Alfonso Bellando L
i-Prima l'uomo dà vita alle cose belle, utili e gradevoli e poi, in un legittimo timore di perdere il bene prezioso e con un non meno legittimo desiderio di farlo conoscere, lo raccoglie e lo con-serva in un luogo ritenuto idoneo, chia-mato museo.
Ha scritto il prof. Mario Federico Rog-gero, l'autorevole preside della Facoltà di Architettura del Politecnico di To-rino, come artisti, critici e conservatori abbiano contribuito, con l'andar del tempo, al sorgere di una nuova scienza, la museografia « la cui finalità, ancor oggi, rimane quella di accompagnare l'evoluzione dell'indagine critica con una caratterizzazione architettonica del museo, che assimili ed indirizzi ogni accorgimento della tecnica ad una fina-lità interpretativa dell'opera esposta ». Ma non è stato sempre cosi, o meglio, per troppo tempo non ci si pose questi problemi. Anche se la collezione era sta-ta messa dal possessore a disposizione del pubblico, il suo ordinamento — di-ce ancora il prof. Roggero « non aveva avuto influenza alcuna sulla forma ar-chitettonica dell'edificio destinato ad accoglierla ».
Se non ci sono molti motivi di rallegrar-si di vivere nell'epoca presente, questo almeno possa essere ascritto: che, quan-do vogliamo andare a vedere un museo, ci può anche capitare di trovarlo
collo-cato nella costruzione giusta e nell'am-biente adatto.
Sono considerazioni che vengono spon-tanee osservando da lontano il Museo dell'Automobile « Carlo Biscaretti di Ruffìa ». E vorrei porre l'accento su quel « da lontano »; non succede spes-so, anzi avviene quasi mai di potersi imbattere in un edificio museale che abbia attorno un suo spazio vitale, un'ariosità che lo valorizzi, del verde che lo isoli dal mondo circostante. Qui, una terra destinata dall'uomo a suo an-tico insediamento scende dolcemente verso un gran fiume ed ha di fronte un colle meraviglioso. Luogo geografi-camente e storigeografi-camente felice. Lode agli uomini che lo hanno prescelto e lode alla Municipalità di Torino per averlo concesso.
Quando l'architetto Amedeo Albertini si mise all'opera si trovò il compito as-sai facilitato; fu lui ad incastonare in quell'area aperta un tassello che si ar-monizza mirabilmente con l'insieme, fu lui ad applicare con sagacia i dettami della museologia.
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Perché il museo, a Torino? La risposta potrebbe essere sbrigativa: perché l'au-tomobile è nata qui, perché ben 20 delle 61 fabbriche automobilistiche
sor-te in Italia fra il 1895 ed il 1906 fu-rono torinesi. Ma ci sono anche altre valide ragioni, dalla funzione assolta dalla città nel campo della meccanica, al suo primato incontestabile sul piano nazionale che la rese presto capitale e regina del nuovo mezzo di locomozione, alla preminenza della sua Scuola di in-gegneria, ricca di validi docenti e di ge-niali allievi, che aveva fornito, fin dal-l'inizio una compatta pattuglia di tecni-ci di prim'ordine.
E perché, come sempre avviene, ci sono stati degli uomini eminenti che hanno saputo unire alla ferrea volontà il mas-simo dell'immaginazione per la realiz-zazione dell'opera.
Il felice approdo sulle rive del Po era stato preceduto da una serie di eventi, non tutti favorevoli. Si era nel 1932 quando il sen. Roberto Biscaretti di Ruf-fìa e l'avv. Cesare Goria Gatti (due dei superstiti del gruppetto lungimirante che, a fine secolo, aveva fondato la FIAT) cominciarono a pensare che fos-se ormai necessario cercar di salvare quanto restava in Italia del periodo pio-nieristico della motorizzazione.
La loro idea incontrava consensi e l'avv. Giuseppe Acutis, presidente
del-I ' A N F del-I A (Associazione Nazionale fra In-dustrie Automobilistiche) decideva di organizzare una Prima Mostra Retro-spettiva nell'ambito del Salone dell'Au-tomobile, in calendario per la prima-vera 1933. L'incarico veniva dato al conte Carlo Biscaretti di Ruffìa e qui compare il nome di colui che sarebbe stato l'artefice del museo, cui avrebbe dedicato pensiero, energie, strenua e battagliera attività per quasi tre decen-ni. La Retrospettiva aveva successo e cosi si stabiliva di addivenire alla crea-zione di una collecrea-zione permanente.
L ' A N F I A interessava del problema il Comune. Veniva creato un Comitato pro-motore per la fondazione dell'ente mu-seale e Carlo Biscaretti veniva nomi-nato « ordinomi-natore provvisorio ». Occorre una sede temporanea e la si trova, nel 1935, nell'edificio dell'ex Aquila Italiana, in corso Belgio. La rac-colta comprende già una quarantina tra vetture ed autotelai, oltre a varie de-cine di motori e di parti staccate. Nel
pre-Carlo Biscaretti di Ruffia.
Dall'alto in b a s s o :
Il <t iandau » del capitano Bordino (1854).
La prima automobile italiana, dovuta al prof. Enrico Bernardi. La prima Fiat della storia: la «3 1/2 HP».
S o p r a :
La Ford T. prodotta in 15 milioni di esemplari.
disposte ed ordinate in locali siti nello stadio comunale.
La guerra causa gravi danni, specie al-l'archivio, ma subito dopo riprende l'opera di restauro delle vetture, di ri-cerca dei pezzi rari, delle pubblicazioni « introvabili », dei documenti storici. Le fabbriche automobilistiche e la fa-miglia Agnelli decidono infine, è il lu-glio 1956, di promuovere la costruzio-ne di una sede permacostruzio-nente, assicuran-do un largo contributo finanziario, cui si aggiunge successivamente quello di altre industrie e di altri enti. L'inaugu-razione della nuova sede avviene il 3 novembre 1960.
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Sul corso Unità d'Italia, ecco venir in-nanzi l'ampia, convessa facciata. Misu-ra più di cento metri, tutta pietMisu-ra e cri-stallo e sta su perché è appesa al tetto. Il tetto, a sua volta, sta su perché si appoggia ad una possente trave a tralic-cio metallico sorretta da soli quattro pi-lastri.
Due ali di fabbrica si spingono, sui lati, verso l'immobile retrostante che ospita la direzione con i vari uffici, la sala del consiglio di amministrazione, la centra-le ecentra-lettrica e quella termica. Qui si tro-vano pure il Centro di documentazione storica e tecnica, le sale di biblioteca e di consultazione, nonché un auditorium per conferenze e congressi, con 300 po-sti, dotato di impianti di proiezione e di apparecchiature per la traduzione si-multanea.
L'intero complesso occupa un'area di 14 mila metri quadrati, di cui 10 mila ripartiti su tre piani adibiti a sale di mostra ed ai differenti servizi.
L'intero discorso espositivo si articola in diverse ed omogenee sezioni, sulla base dei materiali presentati e dell'epo-ca in cui sono stati progettati e co-struiti.
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In molti, e da molte parti, si è con-corso al conseguimento di quel risul-tato ottimale che tutti conosciamo con il nome di automobile. Ognuno riven-dica a sé il merito di certe scoperte e di certi progressi; lasciamo dunque che
iche l'Italia proclami di aver concorso validamente all'invenzione del motore a miscela detonante (Barsanti e Matteuc-ci, brevetto del 1854). La prima auto di intera concezione italiana, uscita nel
1894, è invece opera del prof. Enrico Bernardi, di Verona.
Le origini di un veicolo azionato da un proprio motore e capace di muoversi sul terreno secondo la volontà dell'uomo risalgono a tempi lontani, praticamente ai primi tentativi di sfruttamento del motore a vapore.
Fu il francese Cugnot a collocare, verso il 1770, su un carro a tre ruote, una rudimentale e pesantissima caldaia a vapore che azionava, per mezzo di biel-le, una ruota motrice: la distanza per-corsa dal carro fu scarsa ma l'indica-zione della via da seguire fu determi-nante, al punto che le cosiddette loco-motive stradali prima, i tricicli e le vet-ture automobili a vapore poi, comin-ciarono a lanciarsi sui selciati e sulle strade polverose a velocità che raggiun-gevano i 25 chilometri orari.
Applicazioni pratiche sempre più consi-stenti si realizzavano ad opera di alcu-ni tedeschi e basterà qui ricordare Benz, Otto e l'allievo di questi, Daimler, che finalmente metteva a punto il primo motore a combustione interna ad alto regime di rotazione e veramente legge-ro. La scoperta del petrolio (e la sua applicazione per il funzionamento del motore a scoppio) apriva la strada a prospettive impensabili.
Tutta questa straordinaria avventura è raccontata in modo esemplare al Museo dell'Automobile di Torino: l'ordine di presentazione è cronologico e, di fatto, si comincia proprio con un gioiello ul-trasecolare, il landau che Virginio Bor-dino aveva trasformato in automobile a vapore nel lontano 1854. Una vettura da ricchi, policroma ed appariscente. Bordino, capitano del Genio, le aveva applicato il motore, la caldaia ed un alto fumaiolo simile a quello delle « car-rette » che, si sente dire, solcano ancora i Mari del Sud. Il veicolo pesa trenta quintali e chiunque sarebbe autorizzato a pensare che non abbia percorso mol-ta strada. Ed invece non è cosi: con a bordo il suo ideatore, il macchinista e qualche passeggero, pare potesse
rag-giungere, in piano, l'incredibile velo-cità di otto chilometri all'ora, con un consumo di trenta chilogrammi di car-bone.
Procediamo oltre. Ecco la Benz 1893, la Peugeot con motore Daimler 1894, la Stanley a vapore del 1900, la seconda Renault e la prima Fiat del 1899, la De Dion & Bouton 1903, la Pope, auto elettrica americana del 1907 e la famo-sissima Ford T, prodotta in 15 milio-ni di esemplari. Ed ancora una Opel 1912, la Fiat « zero » 1912, la straor-dinaria Lancia « Theta » 1914 che, pri-ma in Europa, venne costruita con i servizi elettrici incorporati.
La Rolls Royce è rappresentata da una mastodontica Torpedo, con il posto per lo chauffeur allo scoperto, e non c'era nessuno che tutelasse il suo diritto al riparo, forse lui era contento ed or-goglioso di starsene cosi, fuori nella polvere e nelle intemperie. A sua volta, l'Isotta Fraschini, celebre casa milane-se che ha un suo gran posto nella sto-ria dell'automobilismo italiano, spicca per vari modelli, di cui il più ghiotto è indubbiamente l'8 A. La vettura espo-sta ebbe per conducente Erich von Stro-heim e per passeggeri Gloria Swanson e William Holden nel film di Billy Wil-der uscito agli inizi degli Anni Cinquan-ta con il suggestivo titolo di « Viale del tramonto » e che televisioni e cine-clubs continuano a riproporre con successo. Pare che l'auto, costruita nel 1929 e carrozzata da Castagna (uno dei gran-di nomi, con Cesare Sala, della carroz-zeria milanese d'altri tempi) sia appar-tenuta alla signora Swanson; quando giunse a Torino, l'interno era ancora rivestito di quella pelle di leopardo che nel film fa tanta figura. La pelle di leopardo, che era finta e vari accessori posticci furono rimossi, ma non i mo-nogrammi sulle portiere, le lettere N e D che ricordano il nome dell'infelice protagonista.
Fermiamoci un istante; che la velocità crescente di questi bolidi non ci pren-da la mano. Già l'occhio torna al gio-iello casalingo, alla gloria locale, alla prima Fiat della storia, la « 3 V2 H P »• Nell'aspetto, fa venire in mente una carrozza cui abbiano levato le stanghe. Raccontano le cronache che quando il
In alto:
L'Alfa Romeo P 2, modello portato alla vittoria da Achille Varzi.
Sopra:
Settore delle macchine da corsa: la Ferrari 1963.
duca di Genova, il 19 marzo 1900, inau-gurò ufficialmente la fabbrica di corso Dante, ne erano già stati costruiti una quindicina di esemplari. La vettura era una piccola « due » a due-tre posti, aveva l'interasse corto, ruote tipo bi-cicletta a diametri uguali, cambio a tre marce. Disponeva di una cilindrata di 663 centimetri cubi e poteva spingersi ad una velocità massima di 40 chilo-metri orari; il motore a benzina era collocato posteriormente e funzionava con trasmissione a catena. Il progetto era dell'ing. Aristide Faccioli che già aveva ideato la Welleyes realizzata l'officina di G. B. Ceirano, rilevata dal-la nascente Fiat. Costo dei primi esem-plari: lire quattromila.
Un vasto settore, l'ossatura centrale del museo, è dedicato al periodo che va dal 1905 ai giorni nostri. Oltre al-l'evoluzione ed al miglioramento degli organi meccanici, si assiste ad un per-fezionamento della carrozzeria agli ef-fetti dell'abitabilità e del comfort dei passeggeri.
L'auto, da privilegio di pochi si dif-fonde a vantaggio di larghi strati so-ciali, con le prime utilitarie costruite in grandi serie che sono qui rappresen-tate e che fanno gran tenerezza. Anche questo contrasto è efficace: que-sto accostamento della vetturetta popo-lare con un'imponente Lancia « Lam-bda » (l'auto esposta era quella perso-nale di Vincenzo Lancia) o la Packard, modello di lusso, con motore a 8 cilin-dri in linea, un mostro metallico il cui ampio parafango ha fatto scuola.
La sezione sportiva attira, in gran mi-sura, i patiti del motore: essa è, in sostanza, una mostra retrospettiva delle vetture da corsa e presenta numerosi pezzi di indubbio valore tecnico e sto-rico, rievocando con efficaci fotografie i tempi eroici ed i più famosi campioni. Tanto per cominciare, ci sono ben cin-que modelli vincitori del Campionato del Mondo: Alfa Romeo P 2 (Gasto-ne Brilli Peri: 1925), Alfa Romeo 158-159 (Giuseppe Farina: 1950; J. Ma-nuel Fangio: 1951), Ferrari F 2
(Alber-to Ascari: anni 1952 e 1953), Merce-des-Benz R W 196 (J. Manuel Fangio: anni 1954 e 1955), Maserati 250 F (J. Manuel Fangio: 1957).
Inoltre sono esposte lAquila Italiana, del 1912, la Bugatti 35 B, la Ferrari F 1 del 1963, nota per le affermazioni di John Surtees e di Lorenzo Bandini, la Jaguar D 1954, trionfatrice in tre edi-zioni della « 24 Ore » di Le Mans, le Lancia D 24 e F 1 ed il prototipo da record Tarf I, del corridore Piero Ta-ruffi.
Patetica è la vista, in alcune vetrine, di oggetti personali di nostri grandi cam-pioni scomparsi. Sono indumenti da corsa, tute, guanti, cappelli, caschi, scarpe ed occhiali appartenuti a
Giu-seppe Campari, ad Attilio Marinoni, ad Achille Varzi, a Tazio Nuvolari ed a vari altri assi del volante.
Il settore della carrozzeria illustra so-briamente il cammino percorso dal gior-no in cui qualcugior-no decise di viaggiare, lasciando i cavalli a riposare in scu-deria.
In particolare, è riproposta l'evoluzio-ne della forma e della tecnica costrut-tiva della scocca, dai primi esempi con ossatura in legno al tipo più moderno e sofisticato. L'interesse del visitatore è attratto subito dall'esemplare della Ci-sitalia 1948 di Pininfarina, geniale e
La Cisitalia 1948 di Pininfarina.
clamorosa indicazione di un nuovo sti-le. Il felice stupore per una linea che spazzava via le concezioni estetiche ere-ditate dall'anteguerra f u forse più note-vole all'estero che in Italia e l'autore-vole « Museum of Modem Art » di New York volle conservare esposta la vettura, ed onore più grande forse non era pensabile.
Accanto alla macchina c'è una scritta che mi piace riportare: « Cisitalia 1948 - La linea di questa vettura disegnata nel 1946 da Pininfarina ha recato un apporto decisivo all'impostazione di uno stile sostanzialmente innovatore nell'architettura dell'automobile. È una realizzazione che, meglio di qualsiasi altra, testimonia, riassume e documenta l'opera del grande carrozziere torinese scomparso nel 1966 ».
Un medaglione di bronzo ricorda l'ef-fige di Pininfarina e, per un attimo, mi par di rivederlo, come se fosse ieri, vi-gile e sereno, in piedi accanto alla mia scrivania, intento a sfogliare libri di politica internazionale, in quella sala del torinese Palazzo Bricherasio che, qual-che decennio innanzi, aveva visto la fon-dazione della più grande fabbrica ita-liana di automobili.
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L'avventura è datata 1907. Parliamone un momento, quasi a commemorazione, a settant'anni giusti di distanza. Quel mattino del 10 giugno, un piccolo corteo di macchine si era mosso dal cor-tile della Concessione francese di Pe-chino, meta Parigi. C'erano due De Dion & Bouton francesi, una Spyker olandese, una curiosa sei cavalli Contai, a tre ruote, ed infine una Itala con a bordo il principe Scipione Borghese, il suo autista e meccanico Ettore Guiz-zardi ed il giornalista Luigi Barzini. Per circa tre quarti del percorso di 16 mila chilometri quelle macchine non avrebbero trovato strade, ma soltanto carovaniere, piste nei deserti e nelle fo-reste, paurosi valichi montani, ponti im-praticabili e guadi perigliosi.
Le notizie del procedere della corsa (patrocinata, senza premi, dal giorna-le francese Le Matin per dirimere, una volta per tutte, la questione se l'auto
A destra:
L'auto Itala della corsa Pechino-Parigi.
S o t t o :
La tavola di Achille Beltrame relativa alla Pechino-Parigi.