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Considerazioni su sostenibilità, sussidiarietà e deregulation

2. La politica ambientale europea, la strategia di Lisbona e il clima: evoluzione del climate project

2.4. Considerazioni su sostenibilità, sussidiarietà e deregulation

Secondo molti osservatori, Il ripiegamento della politica ambientale europea avvenuto negli anni ’90 rappresenta un momento cruciale per comprendere gran parte degli sviluppi successivi della politica ambientale europea e per inquadrare le scelte di oggi. Si tratta di una trasformazione che risponde a logiche politiche ed esigenze economiche generali e riscontrabili a scala mondiale, poiché riflette le pressioni indotte dalla globalizzazione e le scelte neoliberiste dei governi europei.

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La ricerca per la quale è citato Rayner è stata in realtà svolta nell’ambito della ricerca ADAM - acronimo di Adaptation and Mitigation Strategies supporting European Climate – un progetto finanziato nell’ambito del sesto programma quadro per la ricerca (FP6) tra il 2006 e il 2009, che ha visto la partecipazione di 26 istituti di ricerca in tutta Europa. Obiettivo della ricerca era sostenere lo sviluppo di politiche climatiche globali post-2012, la definizione delle politiche di mitigazione per il raggiungimento degli obiettivi al 2020 e appunto l’affermazione le politiche emergenti per l’adattamento con particolare attenzione ai rischi connessi agli eventi meteorologici estremi. (http://www.adamproject.eu/)

Utile appare la ricostruzione che fa Ute Collier nel 1997 (Collier, 1997), quando evidenzia le relazioni tra il concetto ambientale della sostenibilità, il principio politico della sussidiarietà e le istanze economiche della deregolamentazione.

Il concetto di sostenibilità si considera convenzionalmente entrato nel dibattito su ambiente e sviluppo a partire dal rapporto Bruntland nel 1987 (WCED, 1987, cit.) e pur essendo sin troppo vago per risultare concretamente utile, ha mostrato una fortuna retorica straordinaria, presto fatto proprio dall’Europa è presente sia nel trattato di Maastricht, che nel V PAA, che in moltissimi documenti programmatici successivi fino ad oggi. Nonostante innumerevoli manipolazioni del concetto, a partire dall’Earth Summit di Rio del 1992 e dall’Agenda 21 (UN, 1993), tutte le interpretazioni della sostenibilità ruotano intorno a 3 principi di base: l’integrazione di obiettivi economici, sociali e ambientali; il coinvolgimento nei processi decisionali di tutti gli attori rilevanti, in particolare i cittadini e la società civile, ovvero la partecipazione; la necessità di internalizzare i costi ambientali, per risolvere i fallimenti di mercato per effetto dei quali chi ottiene i benefici derivanti dal consumo delle risorse non coincide con chi sostiene i costi, o subisce i danni, degli impatti ambientali che ne derivano.

Pur essendo presente nel trattato istitutivo della Comunità Europea, il principio di sussidiarietà, ha cominciato ad essere richiamato in maniera esplicita dopo il 1992, quando fu inserito nel Trattato di Maastricht, esso si basa sull’identificazione del livello decisionale adeguato per l’attivazione di qualsiasi politica, e richiede che questo sia sempre quello più prossimo al cittadino. Come concetto politico, la sussidiarietà da una parte indica un assetto distributivo del potere che è senza dubbio funzionale a difendere l’autorità dei governi nazionali democraticamente eletti rispetto a quella convenzionalmente accettata delle istituzioni europee, dall’altra suggerisce il rafforzamento dei poteri locali, ma può anche essere interpretato come legittimazione dell’intervento diretto dell’UE in determinate circostanze. In tutti i casi la sussidiarietà mostra congruenza con i principi della sostenibilità, sia con le istanze partecipative dell’Agenda 21, sia con la prospettiva degli importanti accordi ambientali internazionali, attesi dopo la conferenza di Rio.

Il dibattito sulla deregulation, si sviluppa contemporaneamente al tema della sussidiarietà e trova origine nel timore che l’intervento dei singoli stati potesse alterare i meccanismi di concorrenza e influenzare in maniera differenziata la competitività delle imprese una volta raggiunto il mercato unico, la cui costruzione era, dopotutto, l’obiettivo originario dell’Unione. Secondo le dottrine di mercato, è infatti necessario limitare al massimo l’intervento statale affinché il mercato possa autoregolarsi. Il processo di deregulation si è, quindi, sviluppato in direzione di una semplificazione legislativa, con la rinuncia a determinati disegni di legge, e verso forme di ri-regolamentazione attraverso strumenti diversi giudicati più efficienti ed efficaci50 in particolare gli strumenti di mercato. Tra gli esiti della deregulation l’avvio di un vasto processo di liberalizzazione, che ha interessato in modo significativo il settore dei servizi pubblici locali (public utilities). Nonostante le ricadute ambientali di molte liberalizzazioni si siano dimostrate gravi nel lungo termine soprattutto in termini di opzioni di intervento, l’approccio di mercato offre nuove opportunità anche alle politiche ambientali, suggerendo strumenti alternativi in risposta al deficit di attuazione di quelli legislativi incapaci di assicurare meccanismi efficaci di controllo e sanzione: da rigidi regolamenti e standard quantitativi, a strumenti prestazionali meno vincolanti e più flessibili nelle modalità di implementazione. L’approccio “command and control”, settoriale e gerarchico poteva essere abbandonato in favore di un approccio orizzontale e cooperativo capace di produrre l’integrazione anche grazie al coinvolgimento di attori non statali e non pubblici, attraverso meccanismi di comunicazione e concorrenza. È proprio in

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Cfr.Rapporto Molitor del 1995, European Commission (1995b) Report of the Group of Independent Experts on Legislative and Administrative Simplification, COM (95) 288 final.

questo contesto che nascono e si affermano le reti transnazionali e i partenariati pubblico-privati (cfr. par. 3.1-3.2).

Secondo Collier (Collier, 1997 cit.), la cui trattazione continua oggi ad essere ripresa da vari studiosi di politica ambientale e climatica, la compatibilità, anzi in certi casi la parziale sovrapponibilità di principi tra sostenibilità, sussidiarietà e deregolamentazione, avrebbe potuto contribuire al rafforzamento della politica ambientale in Europa, tuttavia, calati nella realtà dei fatti economici e politici, la sussidiarietà e la deregolamentazione si erano rivelate - già nel 1997 - armi a doppio taglio. Il principio di sussidiarietà è stato sfruttato prevalentemente in difesa della sovranità nazionale, senza produrre l’auspicato rafforzamento dell’autorità politica e delle risorse finanziarie a disposizione dei governi locali, effettivamente dotati di competenze in molti settori chiave della politica ambientale e della possibilità di coinvolgere attivamente i cittadini. In particolare la combinazione con le istanze della deregulation, ha condotto al downgrading delle norme ambientali e alla ri-nazionalizzazione di alcune tematiche, circostanze che hanno concorso ad accentuare quelle disparità tra le politiche (e le performance) ambientali degli stati membri, che proprio sulla spinta degli adempimenti normativi europei, avevano cominciato un percorso di armonizzazione. Sempre secondo Collier, l’approccio di mercato, una volta abbandonata l’idea di una riforma europea della fiscalità ambientale51 ha prodotto soprattutto strumenti di autoregolamentazione di dubbia efficacia. La riflessione di Collier aiuta a mettere in luce le origini di tendenze oggi ancora evidenti anche nel merito della politica climatica, tuttavia dopo quindici anni è necessario evidenziare come alcuni sviluppi in parte confermino, in parte, forse, ridimensionino le sue conclusioni.

Pure rimanendo sostenibilità una parola ampiamente ricorrente, oggi compete senz’altro con il lessico dei cambiamenti climatici,quanto a concetti “jolly” usati ed abusati dal linguaggio comune alla retorica dei documenti europei e delle dichiarazioni internazionali.

I legami e tra la lotta ai cambiamenti climatici e lo sviluppo sostenibile vengono spesso enfatizzati, le sinergie sottolineate in particolare con riferimento alla dimensione urbana delle politiche, i possibili trade- off sociali connessi alle politiche di mitigazione sempre taciuti.

Da una parte, pertanto il tema delle politiche climatiche locali è intrinsecamente contenuto dentro il concetto di sostenibilità urbana, dall’altra però appare come una sua declinazione parziale in funzione di parole d’ordine semplicemente più attuali. Da una parte la lotta al riscaldamento globale si configura quindi come una occasione per confermare le ragioni dello sviluppo sostenibile (in chiave meno generalista e più “misurabile”) attuando gli approcci olistici, integrati e cooperativi, basati sull’idea di fondo della compatibilità tra crescita economica e salvaguardia dell’ambiente che erano già dell’Agenda 21, dall’altra rischia di essere una semplificazione del problema, una “operativizzazione” del concetto nei termini delle politiche energetiche.

In relazione al principio di sussidiarietà è innanzitutto necessario sottolineare che la reazione alla sovrapposizione degli ambiti di competenza in materia ambientale tra governi nazionali e istituzioni comunitarie ha agito ed è stata percepita in maniera diversa tra gli stati membri. Le normative comunitarie hanno infatti agito da stimolo per alcuni paesi, la cui politica ambientale è stata, e continua ad essere,

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La proposta di riforma fiscale-ambientale di Jacques Delors nel 1993 era basata sull’ipotesi del doppio dividendo in base alla quale un aumento della tassazione ambientale ed un alleggerimento del carico fiscale sul lavoro avrebbe prodotto risultati in termini di riduzione dell’inquinamento e di aumento dell’occupazione (Libro bianco su Crescita, competitività, occupazione, COM(93) 700). La proposta, inizialmente accolta con entusiasmo, ha incontrato nella seconda metà degli anni ‘90 crescenti resistenze, alcuni stati membri hanno tuttavia introdotto unilateralmente tasse ambientali, contribuendo a tenere in piedi il dibattito in merito all’armonizzazione del sistema fiscale. Un progetto di riforma a scala europea in questo senso sembra aver trovato in tempi recenti nuovi stimoli.

strettamente dipendente da quella europea con frequenti polemiche sui costi economici delle misure proposte. Viceversa altri stati, come l’Olanda e i Paesi Scandinavi, hanno storicamente impresso la propria tradizione, sebbene talvolta le loro istanze siano risultate frustrate dalla negoziazione di target poco ambiziosi. Questo meccanismo di avanguardie e ritardatari (“pioneers and laggards”) si è consolidato con la definitiva accettazione di un’Europa a più velocità dopo l’allargamento a Est, ha trovato nuove conferma nell’ambito delle politiche climatiche con aspre contese sulla definizione degli obiettivi vincolanti: paesi come l’Italia si sono duramente opposti inizialmente al pacchetto 20-20 giudicandolo troppo dannoso per la competitività delle proprie imprese. D’altra parte la partecipazione all’EU Bubble dei paesi dell’ex blocco sovietico ma è risultato funzionale al risultato dal momento che ha indubbiamente contribuito sotto il profilo quantitativo al raggiungimento degli obiettivi di Kyoto52.

In secondo luogo, la geografia dei rapporti tra enti sub-nazionali e istituzioni europee – in particolare la CE- è forse l’aspetto che si è maggiormente evoluto negli anni: meccanismi di europeizzazione diversi hanno contribuito alla progressiva stratificazione del modello di governance (cfr. par. 2.1) verso un sistema multilivello. Accanto ai meccanismi gerarchici tradizionali sulla base dei quali gli enti locali e regionali recepiscono le disposizioni EU attraverso gli atti di recepimento degli stati nazionali, si sono andati così sviluppando meccanismi orizzontali incentivati attraverso programmi specifici basati sulla cooperazione territoriale e meccanismi cooperativi attraverso i quali le conoscenze in possesso delle istituzioni locali possono contribuire allo sviluppo delle proposte normative, come auspicato dalla CE nel Libro Bianco della Governance 2001 (COM(2001) 428 def). Nell’ambito di questo meccanismo - e con propositi di lobbying - rientra la presenza sempre più frequente delle sedi distaccate dei governi regionali e locali a Bruxelles (Kern, 2010 cit.).

In forza di rapporti diretti tra amministrazioni sub-nazionali e organi dell’UE oggi è meno facile usare il principio di sussidiarietà in difesa della sovranità nazionale. Tuttavia continua a trattarsi di una sussidiarietà incompleta: in molti paesi, tra cui l’Italia, le strutture amministrative fanno fatica ad adeguarsi alla governance multilivello e conservano una configurazione sostanzialmente rigida e top-down, pertanto al trasferimento di competenze e responsabilità non corrisponde un trasferimento effettivo di poteri, né la giusta autonomia decisionale e finanziaria.

A proposito di deregulation, negli ultimi 15 anni il ricorso agli strumenti di mercato e di dispositivi volontari è cresciuto enormemente in campo ambientale e si è rapidamente trasferito anche nel campo della protezione del clima in forza di autocertificazioni, etichettature ecologiche, standard e accordi volontari evolutisi come strumenti di marketing.

Parlare di politiche per il clima oggi sembra infatti richiedere l’applicazione quasi esclusiva di strumenti “market based/oriented” a partire dall’emission trading ed i progetti generatori di crediti di previsti dai meccanismi flessibili del Protocollo di Kyoto (CDM, JI), al mercato volontario delle compensazioni (offset), come ha testimoniato per qualche anno la vertiginosa espansione del settore finanziario in questo campo. Oggi in realtà, con la crisi economica il valore di mercato dei crediti di carbonio e dei permessi di emissione si è ridotto enormemente e molte piattaforme di scambio attive nell’ambito dei mercati volontari hanno chiuso i battenti, ne è un esempio il Chicago Climate Exchange (cfr. par. 3.2).

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I target di riduzione per le economie in transizione sono praticamente fittizi, ma funzionali ad ottenerne l’adesione. Considerando il tracollo della produzione seguito alla dissoluzione del blocco sovietico per i paesi ex- socialisti non si tratta di un grande sforzo: nel 2008 le emissioni della Repubblica Ceca si erano ridotte del 23,7%, quelle della Lettonia del 56,1%. In generale anche la scelta del 1990 come anno di baseline “fa comodo” a molti paesi dell’UE, in particolare alla Germania, che beneficia della riunificazione, alla Gran Bretagna, che proprio a partire dai ‘90, aveva avviato un massiccio programma di riconversione delle centrali elettriche dal carbone al petrolio estratto nel Mare del Nord. Mentre non è affatto apprezzata dagli Stati Uniti per i quali gli anni ’80 sono stati economicamente più favorevoli e più intensi dal punto di vista delle emissioni.

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CITTÀ COME ATTORI IN UN SISTEMA DI GOVERNANCE