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L’avvento della società di massa

IV. 4 Il controllo politico dei mass media

Parallelamente alla diffusione dei beni di consumo di massa, la società italiana degli anni sessanta conosce anche un boom dell’industria culturale. La popolazione, ormai più colta rispetto agli anni precedenti, legge giornali, riviste, libri di vario genere e fumetti. Una porzione del tempo libero è dedicata al cinema, che mai come in quest’epoca è una forma di intrattenimento assai popolare. Parallelamente, rivestono un ruolo centrale nella vita di ogni italiano i mezzi di comunicazione di massa, dapprima la radio, poi, dal 1954, la televisione. Gli apparecchi televisivi riscuotono da subito grande popolarità, ma nella prima metà degli anni cinquanta sono in pochi gli Italiani che possono permetterseli. Il piccolo schermo entra nella maggioranza delle case solo negli anni sessanta, travolgendo coi propri contenuti l’immaginario collettivo del Paese. La Democrazia Cristiana, con grande lungimiranza e forte della propria posizione di partito di governo, estende da subito la sua influenza prima sulla radio, poi, sulla tv. Diversamente, il Partito Comunista guarda con diffidenza a questi mezzi, in particolare alla televisione, arroccato com’è su una posizione critica verso tutti i simboli della società di massa.

La DC nel dopoguerra, oltre che sulla radio e sulla televisione, può contare sua una diffusa rete di quotidiani e riviste di sua diretta espressione o appartenenti ad aree ad essa vicine. Si tratta di un panorama editoriale molto frammentato, ma decisamente ampio se confrontato con quello a disposizione del Partito Comunista. Il quotidiano ufficiale della Democrazia Cristiana è «Il Popolo», fondato nel 1942 sulle ceneri dell’organo del Partito Popolare. Il giornale, che si fa portavoce degli orientamenti della direzione e delle varie correnti del partito, mantiene negli anni tirature molto discrete, non riuscendo a rappresentare uno strumento di efficace presa nemmeno sugli iscritti democristiani. Accanto a «Il Popolo», dal dopoguerra la DC può contare su altre tre testate di partito, di tirature ancora inferiori. Si tratta de «Il Corriere del Giorno» di Taranto, de «Il Giornale del Mattino» di Firenze e de «La Voce Adriatica» di Ancona. A questi quotidiani se ne aggiungono, fino ai primi anni sessanta, decine di altri, distribuiti in tutta la penisola, che, pur non di proprietà diretta della DC, sono da essa controllati o ne sono fiancheggiatori. Tra questi si annoverano i fogli diocesani, tra cui il principale è l’organo ufficiale dell’Azione Cattolica, «Il Quotidiano». Ancora, la DC può contare su quei giornali che sono espressione di enti statali che sostengono la sua politica, come «Il Giorno» di proprietà dell’Eni, o «Il Mattino», «Il Corriere di Napoli» e la «Gazzetta del Mezzogiorno» di proprietà del Banco Napoli. Nel campo dei periodici si ricollegano alla DC quelli cattolici, diffusissimi nel Paese, con tirature molto superiori alle omologhe pubblicazioni comuniste. Primo fra tutti è «Famiglia Cristiana», ma si ricordano anche «Crociata» e «La Domenica Illustrata». Fanno parte di questo ampio insieme, poi, le pubblicazioni per i bambini e ragazzi, come il «Giornalino» e il «Vittorioso»46. Accanto a queste ci sono alcune iniziative editoriali legate all’Ufficio

45

Ivi, pp. 232-233.

46

Attività Culturali della DC, che si rivolgono prevalentemente ad intellettuali, ma che riscuotono limitato successo e sono di breve durata. Inoltre, si contano in tutt’Italia decine di riviste sorte per iniziativa di diversi gruppi democristiani. Infine, la DC ha una propria casa editrice, la «Cinque Lune», fondata nel 1954, un anno dopo la nascita degli

«Editori Riuniti»47. Nella prima metà degli anni sessanta è stato stimato che attraverso

la carta stampata la DC riesca ad avere in termini percentuali una presenza doppia di quella comunista nell’opinione pubblica. Tuttavia, tale presenza paradossalmente è meno efficace di quella del PCI, poiché frammentata nei messaggi trasmessi. Infatti,

«Sulla stampa democristiana si ripercuote […] quel frammentarismo e quell’antagonismo tra i vari gruppi e le varie tendenze tipiche del mondo cattolico e democristiano. […] spesso il partito ha trovato così il necessario appoggio nel campo della pubblicistica quotidiana, più che nei suoi quotidiani e nei giornali di fiancheggiamento, nel moderatismo dei grandi organi d’opinione indipendenti, che detengono in Italia un indiscusso predominio.»48

Se la capacità di controllare il settore della carta stampata è relativa, la DC riesce ad estendere bene la propria influenza sulla radio e sulla televisione. D’altro canto, la necessità di servirsi dei mezzi di comunicazione di massa per trasmettere il proprio messaggio al mondo moderno è avvertita fortemente anche dalla Chiesa sotto il pontificato di Pio XII. Il Papa, nell’ambito della più generale riconciliazione tra la Santa Sede e il mondo moderno, rivolge la sua attenzione ai progressi della tecnica e, fra questi, ai mezzi di comunicazione di massa. L’obiettivo è epurarli della loro carica potenzialmente negativa, mettendoli al servizio dell’apostolato cattolico. In tal modo, la Chiesa punta a rinforzare la propria egemonia sulla società, messa in discussione dalla crescente secolarizzazione. Nel 1947 padre Lombardi su «Civiltà Cattolica» indica il percorso da seguire per realizzare questo obiettivo. Esso prevede, assieme alla conquista della scuola e dell’università, il controllo dei mass media, ovvero del cinema, che, come si vedrà, sarà potente e ramificato, della radio e della televisione49.

Prolungando il monopolio esistente sin dagli anni del fascismo, la DC estende la propria influenza sulla radio sin dalla fine della guerra: il mezzo è inteso come funzionale all’educazione delle grandi masse. La radio italiana all’ombra della DC riflette una cultura tradizionale e non fa concessioni alla modernità, né all’americanismo, che pure si stava diffondendo pian piano nel Paese. Essa propone contenuti ispirati ad un filone nazional-popolare, che cioè coniuga il legame con l’identità nazionale al gusto popolare. Nasce da queste premesse la preferenza, sul fronte dell’intrattenimento, per programmi incentrati sulla musica leggera, su giochi a premio, o sullo sport (in particolare calcio e ciclismo). Questi stessi orientamenti sono applicati ai contenuti della televisione dai dirigenti democristiani della Rai Tv. Appena nasce la televisione, il partito di governo posiziona al suo interno, in ruoli chiave, i propri uomini, tenuti a vigilare sulle diffusioni. Il controllo ha un significato sia politico che morale: oltre a fare del mezzo un veicolo delle idee del potere dominante, si vuole evitare, sulla base delle direttive provenienti dalla Chiesa, che il piccolo schermo diffonda modelli di costume ritenuti immorali. Anche la tv, come la radio, assume così un carattere ingessato e tradizionale: le censure non si contano, appuntandosi persino su frasi ritenute minimamente ambigue. Bandito è il dibattito politico, la visone del mondo proposta è univoca, in assenza di punti di vista alternativi. Esclusi sono anche argomenti 47 Ivi, pp. 650-651. 48 Ivi, p. 666. 49

considerati difficili, lo sperimentalismo ed ogni eco della modernità, che pure bussava alla porta della società italiana. Si censurano tematiche ritenute tabù per la morale dell’epoca e si dosa con rigore l’esibizione del corpo femminile. La Rai Tv, sulla base dello slogan comune alla gran parte delle televisioni di Stato europee, che recita «informare, educare e divertire», assume da subito quella fisionomia rassicurante e

tradizionale che le fa guadagnare l’eloquente appellativo di «mamma Rai»50.

Di là dai meriti, tra cui figura la capacità di unire, sul piano linguistico e culturale, un Paese diviso in due, la televisione ha favorito la diffusione di una cultura livellata verso il basso, per la sua necessità di parlare alle masse e, quindi, ad un pubblico variegato, composto, ai due estremi, da letterati e analfabeti. Sono i limiti della massificazione, che proprio attraverso la tv si manifestano con maggiore evidenza. Essi rappresentano uno dei punti su cui s’incardina la critica comunista verso il piccolo schermo. Inoltre, in questi anni il PCI contesta l’influenza dei modelli americani o la diffusione di valori ritenuti negativi, che passano attraverso alcuni programmi televisivi, come ad esempio i quiz di grande successo. Si pensi al celebre Lascia o raddoppia?, che assicurava ricchi guadagni a pochi fortunati, a fronte di una popolazione nazionale contrassegnata, nella maggioranza dei casi, da bassi redditi. Il Partito Comunista, preoccupato dalle influenze negative della tv, addirittura ne impedisce l’acquisto per le sezioni e le Case del Popolo. Ma, nonostante le prescrizioni, il piccolo schermo conquista anche gli entusiasmi dei militanti e pian piano entra nelle sedi della politica comunista. Un’ulteriore prova delle difficoltà del PCI di arginare le influenze della società di massa, nonostante le proprie

riserve ideologiche51. L’ostracismo verso la tv è ovviamente favorito dall’impossibilità

per i comunisti di accedervi. Monopolizzato dai democristiani e dai cattolici, il piccolo schermo rappresenta la voce del solo partito di governo, né vi è la possibilità per il Parlamento di svolgere un controllo democratico su di esso. Un’inversione di tendenza parziale si verifica nel 1960, quando, in occasione delle elezioni amministrative, nascono le prime tribune elettorali, che offrono visibilità ai vari esponenti dei diversi partiti politici italiani. È così che in tv arrivano i primi comunisti. Togliatti vi compare per la prima volta solo nel 1963. Gli spazi per il PCI sono limitati, tuttavia, è stato notato, i caratteri della propaganda di partito, centralizzata e al tempo stesso ramificata, permettono di amplificare la portata di queste seppur brevi apparizioni. Grazie ad una ripetizione del discorso pronunciato in tv dal leader di partito attraverso i diversi mezzi di comunicazione di cui il PCI dispone, la stampa in primo luogo, il messaggio è potenziato e la sua eco moltiplicata52.

Tornando ai limiti della massificazione, il PCI vi farà spesso riferimento, sebbene nei primi anni sessanta si registri qualche inversione di tendenza nel dibattito interno al partito. La prospettiva dell’inevitabile crollo del capitalismo inizia ad essere

50

Cfr. Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Un secolo di costume, società e politica, Venezia, Marsilio, 2001.

51

S. Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca, op. cit., pp. 217-219.

52

A. Manoukian, La presenza sociale del PCI e della DC, op. cit., pp. 672-673. Più in generale, secondo lo studioso, la propaganda comunista, pur disponendo di un numero di canali in termini percentuali inferiore rispetto a quelli a disposizione della DC, riesce ad essere più efficace della propaganda democristiana grazie al suo carattere univoco. Nei primi anni sessanta, come visto, i quotidiani e le riviste legate al mondo cattolico sono di gran lunga superiori rispetto agli omologhi comunisti. Tuttavia, se il PCI riesce ad avere un controllo effettivo sulla sua stampa e, attraverso essa, sui lettori, lo stesso non accade per la DC. La versione degli accadimenti ed il relativo commento sono, infatti, forniti in maniera univoca sulla stampa comunista, grazie all’esistenza di una propaganda centralizzata e controllata rigidamente dall’alto. Lo stesso non si verifica sulla stampa democristiana e cattolica, dove le versioni ed i commenti trasmessi ai lettori sono diversi. Ne deriva che il messaggio comunista è più forte ed efficace, perché ripetuto, immutato, simultaneamente attraverso più mezzi. Diversamente, invece, da quello democristiano, sebbene possa contare su più canali di trasmissione. Ibidem.

ridimensionata, nell’ambito di una generale accettazione del modello capitalistico. Da una parte, si riconosce lo sviluppo in atto; dall’altra, però, si continua a metterne in luce le criticità, ovvero i contrasti esistenti nel Paese. Anche sulla base delle teorie della scuola di Francoforte, poi, continua ad essere messo sotto accusa il condizionamento della società operato dalla pubblicità e dai mass media, che inducono bisogni e spingono ai consumi, unicamente per soddisfare interessi economici dei grandi monopoli53. Parallelamente, tuttavia, il PCI inizia a riconoscere il ruolo centrale dei mezzi di comunicazione di massa e della tv in particolare, come si evince dalla risoluzione comune adottata, nel 1961, dalle Commissioni culturale e di stampa e propaganda. Nel documento, infatti, si sottolinea la necessità di non sottovalutarne l’importanza e si riflette sul concetto, raramente considerato prima, di «industria culturale». La valutazione su quest’ultima è ovviamente critica, giacché è vista come il mezzo attraverso il quale le classi dominanti influiscono sul processo di formazione culturale «per distorcerlo e deviarlo, cercando di orientare e subordinare le nuove

esigenze e i nuovi bisogni delle masse ai loro interessi economici e ideologici»54. Da qui

la necessità per il PCI di intervenire, per arginare tali processi di condizionamento della società attraverso la propria battaglia ideale. Nel PCI, così come nei movimenti che negli anni sessanta si collocano alla sinistra del partito, la visione critica della società di massa rappresenterà una costante, che anzi si radicalizza negli anni della contestazione sessantottina55. Eppure, nonostante il suo atteggiamento nei confronti della società di massa e l’apparente soccombere ad essa, secondo Manoukian, il PCI in quella fase sarebbe stato in grado più della DC di gestire il ciclone del cambiamento, rappresentato in particolare dall’influenza dei mass media. Esso, infatti, nei primi anni sessanta riesce a difendere la propria subcultura politica di fronte alla cultura di massa più di quanto facciano i cattolici. Secondo lo studioso, ciò dipende dal fatto che la cultura di massa è di fondo «laico-borghese» e, perciò, di fatto estranea alla cultura cattolica, che ha un carattere spirituale e trascendente. L’ideologia comunista, invece, è legata alla dimensione terrena, da cui essa stessa discende. «Il PCI, dunque, si adatta alla cultura di massa, pur politicamente “neutra” ma legata al sistema e che sarebbe, dal punto di vista marxista, da combattere, meglio di quanto vi si adatti il mondo cattolico»56. Anzi, evolvendosi per adeguarsi alla società di massa, il PCI avrebbe potuto

«conciliare questa evoluzione col mantenimento di caratteristiche tipiche della sotto-cultura che rappresenta (la difesa dei poveri, l’elevazione del lavoratori, le istanze egualitarie rivendicate nei confronti dei privilegiati) in misura presumibilmente maggiore di un partito che fa riferimento a valori religiosi, trascendenti, trasmessi dal magistero della Chiesa e dalla sua infallibile autorità: valori, appunto, che la cultura di massa trascura e non sente come propri, anche quando vi presta formale o addirittura

53

D. Consiglio, Il Pci e la costruzione di una cultura di massa, op. cit., pp. 79-80.

54

Risoluzione delle Commissioni Cultura e Stampa e Propaganda del PCI. Per un’azione culturale di massa. Per una

più intensa propaganda ideale, cit. in ivi, p. 85.

55

Nel 1968, ad esempio, Pio Baldelli, teorico della comunicazione e ideatore del concetto di «controinformazione», definisce i mass media e le attività del tempo libero legate alla società di massa come pericolosi mezzi al servizio della classe dominante, il cui principale obiettivo è distogliere l’attenzione della società dai problemi del mondo e spegnerne così ogni anelito alla lotta. Baldelli chiarisce come essi siano da non sottovalutare, in quanto parte di un più ampio disegno orchestrato dalla classe al potere. «Comfort e industria della cultura di massa non si limitano a funzioni sovrastrutturali, sono ormai struttura, braccia e parti decisive del sistema di produzione (e di sopraffazione di classe): e come tali vanno affrontate, e non come ornamenti da dopolavoro o settori staccati da coltivare in privato. […] Larga parte delle ideologie del neocapitalismo vengono inculcate attraverso i mezzi di comunicazione di massa. In sostanza tale processo tende a creare un consenso generale attorno al sistema». Pio Baldelli, Politica culturale e

comunicazioni di massa, Pisa, Nistri-Lischi, 1968, pp. 74-80.

56

ostentato ossequio»57.

Di là dalle potenzialità, nei fatti, l’adesione al cambiamento da parte dei comunisti è lenta. La consapevolezza acquisita del ruolo dei mass media e dell’industria culturale è prova della volontà del PCI, di là dalle sue pregiudiziali ideologiche, di entrare in contatto con la nuova realtà, rispetto ad un iniziale atteggiamento di sottovalutazione delle potenzialità dei mezzi di comunicazione di massa in termini ideologici e culturali. Ma tra il partito e il panorama della cultura di massa lo scarto resterà sempre evidente.