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Il documentario in Italia dal secondo dopoguerra agli anni sessanta

II.6 Il documentario nelle mostre e sulle riviste specializzate

Nel difficile panorama produttivo e distributivo italiano, hanno rappresentato un’opportunità senz’altro importante per i documentari le tante mostre, rassegne e festival tenutisi in Italia per diversi decenni a partire dal dopoguerra. Essi, infatti, sono

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G. Passeri, Frontiere, «Cinema Nuovo», n. 62, 10 Luglio 1955, p. 36.

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G. Bernagozzi, Leggi, monopoli e censure per e contro il documentario, op. cit., p. 149.

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stati una vetrina di prestigio che, in molti casi, ha permesso a lavori di grande pregio, impossibilitati per svariate ragioni ad arrivare nelle sale, di essere conosciuti, quanto meno, dal ristretto gruppo dei critici e, tramite essi, di avere una qualche forma di risonanza presso il pubblico attraverso le riviste specializzate. Se oggi si conoscono i nomi di importanti documentari italiani è proprio grazie al fatto che questi ultimi, pur non essendo noti al grande pubblico, hanno avuto comunque la possibilità di essere visti ed apprezzati dalla critica, nonché essere recensiti sulle riviste di cinema. Più in generale, le tante mostre e rassegne hanno offerto un trampolino di lancio per i documentaristi più o meno affermati. D’altro canto, i premi da esse tributati agli autori hanno rappresentato per costoro i pochi (o forse gli unici) riconoscimenti in una carriera spesso tortuosa. Inoltre, le mostre hanno offerto le occasioni a critici e studiosi del documentario per confrontarsi, analizzare e ampliare il dibattito su un prodotto culturale spesso messo all’angolo.

Diversi sono stati i festival nati in Italia e, in certi casi, ancora esistenti, il più delle volte dedicati a generi specifici del documentario. Tra questi si ricordano il Gran Premio di Bergamo, dedicato ai film d’arte e sull’arte, del 1958; oppure, la Rassegna internazionale del film scientifico, nata a Padova nel 1950 come sezione della Mostra del documentario di Venezia; per il film industriale, invece, si possono citare il Festival Internazionale del Film Industriale di Torino, del 1960, e il Festival nazionale del film industriale e artigiano, ideato a Monza nel 1957. Si tratta di un numero limitato di esempi fra i tanti che si potrebbero citare, giacché sono stati numerose le rassegne, in molti casi definite «minori», venute alla luce nel tempo, spesso legandosi a generi specifici del documentario. Accanto ai festival più piccoli, ci sono stati, ovviamente, anche quelli maggiori, vale a dire le manifestazioni più grandi e più note nel panorama cinematografico italiano, legate in origine al solo cinema a soggetto e votate poi ad ospitare anche i documentari, o nate specificamente per i documentari. Al primo gruppo si riconduce la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il principale, nel dopoguerra, tra i festival di cinema italiani. La mostra veneziana ha dato spazio al documentario, sia italiano sia straniero, sin dagli anni trenta. Se in un primo tempo i filmati di non fiction non godevano di uno spazio proprio, essendo presentati assieme ai film a soggetto, nel 1950 nacque la prima Mostra Internazionale del Film Scientifico e del Documentario d’Arte, dedicata esclusivamente a questi due generi di documentario. In linea generale, il festival veneziano ha sempre riservato un posto notevole alla produzione cinematografica non di finzione; prova n’è il fatto che le opere in concorso, soprattutto dopo la pausa causata dalla seconda guerra mondiale, crebbero notevolmente di numero negli anni. Anzi, subito dopo la guerra, nel 1946, i documentari presentati aumentarono in maniera particolare e maggiore risalto fu dato ai lavori stranieri, probabilmente nel tentativo di reagire al clima di chiusura culturale che si era respirato nel Paese negli anni del fascismo. Alla luce di tale apertura si spiega meglio anche la nascita, nel 1950, della Mostra dedicata al solo documentario: i tempi erano maturi per offrire a questo macro genere della produzione cinematografica, nazionale e non, spazi autonomi in seno alla Mostra grande. In particolare, nel corso degli anni cinquanta, la mostra dedicata al documentario accolse, nell’ambito della categoria del «film scientifico», molte opere di carattere etnografico, in un’epoca in cui nell’ambito di tale genere furono prodotti lavori d’indiscusso valore. Anzi, la Mostra vi diede un impulso significativo, nella convinzione che il cinema potesse rappresentare un valido supporto alla ricerca etnografica. Non a caso, furono organizzati in quel contesto convegni e

proiezioni, promossi anche dal celebre antropologo-cineasta francese Jean Rouch65. Di là dai meriti, tuttavia, alla Mostra del documentario di Venezia sono stati riconosciuti negli anni anche dei limiti. Tra questi, come si è già detto, la miopia culturale degli esponenti delle commissioni di selezione, dimostrata in alcune circostanze, che ha portato all’esclusione dal concorso di opere di valore. Le ragioni del rifiuto erano spesso

dettate, come spiega ad esempio sulla rivista «Cinema Nuovo»66 nel 1957 Ivano

Cipriani, dalla volontà di censurare le opere incentrate su temi sociali difficili, in genere superficialmente etichettati come troppo negativi o pessimisti. Secondo Cipriani, così, se all’VIII Mostra di Venezia del ‘57 i documentaristi sembravano aver dimenticato i loro contemporanei e il «male che li divora», le responsabilità ricadevano anche sulla commissione di selezione, allergica a certi temi spinosi. Anche alle spalle di una manifestazione istituzionale ed autorevole come quella veneziana, dunque, s’intravedevano le oscure influenze della classe politica al potere e, più in generale, del clima culturale conservatore, che aleggiava sull’Italia degli anni cinquanta e sessanta. Proprio in quest’ultimo decennio la Mostra del documentario di Venezia comincia a mostrare i primi segni di declino, puntualmente rilevati da critici e studiosi. Colpita da tagli di fondi e dalla concorrenza spietata degli altri piccoli festival dedicati a generi specifici del documentario, nonché da una costante erosione del pubblico partecipante alle proiezioni, la Mostra si ammala di un crescente scadimento dei suoi contenuti, al punto che c’è chi parla di un festival portato avanti solo per inerzia, per proseguire una

vecchia tradizione ormai svuotata di senso67.

Altra manifestazione importante per il documentario è stata il Festival dei Popoli, prima rassegna italiana incentrata esclusivamente sui film a tema etnografico e sociale. Nacque a Firenze nel 1959 col sottotitolo di «Rassegna internazionale del film etnografico e sociologico», dato il suo iniziale interesse per tematiche strettamente antropologiche. Nel tempo, tuttavia, il Festival muta fisionomia, incentrandosi prima su argomenti attinenti il vasto campo della sociologia, e poi, negli anni settanta, su temi politici (da qui il mutare nel ‘68 del sottotitolo in «Rassegna internazionale del film di documentazione sociale»). Il Festival fiorentino è stato, pertanto, un’importante vetrina per una vasta produzione documentaristica, che ha toccato i temi più svariati, riconducibili al comune denominatore dello studio dell’uomo e della società. Attraverso il Festival dei Popoli il pubblico ha conosciuto dapprima le culture delle società primitive, più lontane ed «esotiche», poi le problematiche e le contraddizioni delle società occidentali moderne, fino ad arrivare alle tematiche più scottanti e figlie della contestazione degli anni sessanta e settanta, quali il Terzo Mondo, il Vietnam e la povertà di alcune zone d’Italia gravemente depresse nonostante il celebrato miracolo economico. Insomma, il Festival dei Popoli sperimenta negli anni una metamorfosi radicale, passando dall’antropologia, alla sociologia, fino ad arrivare ai temi più in linea col dettato della controinformazione, riuscendo così a riflettere le tendenze di una società che cambiava. La flessibilità nella scelta degli argomenti portati alla ribalta attraverso i documentari era anche merito del pluralismo ideologico di cui il gruppo dirigente del Festival era espressione: di esso facevano parte, infatti, sia esponenti del partito di governo, la DC, sia uomini vicini alla sinistra, sia, infine, personaggi non

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Mario Verdone, Il film documentario a Venezia 1949-1968, in Camillo Bassotto (a cura di), Il film per ragazzi e il

documentario a Venezia 1949-1968, Quaderni della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, 1968,

pp. 3-13.

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Ivano Cipriani, Hanno dimenticato i contemporanei, «Cinema Nuovo», n. 113, 1 Settembre 1957, pp. 107-108.

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Claudio Bertieri, Venezia documentario: un “leone” all’Italia, «Bianco e Nero», n. 8-9, Agosto-Settembre 1964, pp. 80-101.

legati ad alcun movimento politico68. Tuttavia, quest’apertura ai più disparati contenuti del Festival dei Popoli, soprattutto nei primi anni della sua esistenza, fu considerata da buona parte della critica come una pecca, poiché si traduceva nell’inesistenza di un comune filo conduttore alla base dei tanti documentari selezionati. Così, in occasione della terza edizione, Giacomo Gambetti su «Bianco e Nero»69 scriveva della rassegna fiorentina che

«finora non ha una caratterizzazione precisa, ed è soltanto un modo per raccogliere e presentare alcuni o molti documentari, spesso interessanti, di vario genere. […] Ma è altrettanto evidente che in questo modo il festival fiorentino rischi di perdere definitivamente la sua precisa ragione e, in un certo senso, la sua personalità, il modo di distinguersi dal gran numero di festival di documentari che si svolgono ogni anno in Italia e nel mondo».

Accuse analoghe vengono rivolte al Festival sulla stessa rivista e dallo stesso critico anche un anno dopo: si rimprovera ancora la mancanza di «chiarezza di idee», che porta a raccogliere nell’indistinto calderone del cinema sociologico reportage di viaggi, film-

inchiesta e documentari etnografici70. Si unisce al coro delle critiche per questa quarta

edizione anche la rivista «Cinema Nuovo»71, che in un articolo parla di un Festival conclusosi «senza infamia e senza lodo» (sic). Anche in questo caso vengono giudicati sostanzialmente buoni i film presentati, ma privi, salvo qualche caso, di effettivi legami con la sociologia e l’etnologia. E se per l’edizione successiva, la quinta, il giudizio di

«Bianco e Nero»72 diventa positivo (questa volta ad accomunare i tanti film selezionati

ci sarebbe un complessivo criterio scientifico), resta, invece, estremamente sfavorevole quello di «Cinema Nuovo»73. Sulla rivista, infatti, il Festival del 1964 è definito addirittura come organizzato per favorire scopi commerciali, turistici e politici, insomma, tutt’altro che culturali. Il basso livello culturale e il «provincialismo» sono giudicati i caratteri dominanti nella rassegna fiorentina. Ancora con gli stessi toni pesanti sarà definita, l’anno successivo, il 1965, dalla stessa rivista (e dallo stesso critico), la sesta edizione del Festival dei Popoli, perché «è risultata appiattita e amorfa per la pigrizia, il provincialismo e l’agnosticismo culturale e politico dei suoi organizzatori»74. I giudizi sul Festival dei Popoli, come si vede, sono stati altalenanti negli anni. Tuttavia, anche le critiche più negative non intaccano il merito fondamentale di questa, come di tante altre mostre esistite in Italia: quello di essere state in molti casi una piccola zona franca in cui i documentari hanno potuto essere visti ed apprezzati, un’oasi vitale nel desertico scenario produttivo e distributivo italiano.

Collocabili per certi aspetti sullo stesso piano dei festival, per la funzione esercitata, sono le riviste di cinema, che nei decenni successivi alla fine della guerra hanno promosso e fatto conoscere al pubblico i documentari italiani. Attraverso le rubriche sul cortometraggio, che riviste come «Cinema», «Cinema Nuovo» e «Bianco e Nero» hanno tenuto per diversi anni, e attraverso gli articoli su di esse apparsi, che tante volte hanno messo in luce le difficoltà del settore, la stampa specialistica ha scritto pagine essenziali della storia del documentario, impedendo che tale genere cinematografico, già

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Maria Pia Tasselli, Il cinema dell’uomo. Festival dei Popoli 1959-1981, Roma, Bulzoni, 1982.

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Giacomo Gambetti, I documentari. Un festival utile, ma da caratterizzare, «Bianco e Nero», n. 1, Gennaio 1962, p. 70.

70

Giacomo Gambetti, I documentari, «Bianco e Nero», n. 1-2, Gennaio-Febbraio 1963, pp. 126-127.

71

Ezio Stringa, Il festival dei popoli assenti, «Cinema Nuovo», n. 161, Gennaio-Febbraio 1963, p. 51.

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Claudio Bertieri, Venezia documentario: un “leone” all’Italia, cit..

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Ezio Stringa, Il festival dei popoli, «Cinema Nuovo», n. 168, Marzo-Aprile 1964, p. 137.

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così bistrattato, fosse condannato successivamente all’oblio. Considerando il numero non molto elevato e il loro carattere spesso incompleto di monografie attualmente

esistenti sull’argomento75, il contributo della stampa specialistica appare assolutamente

fondamentale per ricostruire la trama sottile della storia del genere. Certo, è anche vero che lo spazio dedicato ai cortometraggi sulle riviste di cinema appare limitato rispetto a quello nettamente preponderante del cinema di finzione. Inoltre, se sin dal dopoguerra è possibile trovare sulle riviste di settore qualche articolo - anche di coraggiosa denuncia - sulla situazione del documentario in Italia, le rubriche specifiche con le recensioni delle opere proiettate nelle sale sono comparse solo nel corso degli anni cinquanta ed hanno avuto, tutto sommato, vita breve. La loro frequenza, tra l’altro, è stata talvolta discontinua. Sostanzialmente poche, poi, sono state le riviste che hanno dedicato un tale spazio ai cortometraggi. Da ciò si evince che di tutta l’immensa mole di titoli giunti nelle sale italiane solo una piccola parte abbia avuto la fortuna di trovare spazio tra le righe delle recensioni. È per questa ragione che, sul piano della ricostruzione della storia del documentario, l’insieme delle riviste rappresenta un serbatoio di conoscenza per forza di cose lacunoso, anche se preziosissimo per molti altri aspetti. Solo dalle riviste di cinema, infatti, si sono levate le grida di protesta contro gli scandali dei documentari, ossia contro la vergognosa speculazione delle case di produzione del settore, la legislazione infelice, le varie forme di censura; solo sulla stampa specialistica sono state avanzate proposte per mutare l’apparato legislativo e per risollevare le sorti del documentario; infine, solo le riviste di cinema hanno ospitato tra le loro pagine dibattiti importanti con interventi di critici e studiosi del settore. I periodici che hanno dedicato maggiore spazio al documentario sono stati «Cinema», «Cinema Nuovo» e «Bianco e Nero». Il primo, dopo la seconda guerra mondiale, riprende le pubblicazioni nell’ottobre 1948 con la dicitura «nuova serie». Già nel mese di dicembre dello stesso anno compare la prima rubrica «Documentari e cortometraggi» a cura di Giulio Cesare Castello. Si tratta però di una breve parentesi, ben presto chiusa. Una rubrica più sistematica, invece, sarà quella di Mario Verdone, che prende il via nel 1951, proprio allo scopo, come sottolinea lo stesso critico che la cura, di dedicare maggiore attenzione al mondo dei documentari. Secondo Verdone, infatti, poca eco aveva avuto su tutta la stampa del periodo quel dibattito sul documentario che la stessa rivista «Cinema» aveva intrapreso pochi mesi prima76. E, difatti, durante tutto il 1950, tra le pagine di quella rivista, ampio spazio era stato dato al documentario e alla necessità di una nuova legge che lo disciplinasse, con articoli, proposte ed interviste anche a personaggi politici. Dal 1952, poi, la rubrica dei cortometraggi sarà curata, con qualche discontinuità da Oreste Del Buono. Una discontinuità con molta probabilità attribuibile alle difficoltà degli stessi critici dei documentari nel riuscire a vedere i cortometraggi nelle sale, proiettati disordinatamente, o, peggio ancora, programmati e poi di fatto non proiettati. Maggiore continuità presenterà invece la rubrica curata da Claudio Bertieri dal 1954. In quell’anno, infatti, «Cinema» inaugura la terza serie, assieme ad un nuovo direttore, e lo

spazio dedicato ai cortometraggi prende il nome di «Fuori programma»77. Questa

rubrica sopravvivrà con buona regolarità fino al ‘56, per poi scomparire gradualmente. «Cinema Nuovo», invece, ospita sin dal suo primo numero, del 1952, uno spazio

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Più recentemente, tuttavia, la Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema di Marco Bertozzi, Venezia, Marsilio, 2008, ricostruisce per la prima volta in maniera più organica e completa le fasi cruciali, dalle origini ai giorni nostri, del documentarismo nostrano.

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Mario Verdone, I cortometraggi, «Cinema», n. 58, 15 Marzo 1951, p. 148.

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dedicato al cortometraggio. Nella prima rubrica «I cortometraggi» la redazione prende l’impegno coi lettori di seguire con attenzione il settore, col proposito di metterne in luce gli aspetti negativi, ma anche quelli positivi, per poter finalmente scuotere il documentario dal suo immobilismo e per trasformarlo in un reale strumento di

informazione e approfondimento sulla realtà78. La rubrica, curata da Oreste Del Buono

prima e da Tom Granich poi, sarà ospitata con regolarità tra le pagine della rivista per diversi anni, per poi cessare. Più sporadiche, infine, sono le rubriche dedicate al documentario da «Bianco e Nero», la rivista legata al Centro Sperimentale. Uno spazio più regolare ci sarà solo negli anni sessanta grazie alla sezione «I documentari», curata da Giacomo Gambetti. Tuttavia, negli anni cinquanta sono stati numerosi gli articoli di Mario Verdone dedicati all’argomento. Inoltre, la rivista ha concesso sempre ampi spazi alle varie rassegne e manifestazioni di settore. Il merito, in conclusione, non va riconosciuto solo alle riviste, ma anche - o forse soprattutto - a quel gruppi di critici appassionati che col loro lavoro (spesso condotto anche passando da una rivista ad un’altra) hanno contribuito a mantenere vivo l’interesse verso il documentario, in un clima di tendenza decisamente opposta. A Mario Verdone, Claudio Bertieri, Giacomo Gambetti si deve il merito di essere stati, assieme a pochi altri, gli unici megafoni delle sorti del documentario, in grado di fare arrivare sino ai giorni nostri un’eco preziosa da quella periferia silente del cinema italiano.

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