Alberto Russo Frattasi
Che cos'è il management o la direzione aziendale come attività concreta. Nella storia delle teorie direzionali, Claude S. George lo definisce come « quel ele-mento che, in certa misura, porta unità e coesione ad ogni iniziativa che richie-da uno sforzo umano »
Secondo Ram Charan, invece « La fun-zione del management (generale) riguar-da ciò che è importante e critico per l'attività aziendale e nel suo insieme. In più, esso è caratterizzato dalla necessità di aver capacità integrative, di adatta-mento e creative »2.
A sua volta, Harold Koontz, in un noto articolo, definisce il management: « L'ar-te di far si che le cose siano fatL'ar-te con e dalle persone in gruppi formalmente organizzati3, cioè in gruppi di individui aventi determinati fini comuni4. Essa riguarda quindi la presa di decisioni sul-l'utilizzo delle risorse dell'organizzazio-ne, oppure la predisposizione di risorse nuove in vista del raggiungimento di quei fini »5.
Una lunga catena di autori, a partire da classici come Weber, Veblen e Burnham fino a contemporanei come Galbraith, Morris e Bell, ha caratterizzato la presa di coscienza manageriale come dovuta sia al crescente peso del fattore « cono-scenza » nei processi produttivi e nel loro impiego economico, come al corri-spettivo aumento di influenza di chi detiene tale conoscenza, siano essi gli « esperti » di Weber, gli engineers di Veblen, i managers di Burnham o la « tecnostruttura » di Galbraith.
Secondo l'ASME (American Society of Mechanical Engineers) dirigere un'im-presa è al tempo stesso una scienza ed un'arte. Se si accetta questa definizione, le leggi, le procedure, le tecniche, i me-todi propri della scienza del manage-ment possono essere apprese, valendosi di strumenti didattici opportuni; ma per impossessarsi di un'arte è necessario ri-correre a fattori più imponderabili6: questi dipendono dall'ambiente in cui si vive, dalla capacità personale di mo-dificare i propri atteggiamenti, di assu-mere dei comportamenti adeguati al ruolo da svolgere.
Una indagine dell'American Manage-ment Association, effettuata su di un campione di circa 6000 manager e re-sponsabili di impresa, ha messo in
evi-denza come oltre il 63% degli stessi ritenga la bassa produttività manageriale uno dei fattori più preoccupanti del mo-mento.
Le principali cause di questo fenomeno sono da attribuirsi sia alla nebulosità degli obiettivi (50% delle risposte), sia alla cattiva leadership (48% dei respon-si); a queste si aggiungono i metodi ope-rativi adottati e le cattive relazioni inter-correnti tra subordinati e capi (30% dei responsi) nonché la inadeguatezza dell'addestramento (31% delle risposte). Estesi studi condotti negli ultimi anni pongono in risalto come quattro mane-ger su cinque, anche al livello più alto, stentino a mantenersi aggiornati sui cambiamenti del loro settore e come più del 72% riservino troppo poco tempo alla meditazione sui cambiamenti in atto ed alla conseguente pianificazione. Questi dati, anche se opportunamente valutati, sono molto preoccupanti se si pensa che oltre il 50% del bagaglio delle conoscenze accademiche di un tec-nico viene — oggi — reso obsoleto in meno di 8 anni e che il progresso tecnologico e la crescente complessità del sistema esterno in cui vivono e si sviluppano le imprese rendono sempre più difficile all'uomo senza cultura, che si sia fatto da sé, svolgere le funzioni manageriali in una impresa anche di pic-cole dimensioni, senza incorrere gravi rischi sia di una rapida obsolescenza sia di soccombere a fronte di una con-correnza dinamica.
Si profila quindi la necessità di elevare gradualmente ma rapidamente il livello culturale medio della popolazione attiva affinché anche i futuri imprenditori pos-sano disporre di una base di conoscenze generali e specifiche abbastanza solida e di livello elevato tale da consentire loro la possibilità di dare vita ad ini-ziative produttive in grado di affermarsi e di resistere in un mondo permeato di scienza e di tecnica molto avanzate. I creatori delle fortune iniziali, gli « em-pire builders » come Coleman Dupont, William G. Durant, Henry Ford o Ri-chard Sears erano uomini caratterizzati da forte fascino personale e dall'entu-siasmo estroverso ed un po' approssi-mativo del venditore.
La generazione successiva degli « orga-nization builders », coloro che
trasfor-marono gli imperi iniziali nelle moderne corporations multidivisionali, al posto delle doti carismatiche dei predecessori hanno invece concentrato la loro atten-zione ed i loro sforzi sui sistemi di con-trollo, sui dati e sulle statistiche al fine di cercare una base sempre più vasta ed — a parer loro rassicurante — per le loro decisioni.
Era passato il tempo in cui una impresa poteva produrre prima e vendere poi. Come ha scritto Sloan ne: « My Years in General Motors » « l'avvento del computer alla fine degli anni 50 nelle aziende sembrò fornire un eccezionale strumento tecnico per la realizzazione di tale impostazione ».
Ma il manager di oggi deve vivere da un lato con « l'arte di possibile » ade-guando giornalmente il suo comporta-mento al mutare delle esigenze e dal-l'altro cercando di mettere a fuoco le strategie, attività, conti e servizi che pos-sono produrre risultati: concentrandosi sul produttivo ed abbandonando quindi l'improduttivo ed il marginale, dopo aver riconosciuto che tutti i prodotti o servizi hanno un ciclo di vita utile. Più aumenta la variabilità ed incertezza dell'ambiente esterno (condizioni politi-che, finanziarie, sociali esterne al ciclo produzione-vendita della singola impre-sa) più si estende quella area decisoria preposta alle interazioni di confine (boundary relations) tra sistema azien-dale ed ambiente esterno7.
Si tratta, come noto, di decisioni so-vente nuove, occasionali, non struttura-te e nel construttura-tempo complesse, risolubili solo da capacità generiche e di adatta-mento e non da istruzioni o procedure specifiche.
Le iniziative più moderne volte alla formazione sistematica, dei dirigenti de-vono quindi avvalersi tanto di una istru-zione teorica, quanto di mezzi i quali tentino di ricostruire o di evocare un ambiente propizio all'assimilazione di una mentalità adatta ad una leadership efficiente o comunque più efficiente di quella determinatasi spontaneamente nell'individuo singolo. Tutto questo è valido per dirigenti di imprese di ogni tipo e dimensione8.
Si diffonde oggi la propensione a con-siderare l'attività manageriale come una attività professionale vera e propria, in
un certo senso indipendente dalle carat-teristiche, tecniche e strutturali dell'og-getto cui il dirigente deve dedicare le sue cure: la sua opera può non essere legata a tecnologie precise, a metodi di distribuzione particolari ed alle varie ti-pologie che è dato ravvisare nell'azienda specifica in cui opera (produzione di massa o su commessa, di beni strumen-tali o di beni di consumo, azienda ad alta concentrazione di capitale investito o « labor-intensive », a carattere fami-liare, privata o controllata dallo Stato). Se il manager è un professionista, sorge spontaneo domandarsi quali tipi di pre-parazione e di carriera si profilano per colui che dirige una impresa piccola o grande che sia.
11 manager, per assolvere alle proprie funzioni, si avvale di « strumenti » vari: la programmazione, il marketing, la con-tabilità industriale, il controllo di ge-stione, ecc., ed utilizza svariate « tecni-che », ad esempio, nel settore della pro-duzione, la meccanizzazione delle ope-razioni, la specializzazione delle attività, la standardizzazione, la coordinazione degli sforzi, ecc. Funzioni manageriali, strumenti e tecniche, tuttavia, non esau-riscono l'essenza del « management »; infatti, questi vari elementi interagisco-no fra di loro, si da costruire nel loro insieme un « sistema integrato ». Il manager si distingue per la sua capa-cità ed abilità nel delegare poteri, coor-dinare, controllare e guidare un tale sistema, il che gli impone responsabilità particolarmente elevate ed una abilità del tutto particolare.
Le tendenze economiche recessive degli ultimi anni hanno spostato l'accento dal-l'ideale della « crescita fine a se stessa » e della « massimizzazione del profitto » verso quello di una crescita solida e pia-nificata e di una politica gestionale che garantisca la redditività nel lungo pe-riodo 9.
La recessione economica del 1974-75 dovrebbe aver reso tutti i manager più sensibili rispetto alla pianificazione di lungo periodo ed alla necessità di ap-prendere ed applicare le tecniche e gli strumenti necessari per realizzarla. Infatti la formazione dei dirigenti è un aspetto oltremodo importante della mo-derna conduzione aziendale. Solo in tempi recenti si è sostituita alla figura
del « padrone-imprenditore » quella del cosiddetto « manager ». La seconda ri-voluzione industriale ha visto un notevo-le affinamento delnotevo-le cognizioni tecnologi-che ed economitecnologi-che applicate alla produ-zione e necessariamente il livello di pre-parazione è divenuto di una qualità più elevato.
Attualmente tutti i canoni sono stati rivoluzionati; ad esempio l'età media del dirigente si è notevolmente ridotta. I motivi che caratterizzano con una età, generalmente al di sotto della quaran-tina, questi operatori che gli inglesi de-finiscono « executive men », sono i re-quisiti e le cognizioni tecniche estrema-mente aggiornate che ad essi si richie-dono ed è, soprattutto, una preparazio-ne di elevato livello su disciplipreparazio-ne nuo-ve: quali il marketing, il planning, il budgeting, la conoscenza dei mercati esteri, la psicologia e la sociologia10; l'informatica e l'applicazione dei cer-velli elettronici alle esigenze della pro-duzione e della gestione aziendale". Ma proprio quest'ultimo aspetto può nascondere notevoli insidie per il « ma-nager » « L'informazione è sempre sta-ta una fonte di potere, — scrive il Wilensky — ma ora si sta trasforman-do sempre più in una fonte di confu-sione. In ogni sfera della vita moderna, la condizione cronica è una sovrabbon-danza di informazioni, poco integrate o perse in qualche parte del sistema ». Tutto questo rischia di far dimenticare che l'elemento traente prioritario è sem-pre quello organizzativo.
« Il problema del management dell'in-formazione — ha scritto Stafford Beer — è ora diventato il problema di filtrare e rifinire il massiccio sovraccarico di informazioni che sta affliggendo tutti noi, si tratti di cittadini, aziende, istitu-zioni o governi » 12.
In generale però si tende ad un sempre minor approfondimento in discipline re-lative a singoli sottosistemi aziendali e sempre maggiori cognizioni dell'intera e complessa problematica aziendale in tutti i suoi aspetti a cominciare da quello sociale.
Nel 1938 i dirigenti d'azienda erano soltanto 6000 in tutta Italia: la loro lenta progressione numerica ha seguito le tappe dello sviluppo industriale, regi-strando una stasi nel dopoguerra ed una
netta ascesa a partire dagli anni del « boom » economico.
L'aumento numerico della categoria è legato all'espansione industriale, in mo-do qualitativo; esso infatti è in rapporto non tanto con l'aumento degli addetti alle attività industriali, quanto con il crescere della produttività, misurata in termini di prodotto industriale lordo. A questo devono aggiungersi altri fat-tori, altrimenti non si spiegherebbe il fatto che la curva dell'aumento percen-tuale nel numero di dirigenti sia molto più accentuata del crescere della produ-zione industriale e non risenta del pe-riodo di stasi relativa degli anni della prima recessione.
Da statistiche su scala europea si può rilevare come nei paesi industrializzati i managers possano raggiungere fino al 2 % della popolazione n.
L'aumento in dimensione delle imprese ha causato, insieme al necessario decen-tramento delle funzioni direttive, un aumento nel numero di dirigenti; la maggiore complessità organizzativa, con la conseguente creazione di nuovi ruoli specializzati, vi ha ulteriormente contri-buito. Inoltre numerose funzioni di re-sponsabilità hanno ottenuto un ricono-scimento tangibile, costituito dal titolo di dirigente, concesso a personale un tempo classificato di prima categoria. I circa 70.000 dirigenti industriali costi-tuiscono oggi un gruppo di notevoli di-mensioni, gruppo che, inserito in uno dei settori chiave dell'economia, dovreb-be essere considerato, almeno teorica-mente, tra i protagonisti dello sviluppo o meno della società italiana.
II loro ruolo appare per ora soprattutto di natura economica, confinato per lo più nell'ambito delle attività produttive. L'assunzione di ruoli sociali o politici deve costituire un futuro naturale svi-luppo delle loro attività, in un momento in cui le imprese sono sempre più espo-ste alle sollecitazioni dell'ambiente esterno; momento in cui la maggioranza degli esperti prevede, nel lungo perio-do, un tasso di sviluppo del reddito na-zionale del 3-4% all'anno, un tasso di inflazione ben superiore al 10% annuo ed un tasso di disoccupazione elevato ed in continuo aumento; momento in cui sono da prendere decisioni e porre in atto provvedimenti molto diversi da
quelli posti in atto in periodi di svilup-po economico anche se limitato. Purtroppo l'aumentata importanza stra-tegica di alcuni settori ed istituzioni (in-dustria chimica e petrolchimica, il set-tore bancario, le aziende di Stato, ecc.) ed il fenomeno dell'indebitamento sem-pre più massiccio delle imsem-prese verso enti di finanziamento pubblici e privati, tipico dei periodi di crisi, accresce il potere ai vertici delle organizzazioni tra-sformandoli in ruoli politici e rende sempre più dipendenti, burocratici e lontani dal centro focale delle decisioni i managers interni.
Più il potere economico ed il capitale sono in fase di accentramento, più il livello di partecipazione decisionale del manager si abbassa.
Questa tendenza — a mio avviso — è estremamente pericolosa per il ruolo e la formazione mentale e professionale del manager: infatti il sentirsi lontano dal potere decisionale, pur essendo sog-getto a tutte le sollecitazioni esterne e sindacali, può, specie in periodi di crisi, favorire una impostazione prevalente-mente guardinga e burocratica che fini-sce con lo svilire le caratteristiche di iniziativa e di imprenditorialità che do-vrebbero essere le doti salienti di un moderno manager 14.
N O T E
1 C. S. G E O R G E , The History of Management Thought, Englewood ClifTs, Prentice-Hall, N. J.
1968, p. 160.
2 R. C H A R A N , A Concept of General Management,
in « the Science of Managing Applied Techno-logy », N e w York, G o r d o n and Breach, 1970, pag. 739 e seg.
3 H . K O O N T Z , Making Sense oj Management Theory, Harvard Business Review, luglio-agosto
1962.
4 Può essere utile ricordare una definizione « clas-sica della o r g a n i z z a z i o n e » : « U n ' o r g a n i z z a z i o n e esiste q u a n d o vi siano persone in grado di: comunicare le une con le altre; disposte a d a r e un contributo individuale; con l'intento di con-seguire un fine comune ». Cfr. C. BARNARD, The
Functions of the Executive, 1938.
5 Questa definizione non va confusa con quella della scienza economica data da Robbins c pre-cisamente: « L'economia è la scienza che studia il c o m p o r t a m e n t o u m a n o come relazione tra fini e mezzi scarsi e applicabili ad usi a l t e r n a t i v i » . L'attività direttiva riguarda il processo decisio-nale in sé e la sua efficacia, cioè il modo in cui le decisioni vengono eseguite, non la coerenza tra fini e mezzi impiegati, anche se ovviamente vi sono notevoli sovrapposizioni tra i due tipi di indagine.
6 Secondo il KOONTZ ogni arte — ed il dirigere è certamente una delle arti più importanti — è avvantaggiata dalla comprensione e dall'adeguata applicazione della teoria da parte di chi sa usarla.
7 S e c o n d o R I C H A R D M . G Y E R T e J A M E S G . M A R C H il problema è quello di studiare l'organizzazione dell'azienda come un sistema per la formulazione delle decisioni: studiare l'attività dell'azienda come u n a serie di reazioni di fronte a determinati problemi e situazioni che non siano determinabili a priori mediante criteri di razionalità. (The behavioral theory of the firm: a behavioral Scien-ce Economycs amalgams).
8 Ir. J. VAN VEEN (Direttore del Research Insti-tute for Management di Delft in O l a n d a ) afferma che « in una piccola impresa industriale il ma-nager adempie a tutte le funzioni della gestione, senza partecipare egli stesso alla produzione ». Tale definizione sembra particolarmente appro-priata in q u a n t o i limiti della piccola impresa vengono stabiliti in funzione di una delle con-dizioni caratteristiche in cui opera la direzione che la gestisce e la guida.
9 Sostenitore della prima impostazione è stato P. DONHAN (Is m a n a g e m e n t a profession - Har-w a r d Businnes RevieHar-w 1962) mentre sul secondo aspetto si è battuto R. W . MULLER (Can capi-talism compete? N . Y. 1953).
10 La preparazione non deve riguardare solo l'aspetto tecnico ma anche quello gestionale ed
umano perché l'obsolescenza dell'uomo è grave quanto l'obsolescenza tecnica.
11 L'art. 8 del Contratto dei Dirigenti Industriali, articolo che si occupa della necessità di u n a « formazione permanente » dei managers si orien-ta sulle 5 / 6 giornate all'anno e le 150 ore in tre anni sono quantitativamente pari a q u a n t o richiesto per i managers ed i quadri.
Siamo anche alla pari con il modello francese; infatti il 2 % del monte salari è un 2 % di 200 giorni, cioè quattro giorni all'anno per ogni di-pendente: i 6 giorni chiesti da noi sono a p p u n t o 48 ore e d u n q u e la terza parte delle 150 ore ottenute dai confederali.
Fin qui siamo alle richieste, ai programmi; in realtà siamo ancora molto indietro e ciò è morti-ficante.
12 Continua Beer: « Potremmo dire che è un problema più di corretto immagazzinamento che di raccolta dei dati; più di rapido reperimento che di immagazzinamento; più di propria sele-zione che di reperimento; più di identificasele-zione dei bisogni che di selezione ».
'3 II che significa che in Italia potrebbero rag-giungere il milione: centomila dirigenti e nove-centomila funzionari.
, 4 Si riportano qui di seguito l'elenco delle prin-cipali organizzazioni dei managers in Italia: C I D A
È la massima organizzazione sindacale dei ma-nagers. Si articola in 6 federazioni: Dirigenti aziende industriali. Industriali (Fndai) nella quale spiccano l'Associazione lombarda (Aldai) e il Sindacato romano. Dirigenti enti pubblici (Fen-dep). Dirigenti aziende commerciali (Fendac). Dirigenti assicurativi. Dirigenti bancari. Diri-genti agricoli.
U C I D
Unione cristiana imprenditori dirigenti; promuo-ve la conoscenza, la diffusione e l'attuazione della dottrina sociale cristiana.
U D D A
Unione democratica dirigenti d'azienda: centro di sensibilizzazione politica che raccoglie soprat-tutto uomini di sinistra.
M Q D
Quadri democratici: movimento politico-cultu-rale per quadri e dirigenti; i suoi aderenti ven-gono chiamati «colletti r o s s i » .
F E D E R Q U A D R I
È un organismo che punta al middle manage-ment e si pone tra la Cida e il sindacato unitario. U N I O N Q U A D R I
Movimento d'opinione la cui punta di diamante è costituita da « Giovani quadri ».
SINFAI
Sindacato del middle management che si rivolge soprattutto ai funzionari delle aziende industriali. CGIL-CISL-UNIL
In sindacato unitario, onnicomprensivo di tutti i lavoratori, rappresenta anche dirigenti, quadri, intermedi, tecnici e impiegati.
IDI
Fondazione per l'Istituto dirigenti italiani ( D P R 477, del 1971). Ha per scopo la formazione, l'aggiornamento, la specializzazione e il perfe-zionamento dei dirigenti d'azienda attraverso corsi di studio, seminari, rapporti con organismi culturali e scuole, diffusione di pubblicazioni. Svolge circa 10 mila giornate l'anno di corso interaziendali cui prendono parte un totale di 2000 persone. Altre 3000 partecipano a tavole rotonde e dibattiti.
IDE
Associazione imprenditori e dirigenti europei, filiazione della Federation des jeunes patrons.
IL COSTO
Gianmaria Baiano
DE RIFIUTI
Nel quadro di E 77, a Torino Esposi-zioni si è recentemente svolto, dal 27 al 29 aprile scorsi, il Convegno Interna-zionale su « Rifiuti e Ambiente », cui hanno partecipato circa 200 esperti di 5 nazioni (Italia, Francia, Svizzera, Gran Bretagna, Austria), tra i quali nu-merosi direttori di Aziende Municipaliz-zate di Igiene Urbana, dirigenti di ser-vizi di programmazione del settore, tec-nici e studiosi, docenti universitari di discipline connesse con questi problemi. Fra i temi dibattuti, particolare interes-se ha suscitato la necessità di ridurre l'incidenza finanziaria del problema del-la raccolta e dello smaltimento dei ri-fiuti solidi urbani sui bilanci comunali, ormai avvertita da molti anni, e parti-colarmente in questi ultimi.
Risulta infatti — secondo i dati con-suntivi pubblicati nell'annuario C I S P E L
— che i bilanci delle Aziende di Igiene Urbana presentano il più alto tasso di incremento dei passivi, maggiore anche di quello delle Aziende di Trasporto Pubblico. Nel 1973 i bilanci delle pri-me fecero infatti registrare costi di rac-colta pari a 43.769 milioni di lire, a fronte di un ricavo derivato dai pro-venti della tassa raccolta rifiuti di
27.941 milioni, con un passivo di 15.828 milioni. Nel 1974 i costi di rac-colta salirono a 60.997 milioni, i ricavi a 28.711 milioni, il passivo a 32.286 milioni, con un incremento del 104%. Nello stesso periodo il passivo delle Aziende di Trasporto Pubblico è passa-to da 412,7 miliardi di lire a 590,8 miliardi, con un incremento del 4 3 % . I dati parziali disponibili relativamente agli anni successivi mostrano come que-sta tendenza si sia mantenuta ed anzi aggravata, tanto che attualmente su tre lire spese per lo svolgimento di questo servizio, solo una è coperta dai proventi della tassa raccolta rifiuti.