Identità e cultura del Partito Comunista Italiano e della Democrazia Cristiana
III.1 Il PCI da «partito d’avanguardia rivoluzionaria» a «partito nuovo»
Quando la seconda guerra mondiale sta per terminare e gli scenari futuri per l’Italia sono ormai delineati, il Partito Comunista Italiano, grazie alla lucidità del suo segretario, Palmiro Togliatti, intraprende la fase di evoluzione che lo porterà a trasformarsi da partito di avanguardia rivoluzionaria a partito di massa, tra i protagonisti indiscussi della vita politica italiana del dopoguerra. La trasformazione è finalizzata ad ottenere agli occhi della nazione una nuova credibilità: il PCI vuole dare di sé l’immagine di un partito che contribuisce alla difficile rinascita della democrazia e all’impianto di un nuovo Stato pacificato, dopo gli anni della dittatura e quelli della guerra. Il partito rivoluzionario, così vicino a Mosca e nato dalla scissione dal PSI durante il Congresso di Livorno del 1921, sotterra le armi e allontana il sogno a lungo coltivato della rivoluzione, o almeno lo procrastina nel tempo, per incamminarsi sulla strada della democrazia. La fase di rinnovamento si rispecchia sin dal nuovo nome assunto nel 1944 dal partito, in precedenza denominato Partito Comunista d’Italia (PCDI). Artefice della rinnovata strategia è il segretario Palmiro Togliatti, che proprio in quell’anno torna da Mosca, dov’era stato in esilio a causa della dittatura fascista. Le sue manovre non sono sconosciute al Cremlino, che sin dalla sua nascita ha svolto un ruolo chiave di controllo e orientamento delle sorti del Partito Comunista Italiano. Da Mosca Togliatti ottiene il via libera a mettere in pratica le sue intenzioni. Il leader comunista comprende come gli esiti della guerra, ormai nella fase conclusiva, abbiano iscritto l’Italia nella sfera d’influenza americana, in un mondo che si avvia sin da quel momento a dividersi nei due grandi blocchi della guerra fredda. L’unica possibilità per garantire vita facile al PCI ed, anzi, accrescerne la forza, è trasformarlo dal partito rivoluzionario, che fino a quel momento aveva agito nella clandestinità, a grande partito di massa, in grado cioè di mettersi alla guida della classe operaia e di incarnarne gli interessi nel nuovo Stato democratico. Negli anni della dittatura fascista il PCDI era stato un partito d’avanguardia rivoluzionaria, il cui obiettivo non era «l’integrazione di grandi masse, ma la selezione di un ceto politico che si pone come avanguardia, appunto, del
movimento proletario per guidarlo alla rivoluzione»1. Tale modello, che si traduceva sul
piano pratico in un’organizzazione capillare e affidata a pochi militanti di fiducia (sull’esempio del partito bolscevico di stampo leninista), si era mostrato utile negli anni del fascismo, quando i partiti erano stati messi fuori legge e la lotta politica andava condotta, per forza di cose, nella clandestinità. Nei mutati scenari del dopoguerra, invece, il PCI esce allo scoperto, mette da parte i piani sovversivi e la lotta armata, e si presenta al Paese forte non solo del fatto di essere sopravvissuto alla clandestinità subita, ma anche del ruolo di primo piano occupato nella guerra di Resistenza. Il PCI di Togliatti, sin dalla svolta di Salerno del 1944, manifesta la volontà di dialogare e
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collaborare con le altre forze antifasciste, per costruire assieme lo scheletro della democrazia.
La nuova fisionomia del PCI, delineata da Togliatti, è sintetizzata nella formula di
«partito nuovo»2. Il partito così definito non è costituito da un’élite d’avanguardia, ma
mira a coinvolgere le masse, destinate a ricoprire un ruolo fondamentale nell’Italia democratica; non guarda più alla rivoluzione, ma sostituisce ad essa un modello di «democrazia progressiva» più facilmente raggiungibile in un Paese pronto ad adeguarsi al sistema capitalistico sotto l’influenza degli Stati Uniti. In tal senso, lungi da limitarsi, come era avvenuto per il passato, a svolgere un’azione appiattita sulla propaganda e sulla critica, il nuovo Partito Comunista s’impegna a dare un contributo costruttivo l’Italia ed alla sua rifondazione dopo la dittatura3. Il modello del PCI diventa, perciò, quello di un «partito di integrazione di massa», che riesce cioè, anche attraverso il ricorso a molte strutture collaterali, a radicarsi nella società. Tale processo avviene grazie ad un organigramma partitico rigido e centralizzato, a struttura piramidale, in grado di inquadrare e controllare dall’alto la base. Al vertice c’è ovviamente il segretario, che tra l’altro ha una nomina a vita, seguito dal gruppo dei dirigenti e dai quadri intermedi, quelli che si relazionano direttamente con la base. Lo schema era stato ideato già da Gramsci. Il verticismo si riflette anche nei processi decisionali, ai quali i militanti di base non possono dare un contributo diretto e reale, dovendosi limitare a rispettare le disposizioni provenienti dall’alto. Infatti, il principio prevalente, definito «centralismo democratico», prevede che le decisioni assunte dalla maggioranza diventino obbligatorie per tutti e che non siano ammesse posizioni di dissidenza, rischiose per la compattezza del partito. Questo meccanismo impedisce ai militanti di base - chiamati in ogni caso al dibattito e al confronto - di influire realmente sulle decisioni del partito, che di fatto sono assunte nei livelli più alti dell’organigramma. L’ortodossia e il monolitismo rappresentano perciò due importanti parole d’ordine per il PCI, che lega a sé i suoi iscritti con un rapporto di tipo fideistico e totalizzante. Un rapporto che, oltre il campo dell’ideologia, invade anche la vita privata dell’individuo, tenuto al severo rispetto di regole ben precise, oltre che alla fede indiscussa nella dottrina politica, pena l’esclusione dal partito. È alla luce di queste considerazioni che il PCI è stato collocato nella categoria di «partito d’integrazione totalitaria», o almeno
«totalizzante»4, volendo utilizzare un aggettivo che non abbia connotazioni negative. Un
partito, cioè, che segue il militante dalla nascita alla morte, attraverso specifiche organizzazioni collaterali, deputate a formarlo e tutelarlo. Ma non solo. Il legame che unisce l’iscritto al partito è tanto forte che la separazione tra sfera privata ed impegno politico pubblico viene a cadere. La militanza permea ogni aspetto della vita dell’iscritto ed il rispetto della volontà del partito è più importante di qualsiasi posizione o velleità personale5.
L’ossequio alla dottrina e l’obbedienza cieca alle norme del PCI, secondo Angelo Ventrone, si spiegano con la consapevolezza da parte dei militanti comunisti che la
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Ivi, pp. 59-60.
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Angelo Ventrone, La cittadinanza repubblicana. Forma-partito e identità nazionale alle origini della democrazia
italiana (1943-1948), Bologna, il Mulino, 1996, pp. 30-31.
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Ivi, p. 34.
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Tra i doveri del militante, prescritti dallo statuto approvato durante il V Congresso (29 dicembre 1945-5 gennaio 1946), rientra, ad esempio, assieme alla partecipazione a tutte le attività del partito, il miglioramento della propria conoscenza della dottrina (sia la linea politica attuale che quella contenuta nei classici), unito al perfezionamento in campo lavorativo ed intellettuale. Si prescrive, poi, di mantenere con gli altri iscritti legami di solidarietà, di fare continuamente opera di proselitismo in favore del partito, ma anche di condurre una vita privata ispirata a criteri di moralità. Ivi, p. 37.
volontà generale del partito fosse più importante di quella individuale, laddove l’ascesa della classe operaia al potere non poteva che essere una conquista collettiva. Il partito, insomma, veniva prima di tutto, nonostante le difficoltà che potessero scaturire dal doversi adeguare ad una linea imposta dall’alto e talvolta subita, giacché solo attraverso di esso, e non singolarmente, poteva essere raggiunta la meta finale dell’emancipazione della classe operaia. Si tratta, allora, di una scelta motivata e perciò razionale da parte dell’iscritto, piuttosto che di un atteggiamento dettato dall’adesione fideistica alla dottrina politica. Questo tipo di militanza, d’altro canto, non riguarda solo il PCI, ma investe anche, in quello stesso periodo, il mondo cattolico ed il partito che ne è la massima espressione, la Democrazia Cristiana. Esso, infatti, si presenta organizzato in una rigida struttura verticistica, sulla quale esercitano controllo e condizionamento fortissimi le gerarchie ecclesiastiche. La presenza di tale modello di adesione politica trasversale ai partiti si può probabilmente spiegare col bisogno, fortemente sentito dalla società italiana nel dopoguerra, di individuare una fede ed un capo forti, in cui credere ed identificarsi. Sarà stato per il tradizionalismo della cultura italiana, per il recente ricordo del fascismo e del duce, o ancora per le conseguenze devastanti della guerra, oppure per la frammentazione che caratterizza la società del dopoguerra. Diverse le ragioni con cui si possono spiegare il bisogno di leader, visti come capi spirituali (il segretario di partito, ma anche il Papa, nel caso del mondo cattolico), e la sacralizzazione della politica, che caratterizzano il dopoguerra in Italia. Si comprende, inoltre, perché in quella fase i «partiti-Chiesa», come la DC e il PCI, siano riusciti a fare numerosi proseliti, diventando due grandissimi partiti di massa, fortemente radicati nella società. Di fronte alla crisi provocata dalla guerra, che aveva distrutto ogni certezza politica e minato l’identità nazionale, i due partiti raccolgono le speranze e le paure degli italiani riponendole in un progetto di rigenerazione della società, che s’identifica nella costruzione dello Stato socialista, nel caso dei comunisti, e in quella di un’universalità cattolica, nel caso dei democristiani. La meta da raggiungere e la fede nel credo politico riempiono il vuoto di riferimenti lasciato dalla guerra, dalla fine del regime e dalla successiva guerra civile6.
L’edificazione dello Stato socialista per il PCI, nel progetto politico di Togliatti dell’immediato dopoguerra, si realizza attraverso il perseguimento della democrazia progressiva, che si traduce nel mettere da parte la lotta armata come mezzo per affermare il potere del proletariato. Con la nuova linea assunta dal partito, che provoca non pochi malumori tra i più radicali, i militanti sono chiamati ad abbandonare il sogno rivoluzionario, che per anni, soprattutto durante la dittatura, avevano accarezzato sotto l’influenza del mito della rivoluzione russa del 1917. Togliatti, e assieme a lui il Cremlino, sanno bene che l’Italia non è un Paese pronto e in grado di emulare l’Ottobre russo. In Italia una rivoluzione non è possibile e l’unico modo per favorire la nascita del socialismo è garantire la crescita ed il rafforzamento del PCI all’interno del nuovo Stato democratico. Il PCI deve dapprima radicarsi nella società e nelle istituzioni, il Parlamento in primo luogo, e solo dopo, forte della posizione assunta, potrà garantire al proletariato la conquista dello Stato, destinato a trasformarsi in socialista7. Il primo passo da compiere nel 1944, pertanto, è sedere allo stesso tavolo di governo delle altre forze politiche, uniti dal terreno comune dell’antifascismo. Ma per farlo occorre mettere da parte i traguardi storici del comunismo, almeno per il momento. Il mito della rivoluzione, così, non scompare, ma si trasforma: da obiettivo a un passo dal
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Ivi, pp. 201-204.
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raggiungimento diventa la meta futura verso cui il partito s’incammina, attraverso un percorso per forza di cose più lungo. La rivoluzione resta un faro ideologico che ispira e orienta i militanti, che tiene viva la loro fede e il loro credo, rinvigorisce gli entusiasmi e l’impegno nella lotta. Quella appena descritta è l’unica strada da percorrere nel nuovo contesto italiano, pena l’emarginazione del partito, secondo Togliatti. È per questi motivi che uno dei temi ricorrenti nella retorica comunista è quello della nazione e della sua unità. Il PCI s’impone agli occhi dell’opinione pubblica come il garante di questi valori, trasmettendo di sé l’immagine di un partito che tutela le conquiste democratiche del Paese, di cui, libero da condizionamenti internazionali, fa gli esclusivi interessi. Questa duplice condotta del PCI, ribattezzata ben presto come «linea della doppiezza», che concilia tra loro, da una parte, la via pacifica al socialismo ed il rispetto delle istituzioni democratiche e, dall’altra, il sogno mai abbandonato di una rivoluzione finale, ha portato il partito in più occasioni ad essere etichettato come non leale8. Secondo Franco Andreucci, nonostante si disponga di un’ampia letteratura sul tema della doppiezza, oggi si è ben lontani dall’offrire una risposta certa alla domanda relativa alla lealtà del PCI, che tra l’altro, per lo studioso, rappresenta più una lunga controversia che un problema storico effettivo9.