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La propaganda politica in Italia

V.1 Definizioni e caratteri della propaganda

La storia dei partiti italiani del dopoguerra si intreccia strettamente al discorso sulla propaganda. Essa, intesa come quell’insieme di pratiche atte ad orientare l’opinione pubblica rispetto a determinati sistemi ideologici, svolge un ruolo fondamentale nel rapporto tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista con la società dell’epoca. Anzi, «se la politica, come da più parti si tende a rimarcare, è essenzialmente un conflitto tra diverse retoriche, trova molteplici motivazioni l’indagine sui modelli di linguaggi (verbali, scritti, per immagini) che concorrono a definire i codici della comunicazione nella società di massa»1. Insomma, pare impossibile scindere lo studio dei partiti in rapporto alla società di massa del dopoguerra dall’analisi delle rispettive forme di propaganda.

Le definizioni di propaganda sono molteplici e la maggioranza di esse si caratterizza per un’accezione negativa data al concetto, sebbene non manchi qualche più rara eccezione. Una storia definitiva e completa della propaganda appare ancora tutta da scrivere, tuttavia, è noto come il termine sia apparso nei principali dizionari nazionali all’inizio del novecento, quando, a seguito della Grande guerra, il primo conflitto di massa, studiosi di scienze sociali ne formalizzano le prime definizioni. Gli studi su questo tema si infittiscono negli anni trenta, quando la propaganda assume un ruolo centrale nei regimi totalitari che nascono in Europa. Le riflessioni proseguono, successivamente, focalizzandosi sul ruolo che essa svolge nelle democrazie, in cui principali interpreti ne diventano i partiti2. Pur essendo numerose, le definizioni date del concetto hanno alcuni tratti comuni. La propaganda è intesa come una serie di attività, o come una tecnica scientifica vera e propria, il cui obiettivo è incidere sull’opinione, o addirittura sul comportamento, di un gruppo di persone, che possono essere una categoria sociale specifica, piuttosto che l’indistinto pubblico di massa. Secondo alcune definizioni, la propaganda fa appello alla razionalità dell’individuo, alle capacità di comprendere e valutare; in altre, si mette il luce la sua forza di coercizione, ovvero la capacità di incidere - contro la volontà razionale dell’uomo - nella dimensione psicologica, agendo sul piano dell’emotività3. In quest’ultimo caso, si evidenza come essa operi una consapevole distorsione della realtà, un racconto della stessa da un punto di vista unilaterale. In tal senso, le definizioni negative di propaganda sottintendono un inganno dell’uditorio, assieme ad una manipolazione delle idee di quest’ultimo, che avviene attraverso il ricorso a suggestioni emotive e all’irrazionalità. Poche sono le definizioni positive o neutre del concetto. Queste ultime ne mettono comunque in luce la funzione di diffondere informazioni allo scopo di influenzare l’opinione pubblica,

1

Maurizio Ridolfi (a cura di), Propaganda e comunicazione politica. Storia e trasformazioni nell’età contemporanea, Milano, Bruno Mondadori, 2004, p. VII.

2

Ivi, pp. VIII-IX.

3

Paolo Facchi (a cura di), La propaganda politica in Italia. Problemi della società italiana, Bologna, Il Mulino, 1960, p. 10.

senza però calcare la mano sul discorso della manipolazione coatta4.

La propaganda si lega indissolubilmente ai mezzi di comunicazione di massa. Si può dire che solo attraverso questi ultimi essa possa aver luogo. I mezzi di comunicazione di massa svolgono la funzione di ripetere più volte i suoi argomenti, affinché penetrino nell’opinione pubblica. La ripetizione richiede che i discorsi siano semplici e facili da assimilare, perciò la propaganda si traduce spesso in slogan sul piano linguistico e in idee semplificate su quello concettuale. Rivolgendosi ad un pubblico di massa e non ad un uditore singolo, essa non prevede l’istaurarsi di un dialogo, ovvero la possibilità del singolo individuo di replicare e confutare quanto recepito. Questo compito è svolto, invece, da un’altra propaganda, definita contropropaganda. Propaganda e relativa contropropaganda, così, si scontrano allo scopo di orientare ciascuna, rispetto alle proprie idee di riferimento, l’opinione dell’avversario o un uditorio neutro. Tale dibattito è diverso da un dialogo tra singoli, in cui ciascuno può controbattere direttamente alle argomentazioni dell’altro. È piuttosto un dialogo a distanza, o anche un «dialogo tra sordi», in cui ciascuna propaganda può più facilmente, in assenza dell’interlocutore, confutare quella avversaria. Inoltre, questa distanza amplifica la semplificazione dei discorsi e la riduzione di quest’ultimi a facili slogan, impoverendoli da un punto di vista argomentativo. Tale situazione si verifica tanto più nei periodi in cui lo scontro politico si infiamma, per esempio durante le campagne elettorali. L’aumento della tensione e l’infittirsi del dialogo a distanza tra gli avversari favoriscono la riduzione dei discorsi della propaganda a semplici frasi ad effetto e il far leva di quest’ultima su sentimenti primordiali dell’uditorio. Viceversa, in fasi di minor tensione, il dibattito politico appare

più articolato e fondato su argomentazioni maggiormente complesse5.

Da quanto finora detto si evince come la propaganda politica possegga molti punti di contatto con la pubblicità (non a caso quest’ultima è definita anche propaganda commerciale). Il ricorso a frasi ad effetto e a simboli che sono evocativi, piuttosto che denotativi, che fanno appello all’emotività, piuttosto che alla razionalità, rendono pubblicità e propaganda politica poco dissimili. I primi segnali di questa assimilazione si vedono già a fine ottocento, nei Paesi anglosassoni, dove si manifestano forme nascenti di personalizzazione e spettacolarizzazione della politica. Quest’ultima subisce l’influenza della pubblicità, in un contesto sociale agli albori della società di massa, mutuandone, appunto, la capacità di agire sull’asse emotivo piuttosto che su quello razionale della comunicazione. In politica, così, i comizi si trasformano sempre più in grandi feste, capaci di attrarre il pubblico, e appaiono i primi manifesti, che giocano sull’appetibilità e potenza evocativa delle immagini, al pari di quelli commerciali6. Questa sovrapposizione dei due piani - politica e pubblicità - tocca il suo apice, negli Stati Uniti in particolare, negli anni cinquanta, in pieno sviluppo della società di massa. In quella fase si diffondono per la prima volta sondaggi e ricerche di mercato, che trattano allo stesso modo i consumi commerciali e il voto. I politici americani realizzano i loro primi spot televisivi, lasciandosi guidare da comunicatori di professione, che padroneggiano bene il nuovo mezzo, sempre più diffuso tra gli Americani, e il relativo linguaggio innovativo. Sono i repubblicani, più legati al mondo dell’impresa, e il loro

carismatico candidato Eisenhower, a fare da apripista alle elezioni del 19527.

4

Andrea Baravelli, Propagande contro. Modelli di comunicazione politica nel XX secolo, Roma, Carocci, 2005, pp. 46-47.

5

P. Facchi (a cura di), La propaganda politica in Italia, op. cit., pp. 12-14.

6

M. Ridolfi (a cura di), Propaganda e comunicazione politica, op. cit., pp.VII-VIII.

7

L’influenza delle tecniche pubblicitarie, pur raggiungendo punte massime negli anni di pieno sviluppo della società di massa, si ritrova nella comunicazione politica americana sin dagli anni trenta e segna la netta differenza tra quest’ultima e il modello diffuso in Europa, con esattezza nei regimi totalitari dell’epoca. Infatti, negli Stati Uniti, assieme all’influenza delle tecniche pubblicitarie, è diffuso un modello di comunicazione che fa leva sulla razionalità, compatibilmente con l’impianto democratico della società americana. Diversamente, nei regimi totalitari europei degli anni trenta, la costruzione del consenso e il rapporto tra le masse ed il potere si fondano su un costante ricorso all’emotività. Alla razionalità delle argomentazioni si sostituiscono le suggestioni, basate sul ricorso a simboli e a riti evocativi, e sul carisma dei leader. Tutto questo induce le masse a scelte articolate su processi non più analitici, ma irrazionali. Alcuni di questi aspetti resteranno immutati, come si vedrà, anche nel contesto democratico del dopoguerra. Determinati caratteri della propaganda ereditati dai regimi totalitari, infatti, persistono, miscelandosi al contempo alle più nuove forme di comunicazione pubblicitaria provenienti da oltreoceano8. In Italia protagonisti della scena politica del dopoguerra diventano i partiti, in particolare i due in grado di assumere la caratterizzazione di massa, il PCI e la DC. Nella loro propaganda elementi come il carisma del leader, il far leva sulle emozioni, la demonizzazione del nemico, ereditati dal fascismo, svolgono ancora un ruolo cardine, ma ad essi si associa anche un maggior ricorso alla sfera razionale dell’individuo. Nel clima di rinnovata partecipazione politica e di militanza, i partiti di massa si trasformano in potenti macchine di comunicazione, capaci di raggiungere il pubblico attraverso un sistema ramificato. Le forme attraverso cui si esplica la propaganda in questa fase sono quelle tradizionali: il comizio, il porta a porta, i volantini ed i manifesti, la stampa e l’editoria di partito. Il tutto sotto lo stretto controllo della dirigenza, affinché i messaggi trasmessi siano coerenti tra loro e rispettosi della dottrina di riferimento. I partiti rappresentano dei sistemi di propaganda autosufficienti e in grado di raggiungere, oltre i propri iscritti, anche il pubblico dei simpatizzanti e, addirittura, quello neutro o avversario9. Con la nascita della televisione, in una fase successiva a quella dell’immediato dopoguerra, cambia il modo di comunicare alle masse. L’evoluzione si registra, in particolare, a partire dal 1960, quando vi è la messa in onda delle Tribune Elettorali, i primi spazi televisivi deputati ad ospitare i volti della politica. È una rivoluzione: leader di partito, che fino a quel momento erano stati conosciuti solo attraverso immagini fotografiche, per la prima volta appaiono al pubblico così come sono realmente, con le loro movenze e modo di parlare. Comincia da qui il processo che porterà la politica ad allontanarsi dai luoghi fisici, come le piazze, per rifugiarsi in quelli mediatici e virtuali. L’influenza del piccolo scherno e dei mass media in generale si manifesta anche nella scelta dei partiti di rivolgersi ad esperti di comunicazione, sul modello americano, e a non fare più esclusivo affidamento alle proprie risorse interne. I linguaggi della propaganda, d’altro canto, si evolvono, abbandonano i modelli tradizionali per conformarsi ai dettami televisivi. Si fa maggiormente appello alla seduzione, anche in virtù della centralità

assunta dall’immagine, e si presta maggiore attenzione all’aspetto dei politici10. Infatti,

«Non raro fu il caso di leader che apparvero davanti alle telecamere impacciati e tali da risultare “vecchi”. Persino l’abbigliamento sembrò superato ed inadatto: la grisaglia

8

M. Ridolfi (a cura di), Propaganda e comunicazione politica, op. cit., p. XII.

9

Edoardo Novelli, La turbopolitica. Sessant’anni di comunicazione politica e di scena pubblica in Italia: 1945-2005, Bergamo, BUR, 2006, pp. 244-245.

10

anonima del funzionario di partito fu improvvisamente messa fuori gioco dall’eleganza

fotogenica di un sorprendente Giovanni Malagodi»11. Inizia da qui il lento, ma costante,

processo di spettacolarizzazione della politica, favorito dai cambiamenti che contemporaneamente attraversano la società, sempre più attratta da richiami edonistici.