamente inesistenti, che per effetto delle novità introdotte sono esclusi dall’alveo della nuova normativa e, pertanto, risultano deducibili. In particolare, si analizzerà l’utilizzo di tali fatture nel caso delle cosiddette “frodi carosello”.
Il terzo capitolo sarà, invece, incentrato sulle previsioni apportate dall’art. 8, comma 2, del D.L. n. 16/2012, concernente il trattamento dei beni non effettivamente scambiati e dei servizi non effettivamente prestati, ovvero riguardante le operazioni cosiddette “oggettivamente inesistenti”. Verranno delineati i vantaggi derivanti dall’esplicita previsione dell’esenzione da imposizione dei componenti positivi afferenti a tali beni/servizi, entro il limite dell’ammontare dei costi relativi a tali beni o servizi non ammesso in deduzione, nonché gli svantaggi derivanti dallo specifico regime sanzionatorio applicabile alle predette spese o componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati.
Nell’ultimo capitolo saranno esposte le nuove disposizioni attinenti al regime transitorio introdotte dall’art. 8, comma 3, del D.L. n. 16/2012, che estendono l’applicazione dei commi 1 e 2 dell’articolo 8 ai fatti posti in essere prima dell’entrata in vigore della norma sulla base del principio del favor rei, ossia del trattamento di maggior favore per il contribuente, ad eccezione dei provvedimenti emanati già resi definitivi. Tra l’altro, sarà effettuato un breve richiamo
all’applicazione dei commi 1, 2 e 3 dell’articolo 8 anche ai fini della determinazione del valore della produzione netta per la determinazione dell’imposta regionale sulle attività produttive.
Infine, si concluderà l’elaborato con delle considerazioni in merito all’intervento apportato dalla nuova disposizione che, se da un lato risponde alle esigenze di revisionare il trattamento relativo alla deducibilità dei costi ridimensionandone notevolmente l’ambito di applicazione, dall’altro presenta ancora rilevanti profili di criticità non solo sul piano costituzionale, ma anche sul piano delle soluzioni tecniche adottate.
CAPITOLO 1
LA NORMATIVA PREVIGENTE
Sommario: 1.1 L’indeducibilità dei costi da reato ante D.L. n. 16/2012. -‐ 1.2 Dubbi di legittimità costituzionale.
1.1 L’INDEDUCIBILITA’ DEI COSTI DA REATO ANTE D.L. N. 16/2012
Prima di iniziare ad affrontare in modo specifico il tema della indeducibilità dei costi da reato – argomento che ha generato, sin dalla sua prima introduzione, un forte dibattito dottrinario e giurisprudenziale, soprattutto sul piano costituzionale -‐ pare necessario conoscere e comprendere quale sia il quadro normativo generale vigente in materia di tassazione dei redditi illeciti.
Nel 1993 il legislatore pose fine all’acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale avente ad oggetto l’imponibilità dei proventi di origine illecita; l’intervento fu effettuato in un momento storico in cui la tassazione dei proventi illeciti era al centro della generale attenzione pubblica a causa delle rilevanti vicende giudiziarie che avevano interessato la nazione, in occasione dello scoppio del fenomeno politico ed economico che venne ribattezzato “Tangentopoli”.
Numerosi furono i pronunciamenti e le teorie elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza sulla questione, ma due furono gli orientamenti prevalenti che dominarono la seconda metà del secolo scorso.
Il primo orientamento partiva dal presupposto che i proventi derivanti da attività illecite, costituendo un arricchimento senza giusta causa e non derivando da operazioni produttive, fossero esclusi da tassazione in quanto ritenuti antigiuridici. In particolare, i proventi illeciti non potevano essere fatti rientrare nella nozione di reddito tassabile, in quanto, arricchimento senza giusta causa.
I sostenitori di questa tesi facevano perno sul fatto che, non tutti i fenomeni astrattamente espressione di forza economica, potessero essere assimilati ad elementi costituenti la fattispecie impositiva se contrastavano con i principi a fondamento dell’ordinamento giuridico, non essendo, quindi, sufficiente che la ricchezza costituisse capacità economica per legittimare la sua riconducibilità nell’ambito di applicazione dell’art. 53 della Costituzione.
Lo Stato aveva l’interesse a conseguire delle entrate per il sostenimento della spesa pubblica, ma questa necessità non poteva essere tale da scardinare i principi costituzionali propri del nostro ordinamento.
Pertanto, risultava difficile considerare come espressione di attitudine contributiva, ad esempio, il reddito che derivava da un’associazione dedita alla produzione di stupefacenti piuttosto che dedita a stampare moneta falsa.
Tali attività, oltre ad essere rilevanti e sanzionate sul piano penale, violavano direttamente gli artt. 4,18, 41 della Costituzione.
Sul piano economico, il prelievo poteva trovare una sua giustificazione, ma in un’ottica giuridica tali proventi illeciti difettavano di un elemento essenziale per ricomprenderli all’interno dell’art. 53 della Costituzione, ossia la loro fonte non era conforme alla dimensione della legalità.
Il punto fondamentale di questo orientamento giurisprudenziale faceva perno sul fatto che ciò che trovava qualificazione all’interno dell’ordinamento penale non poteva, essendo privo di idoneo titolo giuridico, essere visto come fonte di reddito per il diritto.
Il secondo indirizzo, invece, prescindendo dalla dimensione giuridica, considerava rilevante soltanto la dimensione economica.
In tale ottica, qualsiasi ricchezza era espressione della capacità economica di cui all’art. 53 della Costituzione.
A favore di tale tesi, i sostenitori richiamavano due importanti considerazioni: -‐ all’interno del nostro ordinamento, risulta tassabile qualsiasi novella
ricchezza che derivi da una forza produttiva con l’attributo della riproducibilità;
-‐ ai fini della imposizione, ciò che rileva è il possesso, ossia la disponibilità del reddito e non tanto la sua provenienza, sicché l’illeceità della fonte resta avulsa dalla qualificazione normativa del fatto.1
Tali controversie vennero placate dal legislatore che, con l’introduzione dell’art. 14, comma 4, della legge del 24 dicembre 1993, n. 537, ha provveduto ad introdurre
1 PUTZU G. E GALLUCCIO L., Nuovo regime impositivo dei proventi illeciti e dei costi da reato, in
nel nostro ordinamento fiscale la normativa relativa alla tassazione dei proventi illeciti, aderendo implicitamente alla seconda delle teorie sopra delineate.
In particolare, il suddetto articolo prevede che “nelle categorie di reddito di cui
all'art. 6 comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria.”
L'art. 14 comma 4, della legge n. 537 del 1993, tuttora in vigore, sancisce, quindi, la tassazione, ai fini delle imposte dirette, dei redditi derivanti da fatti, atti o attività che rappresentano illeciti civili, penali o amministrativi, i quali devono essere determinati rifacendosi agli ordinari principi del Testo Unico delle imposte sui redditi (il cosiddetto T.U.I.R., approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 modificato dal decreto legislativo 12 dicembre 2003, n. 344).
L’imponibilità riguarda tutti i proventi derivanti da illeciti di qualsiasi natura, non essendo rilevante dal punto di vista fiscale la fonte illecita (penale, amministrativa o civile) del provento.
Parte della dottrina ha affermato, infatti, che l’illeceità della fonte non ostacola la tassazione dei predetti proventi, in quanto, si tratta di una norma tributaria sia nel presupposto che negli effetti.2
Tuttavia, l’introduzione dell’art. 14, comma 4, aveva comportato la necessità di individuare se tale della disposizione fosse applicabile indistintamente a tutti i proventi illeciti o solamente a quelli inquadrabili tra le categorie riportate nell’art. 6 del T.U.I.R..
Numerose erano state, difatti, le perplessità e i dubbi interpretativi concernenti, prima dell’innovazione avvenuta per effetto del D.L. n. 223/2006, la corretta applicazione del requisito di “classificabilità” dei proventi illeciti in una delle categorie reddituali disciplinate dall’art. 6 del T.U.I.R..
2 TESAURO F., Indeducibilità dei costi illeciti: profili critici di una norma di assai dubbia
Stando al tenore letterale della norma, la stessa prevede espressamente che devono ”intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti,
atti o attività qualificabili come illecito….”.
Dunque, inizialmente, ai fini della corretta applicazione del suddetto articolo 14, comma 4, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, si riteneva fosse necessario verificare, nel caso concreto, la sussistenza dei requisiti per ricondurre il provento illecito in una delle categorie predeterminate dal T.U.I.R..
Ma, con l’introduzione del comma 34-‐bis dell’articolo 36 del D.L. n. 223/2006 le problematiche applicative sorte nel previgente sistema legislativo, in ordine all’indispensabile inquadramento della ricchezza illecita in una delle suddette categorie imponibili, sono venute meno e sono stati superati i contrasti sollevati dalla giurisprudenza e della dottrina circa la necessità di adottare un criterio di assoggettabilità omnicomprensiva ad imposizione di tutti i proventi illeciti.
L’articolo 36 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con la Legge 4 agosto 2006 n. 248, ha stabilito un’interpretazione autentica del contenuto dell’articolo 14, comma 4, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, indicando come i proventi illeciti siano indistintamente sottoposti a tassazione a prescindere dall’inquadramento in una delle categorie di reddito dell’art. 6, comma 1 del T.U.I.R..
Nello specifico, l’articolo suddetto stabilisce che l’art. 14, comma 4, L. n. 537/1993, in deroga all’art. 3, L. n. 212/20003 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente) “si
interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui al T.U. delle imposte sui redditi di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 1, sono comunque considerati come redditi diversi”.
In sostanza, la previsione normativa introdotta prevede che il reddito di fonte illegale, se non risulta classificabile nelle categorie di cui all’articolo 6, comma 1 del T.U.I.R., essendo inquadrabile nella categoria dei redditi diversi di cui agli articoli
3 L’art. 3 della L. 212/2000 stabilisce che “1. Salvo quanto previsto dall'articolo 1, comma 2, le
disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo. Relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d'imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono.
2. In ogni caso, le disposizioni tributarie non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data della loro entrata in vigore o dell'adozione dei provvedimenti di attuazione in esse espressamente previsti.
3. I termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati.”
67 e seguenti del T.U.I.R., rappresenti oggetto di obbligazione tributaria ai fini della determinazione del reddito imponibile.
Tuttavia, il legislatore ha sottolineato che la tassazione di tali redditi di origine illecita, possa avvenire solo qualora sussista un ulteriore determinata condizione, ossia i predetti proventi non siano già stati colpiti da un provvedimento di sequestro o confisca penale.
L’esclusione da tassazione dei redditi illeciti poiché già sottoposti a sequestro o confisca penale, in particolare, richiede la sussistenza di due requisiti concernenti il provvedimento ablatorio:
-‐ innanzitutto, che il provvedimento non sia solo potenziale, ma effettivo perché solo in questo caso viene meno il requisito del possesso del reddito; -‐ in secondo luogo che il predetto dispositivo, che dispone le misure del
sequestro o della confisca, sia stato emanato nello stesso periodo d’imposta nel quale detti proventi sono maturati. Questo perché si ritiene non sia sufficiente e non possa assumere rilevanza il mero fatto che tali proventi possano essere potenzialmente confiscati.4
Tutto ciò per garantire il rispetto del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Cost., in modo tale da consentire un trattamento uguale ai redditi leciti e illeciti, facendo sì che non siano svantaggiati proprio i primi.
Il secondo dei presupposti sopra menzionati aveva, infatti, posto la necessità di determinare che cosa accadesse qualora fosse sopraggiunto un provvedimento di confisca o sequestro in un periodo d’imposta successivo a quello in cui era avvenuta l’emanazione del provvedimento impositivo e l’eventuale riscossione dei tributi in esso previsti.
In un primo momento, la giurisprudenza si era espressa nel senso che, qualora fosse sopraggiunto un provvedimento ablatorio, producendo effetti retroattivi, questo provocasse la caducazione del provvedimento impositivo eventualmente emanato, facendo sorgere il diritto al rimborso delle imposte eventualmente versate.
4 PUTZU G. E GALLUCCIO L., Nuovo regime impositivo dei proventi illeciti e dei costi da reato, in
In tal senso, si era espresso anche il Ministero delle Finanze nella circolare ministeriale n. 150/E del 10 agosto 1994 indicando come, in sede di accertamento, l’eventuale perdita del provento per confisca e l’eventuale risarcimento potesse essere eccepito con l’inversione della prova a carico del contribuente.
La questione, infine, è stata definitivamente risolta dalla Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 7337 del 13 maggio 2003, ha evidenziato come, data l’autonomia dell’obbligazione tributaria in ciascun periodo d’imposta, non sia rilevante ai fini del rimborso delle imposte pagate il sopravvenuto provvedimento di sequestro/confisca intervenuto dopo il periodo d’imposta in cui si è verificato il presupposto del possesso per la tassazione di tali redditi di origine illecita.
Quindi, l'eventuale provvedimento di confisca non incide sulla validità dei provvedimenti impositivi emanati in diversi periodi d'imposta.5
Da ultimo, altra problematica di rilievo ha riguardato l’efficacia irretroattiva o retroattiva del suddetto articolo 14, comma 4, come conseguenza diretta della natura innovativa piuttosto che interpretativa della norma.
Difatti, mentre da un lato l’Amministrazione finanziaria faceva propendere il suo orientamento a favore della tesi di “norma interpretativa”, basandosi sul fatto che la nuova normativa esprimesse principi già ricompresi nel nostro ordinamento e, in quanto tale, avesse efficacia retroattiva; dall’altra parte, la dottrina prevalente rimarcando, invece, la portata ampiamente innovativa della nuova norma di legge, si era schierata a favore della tesi negativa, sottolineando che la nuova disposizione, come tale, non potesse essere valida che per l’avvenire.
Sul punto è intervenuta più volte la Corte di Cassazione, con le sentenze emesse dal 1995 al 2006, la quale, in conclusione, ha disposto come la nuova norma di cui all’art. 14, comma 4, debba essere intesa come norma interpretativa autentica dell’art. 6 del T.U.I.R., con conseguente efficacia retroattiva e, dunque, applicabile anche per i periodi d’imposta antecedenti alla sua entrata in vigore.
Le medesime questioni affrontate dalla dottrina e dalla giurisprudenza circa la natura interpretativa o innovativa relativa alla disposizione di cui al comma 4 dell’art. 14, si sarebbero riproposte anche con riferimento alle disposizioni introdotte per effetto dell’art. 36, comma 34-‐bis della D.L. 4 luglio 2006, n. 223, se
5 SCREPANTI S., L’indeducibilità dei costi da reato, in “Rassegna tributaria” n. 3 di maggio-‐giugno
l’articolo stesso non avesse esplicitamente chiarito di porsi in deroga alle disposizioni contenute nell’art. 3, L. 27 luglio 2000, n. 212 (il cosiddetto Statuto dei diritti del contribuente).
L’ordinanza n. 37 del 2010 ha, infatti, sottolineato come l’art. 36, comma 34-‐bis, data l’esplicita deroga, sia da considerarsi quale norma di natura interpretativa e, in quanto tale, avendo efficacia retroattiva, sia applicabile anche ai rapporti sorti antecedentemente alla sua entrata in vigore.
L’attenzione da parte della dottrina e della giurisprudenza sul trattamento fiscale relativo ai componenti di reddito derivanti da condotte penalmente rilevanti, non ha però solamente riguardato i componenti positivi di reddito, ma anche quelli negativi.
Il legislatore, a tal proposito, era intervenuto con l’art. 2, comma 8, della L. n. 289 del 27 dicembre 2002, disponendo la regola generale per quanto riguarda i costi e le spese connessi a fattispecie penalmente rilevanti che erano da ritenersi, per effetto della nuova disposizione, indeducibili.
Era stato così aggiunto al comma 4 della L. n. 537/1993 concernente l’imponibilità dei proventi derivanti da attività illecite, il comma 4-‐bis che sanciva il trattamento fiscale dei componenti negativi di reddito sempre connessi a comportamenti illeciti.
In particolare, il comma 4-‐bis stabiliva che “Nella determinazione dei redditi di cui
all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti “.
Dal tenore letterale della nuova norma si evinceva, quindi, una portata piuttosto ampia dell’ambito di applicazione del regime sull’indeducibilità dei costi da reato, riferibile agli illeciti penalmente rilevanti (essendo esclusi quelli civili e amministrativi), con effetti significativi in relazione alla quantificazione e qualificazione dell’obbligazione tributaria dovuta dal contribuente.6
Mentre, quindi, risultavano imponibili tutti proventi derivanti da attività illecite, i connessi costi e spese seguivano un trattamento fiscale diverso in base alla
6 SCREPANTI S., L’indeducibilità dei costi da reato, in “Rassegna tributaria” n.3 di maggio-‐giugno
tipologia di illecito commesso; i costi erano deducibili secondo i criteri ordinari, se attinenti ad attività illecite sul piano civile o amministrativo, indeducibili se riconducibili ad attività illecite sul piano penale.
Tuttavia, a livello pratico, non erano mancate questioni in merito alla corretta applicazione del nuovo comma 4-‐bis della L. n. 537/1993 che stabilendo come regola generale l’indeducibilità dei costi da reato, contrastava con le disposizioni di cui al precedente comma 4 nel quale è prevista come l’imponibilità dei proventi illeciti, non derogando alle regole ordinarie previste per la determinazione del reddito imponibile, debba avvenire al netto dei relativi costi.
Difatti, il comma 4 della L. n. 537/1993 sancisce espressamente che i redditi formati dai proventi illeciti si determinano secondo le regole previste da ciascuna categoria in cui tali proventi sono classificabili; quindi, nel rispetto degli ordinari meccanismi impositivi, la tassazione dei redditi illeciti deve essere effettuata sul reddito netto, ossia sui ricavi dedotti i costi (soprattutto per i redditi d’impresa, di lavoro autonomo e assimilati).
Alla luce di tale previsione di cui al comma 4, il comma 4-‐bis, da una prima lettura, si poneva in contrasto con tale trattamento, in quanto, per le condotte illecite sul piano penale era prevista la tassabilità dei proventi senza la possibilità di scomputare i costi e le spese sostenuti per realizzare i predetti proventi.
Tuttavia, era stato osservato che il regime dell’indeducibilità dei “costi da reato” di cui al comma 4-‐bis, se pur si collocasse immediatamente dopo il comma 4 relativo alla tassabilità dei proventi illeciti, non poteva essere ritenuto per il solo fatto della sua collocazione consequenziale, una disposizione applicabile solo congiuntamente alle disposizioni di cui al predetto comma 4.
La dottrina, in proposito, si era espressa affermando che fosse scorretto contestare l’indeducibilità di un costo solo a fronte dell’imposizione di un provento da reato, dal momento che il legislatore non aveva utilizzato nessuna locuzione che facesse ritenere l’operatività del regime dell’indeducibilità come conseguenza della tassabilità dei proventi illeciti, non essendo utilizzate nel comma 4-‐bis espressioni del tipo “nel caso di cui al comma 4” o “in questo caso”.7
7 SCREPANTI S., L’indeducibilità dei costi da reato, in “Rassegna tributaria” n.3 di maggio-‐giugno
Per cui risultava non condivisibile l’interpretazione fornita dall’Agenzia delle Entrate che nella circolare n. 42/E del 2005 riteneva che, a seguito dell’applicazione delle disposizioni di cui al comma 4, dovessero applicarsi anche quelle del successivo comma 4-‐bis, con la conseguenza che a fronte dell’illeceità del provento tassato si rendesse indeducibile anche il relativo costo, se pur lecito. Difatti, il comma 4-‐bis, ai fini della sua operatività, faceva un generico richiamo alla determinazione dei redditi di cui all’art. 6 del T.U.I.R. e non alla determinazione dei redditi illeciti sul piano penale di cui si trattava al precedente comma 4.8
Quindi, stando al tenore letterale della norma, il comma 4-‐bis risultava autonomo rispetto al precedente comma 4, con l’effetto di rendere indeducibili i costi connessi ad atti o attività costituenti reato anche qualora non si fosse conseguito alcun provento illecito da tassare in virtù del comma 4.
In proposito, anche la Commissione tributaria regionale del Veneto nell’ordinanza n. 27 dell’11 aprile 2011 si era schierata, a favore dell’autonomia dei due commi in esame. La Commissione aveva sottolineato, innanzitutto, come anche anteriormente all’entrata in vigore del comma 4-‐bis non vi fossero incertezze circa la tassazione dei proventi da reato al netto dei costi leciti; inoltre l’impianto normativo dei due commi appariva del tutto non omogeneo per il fatto che mentre quello del comma 4-‐bis si riferiva esclusivamente agli illeciti penali, quello del comma 4 si riferisce anche agli illeciti civili e amministrativi. Tra l’altro, non poteva non essere preso in considerazione l’inciso di cui al comma 4 in cui viene disposta la tassazione dei proventi illeciti “se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”; infatti se il legislatore avesse avuto l’intenzione di collegare i due commi non avrebbe omesso di riportare tale eccezione nel successivo comma 4-‐bis. Ciò, dunque, appariva come una chiara evidenza del fatto che anche qualora non vi fosse alcun provento da tassare perché già sottoposto a sequestro o confisca, i connessi costi illeciti fossero ripresi a tassazione in virtù del comma 4-‐bis. Quindi, nonostante l’inapplicabilità di una disposizione, poteva comunque essere applicabile l’altra, non essendo possibile contestare la deducibilità dei costi solo se sostenuti nell’ambito di attività illecite.
8 TESAURO F., Indeducibilità dei costi illeciti: profili critici di una norma di assai dubbia
Il riconoscimento del mancato collegamento tra i due commi era, difatti, conforme a ciò che normalmente si verificava nella realtà fenomenica, essendo piuttosto frequenti i casi in cui si sostenevano costi connessi ad attività criminose, senza la necessità che i ricavi di tali attività dovessero essere tassati a norma del comma 4. A proposito, parte dell’autorevole dottrina, aveva riportato l’ipotesi in cui i proventi illeciti non erano tassati sulla base del comma 4 perché sottoposti a sequestro o confisca, senza che ciò, tuttavia, ostacolasse l’applicazione del comma 4-‐bis con il recupero a tassazione dei costi e delle spese sostenute per realizzare tali proventi illeciti sequestrati o confiscati.
Quindi, ad esempio, se un soggetto commercializzava merce contraffatta e il profitto era stato sottoposto a sequestro o confisca, nonostante l’inapplicabilità del comma 4, non potevano essere dedotti i costi sostenuti per realizzare detti proventi ai sensi del comma 4-‐bis.
In senso contrario, l’Agenzia delle Entrate nella circ. n. 42/E del 2005, propendendo a favore del legame tra i commi (4 e 4-‐bis), si era espressa sostenendo come in tali casi l’indeducibilità del costo derivasse dalla mancanza della base imponibile, in quanto, sottoposta a confisca o sequestro. In proposito, nel predetto documento di prassi, l’Agenzia delle Entrate aveva affermato che “In
tali ipotesi il comma 4 dell’art. 14 prevede che i proventi non siano imponibili. I costi e le spese riconducibili a tali proventi, mancando il requisito dell’inerenza a proventi imponibili, non possono essere dedotti dai proventi derivanti da altre attività lecite o illecite esercitate dal contribuente non sottoposti a sequestro o confisca penale. Inoltre, nel caso in cui l’intera attività esercitata dal contribuente rilevi come illecito penale e tutti i proventi siano sottoposti a sequestro o confisca, la deducibilità dei costi e delle spese in regime di impresa determinerebbe, per assurdo, una perdita fiscale riportabile.”
Inoltre, oltre allo specifico caso sopra riportato, per cui si rendeva inapplicabile l’imposizione ai sensi del comma 4, a seguito del sequestro o della confisca del provento, la tassazione dei costi di cui al comma 4-‐bis operava anche nell’ipotesi in cui non vi erano proventi illeciti da tassare, in quanto, i proventi dell’attività illecita erano già stati soggetti regolarmente a imposizione perché “camuffati” quali profitti di formazione lecita.
Per esempio nel caso di generi di consumo falsificati e commercializzati come originali, i proventi derivanti dalla vendita di tale merce, essendo stata acquistata attraverso i canali di approvvigionamento legali, erano regolarmente contabilizzati e dichiarati.
Altro caso in cui si rendeva operante il comma 4-‐bis, malgrado l’inapplicabilità del comma 4, era quello in cui i proventi derivanti dall’attività costituente reato fossero già sottoposti regolarmente a tassazione, in quanto, di per sé destinati a inserirsi nel profitto dell’impresa lecitamente esercitata.
In esempio, era stato proposto il caso del reato di contrabbando doganale realizzato da un’impresa che importava beni in evasione dei dazi doganali, sottolineando come in tale circostanza, la merce di cui era stata dichiarata, in maniera fraudolenta, la legale importazione era poi commercializzata mediante gli ordinari canali di vendita, con la conseguenza che i proventi erano soggetti regolarmente a tassazione e la successiva contestazione dell’illecita penale, relativa all’importazione effettuata, consentiva solamente di recuperare a tassazione i costi sostenuti per il compimento dell’attività illecita di importazione.
Infine, era possibile che si verificasse anche la situazione in cui a seguito del sostenimento di un costo connesso al reato, non si realizzasse alcun provento né di natura lecita né di natura illecita come, per esempio, nell’ipotesi delle tangenti corrisposte ad un pubblico ufficiale per l’aggiudicazione di un appalto. Difatti, in tale circostanza, il ricavo regolarmente tassato legato alla realizzazione del bene o del servizio pubblico non era attribuibile alla tangente pagata, in quanto, il ricavo conseguito non era una diretta conseguenza di tale costo sostenuto che, comunque, ai sensi del comma 4-‐bis, era ripreso a tassazione, nonostante la mancata operatività del comma 4.9
I casi sopra citati non facevano che evidenziare come fosse sbagliato ritenere che l’operatività del regime di indeducibilità dei “costi da reato” potesse essere eccepita solo qualora trovasse applicazione il precedente comma 4 relativo alla tassabilità dei proventi illeciti, ma al contrario come tali commi fossero fra di loro indipendenti e privi di qualsiasi legame l’uno con l’altro.
9 SCREPANTI S., L’indeducibilità dei costi da reato, in “Rassegna tributaria” n. 3 di maggio-‐giugno
Tra l’altro, secondo quanto riportato da parte dell’autorevole dottrina, sarebbe stato del tutto illogico e irrazionale ritenere che i costi fossero di per sé indeducibili perché correlati a proventi illeciti, infatti l’illeceità dei costi rileva a prescindere dai proventi.10
A tal proposito, era possibile che a fronte del sostenimento di costi leciti si realizzassero dei proventi illeciti come nel caso di abuso della professione medica in cui i proventi sono certamente illeciti, ma non sono da considerarsi indeducibili, in quanto, non illeciti, i componenti negativi relativi, ad esempio, al canone di affitto dell’ambulatorio o allo stipendio della segretaria.
Alla luce di ciò, quindi, non era condivisibile l’opinione fornita dall’Agenzia delle Entrate nella circ. n. 42/E del 2005 che propendeva per la tesi secondo cui, qualora l’attività esercitata fosse complessivamente illecita, allora tutti i componenti negativi sostenuti per l’esercizio dell’attività stessa fossero da ritenersi indeducibili.
In proposito, parte dell’autorevole dottrina, affermando l’autonomia del comma 4-‐ bis rispetto al comma 4, sosteneva come la natura illecita del provento non si riversasse sul costo e, quindi, non ostacolasse alla possibilità di dedurre i costi se di carattere lecito.11
Altri dubbi derivanti dal comma 4-‐bis della L. n. 537/1993 si erano manifestati a causa del riferimento letterale della norma, in modo generico, a tutti i costi e le spese riconducibili alle attività qualificabili come reato.
Era, quindi, necessario individuare quali fossero i componenti negativi per i quali si potesse procedere al disconoscimento fiscale, data la portata piuttosto ampia della norma.
La questione si sarebbe potuta risolvere in maniera intuitiva qualora si fosse trattato di costi riferibili esclusivamente a condotte rilevanti sul piano penale come, per esempio, nel caso del costo per l’approvvigionamento di merce contraffatta o importata in contrabbando e ai relativi costi attinenti al trasporto, al magazzinaggio e al confezionamento; in tale ipotesi, infatti, i costi disconosciuti a livello fiscale non sarebbero stati difficili da determinare, in quanto, sarebbe stato
10 TESAURO F., Indeducibilità dei costi illeciti: profili critici di una norma di assai dubbia
costituzionalità, in “Corriere tributario” n. 6 del 2012, pag. 426.
11 TESAURO F., Indeducibilità dei costi illeciti: profili critici di una norma di assai dubbia
possibile ricavarli attenendosi alle risultanze contabili e/o extracontabili del soggetto interessato.
Tuttavia, il richiamo della norma alla semplice “riconducibilità” dei costi alla commissione del reato, aveva evidenziato come, nell’ambito di operatività della norma, non dovessero essere ricompresi solo i costi utilizzati integralmente ed esclusivamente per la commissione del reato. Piuttosto, a livello pratico, si sarebbero potuti recuperare a tassazione non solo i costi direttamente impiegati per commettere il reato, ma anche quelli utilizzati promiscuamente per compiere atti sia leciti che illeciti come, per esempio, (ricollegandosi all’esempio sopra riportato) il costo sostenuto per il trasporto di merce di provenienza lecita unitamente al trasporto di merce di provenienza illecita.12
Sul punto era intervenuta l’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 42/E del 26 settembre del 2005, che aveva chiarito, dato il riferimento del comma 4-‐bis ai componenti negativi “riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato”, come qualora l’illiceità avesse coinvolto solo alcuni “fatti o atti” realizzati nell’ambito di un’attività lecita, l’indeducibilità si sarebbe potuta eccepire sia in relazione ai costi specificamente attinenti all’illecito, sia ad una quota dei costi riferibili all’attività esercitata nel suo complesso e, quindi, sostenuti promiscuamente per realizzare fatti leciti e illeciti. In tal caso, sarebbe stato necessario stabilire la quota dei costi promiscui indeducibili facendo riferimento a dei criteri di proporzionalità in relazione alla situazione considerata.
Secondo quanto riportato dall’Agenzia delle Entrate, inoltre, l’applicazione del regime di cui al comma 4-‐bis e la conseguente indeducibilità dei costi riconducibili al reato, sarebbe scattata al momento della trasmissione al pubblico ministero della notizia di reato a carico del contribuente, ai sensi degli artt. 33113 e 34714 del
12 SCREPANTI S., L’indeducibilità dei costi da reato, in “Rassegna tributaria” n. 3 di maggio-‐giugno
2004, pag. 958.
13 L’art. 331 del c.p.p. sancisce che “1. Salvo quanto stabilito dall'articolo 347, i pubblici ufficiali[c.p.
357] e gli incaricati di un pubblico servizio[c.p. 358] che, nell'esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio, hanno notizia di un reato perseguibile di ufficio, devono farne denuncia per iscritto, anche quando non sia individuata la persona alla quale il reato è attribuito.
2. La denuncia è presentata o trasmessa senza ritardo al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria.
3. Quando più persone sono obbligate alla denuncia per il medesimo fatto, esse possono anche redigere e sottoscrivere un unico atto.