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Il documentario in Italia dal secondo dopoguerra agli anni sessanta

II.2 Una palestra per i principianti, un’opportunità per i veteran

Tra i limiti del documentario italiano, che ne hanno compromesso uno sviluppo effettivo, va senza dubbio individuata l’assenza di una scuola, o anche solo di una tradizione forte, in grado offrire spessore e riconoscibilità alle tante opere realizzate. La sensazione è che i numerosi lavori realizzati nel dopoguerra si disperdano nei mille rivoli di una produzione caotica e priva di grandi nomi di riferimento. Tutto ciò priva il documentario italiano di un «marchio di fabbrica», per così dire, come invece accade per le cinematografie di altri Paesi. All’estero si registrano il modello eccellente della scuola documentaristica britannica, le teorie di Dziga Vertov, o ancora la poetica di Flaherty e dei tanti prestigiosi documentaristi del panorama mondiale degli anni venti e trenta17. Per l’Italia, invece, all’occhio dello studioso contemporaneo si presenta un panorama di opere di diverso genere e spessore qualitativo, per quanto non privo di eccezionali capolavori. Non una tradizione, non un manifesto, non un proposito

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Ivi, p. 42. Così, infatti scriveva Giacomo Gambetti su un numero di «Bianco e Nero» del 1963: « È probabile che la televisione sia una sede più adatta, per questo genere di film (i film-inchiesta, N.d.A.), per problemi di carattere tecnico, persino per le dimensioni ridotte dello schermo, che permettono un’intimità più diretta, una vicinanza più efficace tra reporter, ambiente, spettatore. […] La televisione ha raccolto in proposito quasi tutta l’eredità del cinema, a cui rimangono disponibili solo pochi documentari sperimentali, o comunque riservati, per ironia della sorte, a un pubblico limitato di specialisti». Giacomo Gambetti, I documentari, «Bianco e Nero», n. 12, Dicembre 1963, p. 71.

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È opportuno in tale contesto fare un breve cenno ai caratteri delle principali scuole o movimenti del documentario e alla poetica dei suoi maggiori esponenti. La scuola documentaristica per antonomasia è considerata quella britannica, nata negli anni trenta sotto l’impulso di John Grierson. Dopo il successo del suo documentario Drifters, Grierson costituì un movimento, raccogliendo attorno a sé alcuni giovani registi, animati da uno spirito comune. Tra questi si ricordano Basil Wright, Arthur Elton, Stuart Legg, Paul Rotha, John Taylor, Harry Watt, Donal Taylor, Edgar Anstey. La poetica della scuola britannica ruotava attorno ai concetti di educazione del pubblico e di propaganda, strumenti finalizzati a favorire, da una parte, la comprensione degli aspetti salienti di una società che diventava sempre più complessa e, dall’altra, la diffusione di valori e doveri civici fondamentali. Il documentario, in sostanza, volendo dare forma drammatica alla vita di tutti i giorni, piuttosto che agli avvenimenti straordinari (da qui il concetto di battaglia per il «dramma sulla soglia di casa»), era inteso come uno strumento al servizio di nobili scopi sociali. Come Grierson e i suoi seguaci, anche Ruttmann in Germania, Flaherty in America, Eisenstein e Pudovkin in Russia, Cavalcanti in Francia, a partire dagli anni trenta esplorarono con la macchina da presa luoghi sconosciuti ai più e fecero conoscere agli spettatori aspetti della realtà più umili e comuni, ma per questo più veri. John Grierson,

Documentario e realtà, (a cura di Fernaldo Di Giammatteo), Roma, Edizioni Bianco e Nero, 1950.

Passato anch’egli alla scuola britannica, ma proveniente dagli Stati Uniti, Robert Flaherty è considerato il più grande documentarista di tutti i tempi, o anche il primo vero documentarista in senso stretto. Il suo modo di raccontare la realtà è generalmente considerato opposto a quello più spartano di Grierson (convinto che il documentario non dovesse avere finalità di carattere estetico). Le opere di Flaherty, infatti, nacquero da un’interpretazione della realtà in chiave romantica e lirica, pur non essendo estranee a tematiche di tipo politico e di denuncia. Per Flaherty lo scontro dell’uomo con la natura aveva in sé tutti i caratteri del dramma, pertanto, non sembrava necessario nessun ulteriore intervento del regista. L’opera di Flaherty e quella del russo Dziga Vertov sono considerate i contributi fondamentali nella storia del cinema alla definizione della nozione di documentario. Un’influenza importante sul documentario di tutti i tempi, infatti, è stata svolta anche da Vertov, un teorico, oltre che regista del settore. È sua la radicale teoria del Cine-occhio, secondo la quale il cinema dovesse essere uno strumento volto a cogliere la realtà nel suo manifestarsi, senza alcuna forma di mediazione. Il film, dunque, per Vertov si appropria della realtà, anche all’insaputa dei suoi protagonisti, e la rappresenta fedelmente. Tale concezione del cinema si coniugava con un’importante funzione sociale ad esso riconosciuta: quella di essere al servizio della massa. Non a caso Vertov iniziò la sua attività di documentarista subito dopo la Rivoluzione d’Ottobre in Russia e il suo fu un cinema al servizio del nuovo stato socialista e della relativa propaganda. R. Nepoti, Storia del documentario, op. cit..

comune, ma solo «individualità di rilievo», che si sono distinte - per altro

sporadicamente - per capacità puramente individuali18. I più grandi documentaristi

italiani, perciò, hanno lavorato in un clima di completo isolamento, portando avanti esperienze di ricerca del tutto personali. Inoltre, guardando ai nomi degli autori che hanno regalato alla storia del documentario italiano le opere più prestigiose, si scopre come pochissimi tra loro siano stati documentaristi in senso stretto. Se si eccettuano i nomi di Michele Gandin e di qualche altro, che hanno impostato la propria intera carriera cinematografica sulla realizzazione di documentari, è sorprendente «il fatto che a frequentare il documentario in Italia, senza complessi e con un certa continuità, siano stati soprattutto gli autori cinematografici di finzione esteticamente più inquieti, quelli

che non hanno mai cessato di riformulare e interrogare il senso della realtà al cinema»19.

Il documentario, dunque, è stato inteso da tali autori come un territorio di sperimentazioni linguistiche, o come una zona franca nella quale affrontare tematiche rifiutate dal cinema maggiore. Terreno fertile soprattutto per far germogliare motivi ideologici, o anche temi che raccolgono l’eredità del neorealismo negli anni della sua

parabola discendente20. È a queste motivazioni che si possono ricondurre i primi

importanti documentari di Michelangelo Antonioni: Gente del Po, N.U., L’amorosa

menzogna e Superstizione. Oppure, degli stessi anni, a metà tra il realismo e il racconto

lirico della realtà, i documentari d’esordio di due importanti autori della commedia all’italiana: Bambini in città di Luigi Comencini e Barboni di Dino Risi. O ancora, seguendo il modello del cortometraggio di Antonioni sul fiume Po, i documentari d’autore che negli anni cinquanta hanno tracciato un ritratto disincantato e violento delle difficili condizioni di vita presso il delta padano: tra questi, Quando il Po è dolce di Renzo Renzi e Delta padano di Florestano Vancini (l’autore che in assoluto dedicherà il maggior numero di cortometraggi alla vita attorno al delta del Po). Vanno citati, inoltre, i documentari dei fratelli Taviani e di Valentino Orsini sulla Resistenza (San Miniato

‘44), o sul mondo dei lavoratori sfruttati (Carvunara, Lavoratori della pietra)21

. E ancora lungo potrebbe essere l’elenco dei principali registi italiani che, agli esordi, o già affermati, hanno frequentato in maniera sporadica, ma con risultati notevoli, il settore del cinema documentario.

Le frequentazioni saltuarie da parte degli autori più importanti del cinema italiano e, di conseguenza, la quasi completa assenza di documentaristi tout court fanno riflettere anche su un altro carattere del documentarismo italiano: il suo essere stato troppo spesso considerato un mero trampolino di lancio nel mondo del cinema, una fase preliminare, per così dire, di esercitazione, prima dell’agognato passaggio al cinema a soggetto. Se è vero, infatti, che alcuni autori hanno continuato a realizzare cortometraggi anche dopo il loro esordio e parallelamente all’attività nel campo della finzione (Antonioni, Pasolini, Rossellini), per i restanti, la maggioranza, non si può dire lo stesso. Il documentario, una volta utilizzato come «palestra», come territorio di sperimentazione, per mettere alla prova le proprie capacità o per farsi conoscere alla platea di critici e spettatori, è stato ben presto messo da parte, a tutto vantaggio dei lungometraggi a soggetto. Certamente anche questa circostanza ha contribuito a determinare la condizione di perenne

18

Claudio Bertieri, Dieci anni di documentario in Italia (1955-1956), «Civiltà dell’immagine», n. 1, 1965, pp. 29-33, cit. in Giampaolo Bernagozzi (a cura di), Il cinema allo specchio: appunti per una storia del documentario, Bologna, Patron, 1985, pp. 94-95.

19

Serafino Murri, Il documentario d’autore nel cinema italiano. Dal dopoguerra alla contestazione, «Bianco e Nero», n. 1-2, Gennaio-Aprile 2001, p. 87.

20

G. Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal Neorealismo al miracolo economico 1945-1959, op. cit., p. 486.

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debolezza e di scarsa autonomia del documentario italiano rispetto al cinema di finzione. Di ciò vi era consapevolezza già diversi decenni fa, quando intenso, sulle riviste specializzate, era il dibattito sull’argomento. Nel 1962 Leonardo Fioravanti si chiedeva perché ogni documentarista italiano, anche affermato nel settore, aspirasse al passaggio al lungometraggio a soggetto. Alla domanda seguiva l’auspicio

«che qualche buon documentarista continuasse a percorrere la sua strada fino in fondo, convincendosi che per fare un buon documentario si richiedono capacità di inventiva e di selezione, nonché una conoscenza profonda del linguaggio cinematografico, pari a quelle che sono necessarie per realizzare un buon film a soggetto. Il documentarista può, infatti, raggiungere le vette dell’arte e trasformarsi egli stesso in artista, sempre che creda in se stesso e nelle sue opere»22.

Evidentemente tale fiducia nelle potenzialità del documentario né allora né dopo è stata colta dagli autori italiani e l’appello accorato di Fioravanti, così come le parole di quanti, come lui, si affannavano in quegli anni nel dibattito in difesa del documentario, sono rimasti lettera morta.