L’avvento della società di massa
IV.3 La società dei consum
Tra il finire degli anni cinquanta e i primi anni sessanta le lente trasformazioni che avevano investito l’Italia dalla fine della guerra subiscono una fortissima accelerazione, che porta in pochi anni il Paese a mutare la propria fisionomia. È il boom dell’economia, che si traduce in più benessere per gli Italiani, in nuovi sogni e aspirazioni di vita. La ricchezza determina l’avvento del consumismo e la conseguente variazione di stili di vita e comportamento. In breve, col miracolo economico prende piede in Italia, non senza contraddizioni, la moderna società di massa. Un’influenza notevole su questi processi di rapida trasformazione è svolta, come visto, dalla cultura americana e dal suo modello di sviluppo. Infatti, ha giustamente spiegato lo storico Stephen Gundle, «Il rapido processo di industrializzazione in un paese in cui mancava una reale cultura laica comune a tutti produsse un vuoto enorme che soltanto le idee, i
temi e le regole provenienti dagli Stati Uniti sembrarono in grado di colmare»37. D’altro
canto, la diffusione del modello americano aveva alla propria base ragioni economiche e politiche. Oltre al fatto che, sin dalla fine della guerra, l’Italia era stata individuata come un potenziale mercato per la commercializzazione dei prodotti americani, la diffusione di un modello di vita di tipo capitalistico, combinato ad un aumento del benessere sociale, aveva la funzione di rafforzare il potere della classe politica dominante, la DC e i suoi alleati di governo, ideologicamente legati al blocco statunitense. Al contempo, il modello americano mirava ad arginare il potere delle sinistre, che basavano le proprie dottrine politiche ed ideali su presupposti antitetici a quelli del capitalismo.
I cambiamenti che investono l’Italia non avvengono in maniera fluida ed omogenea. Buona parte della classe dirigente, legata a modelli di pensiero tradizionali, non è in grado di gestirli al meglio. Essi, d’altro canto, s’innestano su un fitto tessuto di retaggi culturali difficile da scardinare. Ne deriva uno sviluppo atipico, le cui coordinate di modernità convivono con resistenze della tradizione culturale locale mai soppiantate del tutto. Inoltre, l’industrializzazione ed il benessere non si diffondono ugualmente lungo tutta la penisola. È il Nord prevalentemente che avanza spedito verso i cambiamenti economici e sociali, grazie alla nascita di industrie e alla conseguente diffusione di nuovi schemi di vita, a fronte di un Sud che resta ancorato ad un’economia ed a modelli culturali decisamente tradizionali. Il divario da sempre esistito tra i due estremi della penisola finisce, così, con l’acutizzarsi in quest’epoca. Paradossalmente, tuttavia, favorisce l’omologazione culturale tra Nord d’Italia e Mezzogiorno il fortissimo processo di emigrazione interna che porta i meridionali, tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta, a trasferirsi in massa nelle città in cui è possibile trovare un impiego. La necessità di manodopera nelle fabbriche dell’Italia settentrionale e il bisogno di lavorare dei meridionali innesca un’ondata senza precedenti di spostamenti dal basso verso l’alto lungo lo stivale. Impiantati in una realtà avviata verso la modernizzazione, gli Italiani del Sud, non senza difficoltà, si adeguano ai nuovi modelli culturali e sociali così diversi da quelli propri di origine.
I mutamenti colgono impreparati i due principali partiti italiani, La Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, che non si aspettano delle trasformazioni economiche e sociali così repentine. In generale, i due partiti restavano legati ad un’immagine arcaica dell’Italia. Nella loro visione il Paese sarebbe a lungo rimasto prevalentemente agricolo con pochi insediamenti industriali. La portata del cambiamento, perciò, li sorprende. La
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classe dirigente appare non in grado di rispondere tempestivamente e quindi di governare i processi di mutamento, che avvengono per lo più spontaneamente. Al massimo lo Stato si limita ad avallare delle scelte che sono operate dal mondo dell’industria. La stessa comunità industriale italiana, va detto, non risponde con entusiasmo al richiamo della crescita della produzione e dell’industrializzazione, ancorata com’era ad un atteggiamento conservatore, volto a tutelare i privilegi fino a quel momento acquisiti. La crescita del Paese avviene, per lo più, grazie a figure illuminate, come Vittorio Valletta, Enrico Mattei, ai vertici rispettivamente della Fiat e dell’Eni, o di Adriano Olivetti38. Le resistenze del mondo dell’industria, o almeno di una parte di esso, tuttavia, si spiegano anche con la consapevolezza dell’incompatibilità del modello economico italiano con quello americano. Tra i più grandi sostenitori di tale tesi vi fu il presidente di Confindustria Angelo Costa, che, conscio delle difficoltà culturali per l’Italia di adattarsi al modello americano, proponeva una ricetta di sviluppo diversa. Il suo era un modello economico basato sul risparmio, una delle tradizionali virtù degli italiani, piuttosto che sul consumo, cui questi ultimi non erano storicamente abituati39.
La stessa Democrazia Cristiana si fa promotrice di una sorta di «terza via» in economia, alternativa al capitalismo ed al comunismo. Tale modello era stato indicato sin dal dopoguerra dalla Chiesa. Nella sua apertura al mondo moderno, essa manifesta l’esigenza di favorire una correzione in chiave etica dei principi che regolano il capitalismo, per renderli più giusti. Questi appelli sono lanciati, in particolare, da Pio XII. Nella sua visione, occorre superare il capitalismo classico per fondare un nuovo ordine economico in cui l’etica e lo sviluppo camminino di pari passo. Affinché ciò avvenga, lo Stato, orientato nel proprio agire dai principi cattolici, deve intervenire più direttamente nei processi economici40. Tali direttive trovano riscontro nella visione di De Gasperi, che coniuga un moderato intervento dello Stato in economia all’esigenza di riforme, ponendosi, così, a metà tra la posizione liberista e quella comunista. L’eccessivo interventismo in economia o, di contro, lo sfrenato liberismo sono avvertiti dal leader democristiano come contrari alla cultura italiana ed ai principi cattolici. È così che l’intervento dello Stato, orientato da spirito cristiano, si fa garante di una maggiore giustizia e di imparzialità. De Gasperi immagina un modello evidentemente imbevuto di cristianesimo, che mira al superamento degli egoismi, alla giustizia sociale, all’uguaglianza, alla solidarietà, ma senza riferimenti alla lotta di classe, che invece,
contrassegnava il pensiero comunista41. Come per De Gasperi, fondamentale è per tutta
la prima generazione di democristiani, che si trovano a dirigere il Paese nel dopoguerra, l’influenza della loro spiritualità, che, secondo Giovagnoli, favorisce un’adesione al capitalismo, nonostante quest’ultimo contrastasse coi principi cattolici. Se i democristiani premono per un aumento della produzione, per un’intensificazione dell’attività privata e manifestano, perciò, chiari orientamenti liberisti, lo fanno perché credono in questo modo di migliorare le condizioni di vita del Paese e di tendere una mano ai più poveri ed alle aree depresse. L’adesione, cioè, è dettata proprio dai loro principi cristiani:
«le motivazioni religiose e sociali hanno in definitiva spinto i cattolici, o almeno parte di essi, ad
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Ivi, pp. 151-158. Cfr. anche Simona Colarizi, Storia del Novecento italiano. Cent’anni di entusiasmo, di paure, di speranza, Milano, BUR, 2005, pp. 349-360.
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A. Ventrone, L’avventura americana della classe dirigente cattolica, op. cit., pp. 152-153.
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A. Giovagnoli, Le premesse della ricostruzione, op. cit., p. 18.
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immergersi in una “civiltà” estranea alla loro fondamentale visione della realtà, fondata su valori non omogenei con quelli cattolici e indirizzata verso obbiettiviche non coincidono con le loro finalità. Critici verso il capitalismo classico, che in Italia si confondeva con una visione paleocapitalistica ed arretrata come quella di Costa, sotto l’urgenza della lotta alla miseria e alla povertà, essi hanno visto in un rapido sviluppo capitalistico una strada efficace per giungere ad un rapido aumento della ricchezza e ad un miglioramento complessivo del tenore di vita e sono stati catturati dalle “ragioni” del capitalismo»42
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L’aumento della produzione e della ricchezza nel dopoguerra favorisce la diffusione di numerosi nuovi beni di consumo, che vanno dai semplici prodotti di bellezza, agli elettrodomestici, fino alle auto. Favoriti dalla pubblicità, in particolare quella televisiva, che ne accresce il desiderio, tali beni influenzano i comportamenti e gli stili di vita. Molti tra questi sono importati dagli Stati Uniti e svolgono una funzione centrale nella diffusione del modello americano, che diventa desiderabile per tanti. In diversi casi, questi beni svolgono soprattutto la funzione di alimentare sogni e desideri. Fino alla metà degli anni sessanta, infatti, è minima la percentuale degli Italiani che possono effettivamente permettersi un’auto o degli elettrodomestici. Tali beni rientrano, tuttavia, nell’orizzonte dei desideri di chiunque e ne definiscono le più comuni aspirazioni.
L’avvento della società dei consumi porta con sé novità anche sul piano del costume. In particolare, sono i ruoli sessuali tradizionali ad essere messi in discussione. Attraverso il cinema e un certo tipo di stampa femminile si afferma un nuova fisionomia della donna: una donna moderna, non più l’angelo del focolare dell’anteguerra subalterno all’uomo, ma una protagonista della società. Parallelamente i costumi sessuali diventano meno rigidi rispetto al passato. Le trasformazioni serpeggiano lentamente nella società, ma non producono un’evoluzione radicale. L’Italia resta un Paese profondamente tradizionale, con principi morali e regole sociali difficili da erodere. È così che, accanto ai segnali di cambiamento, in molti casi pubblicamente vituperati, sussistono schemi tradizionali rigidi, che bloccano una completa liberalizzazione del costume, come accade in altre realtà nazionali. Tutto ciò è favorito dalla forte influenza del Vaticano, rafforzata dal primo partito al potere che ne incarna i valori e i principi di riferimento43.
Il bagaglio ideologico e morale e, al contempo, il suo ruolo politico rendono non semplice la gestione del cambiamento da parte della DC. Da una parte, essa avverte la necessità di gestirlo e di non contrastarlo, in virtù della propria posizione di partito dominante. D’altra parte, però, è evidente come i valori della nuova società dei consumi, portata dal vento della trasformazione, fossero incompatibili con la visione del mondo cattolica. La DC si fondava su un modello di società agraria che era stato prevalente fino a quel momento in Italia. Diversamente, la società di massa e dei consumi, con la loro carica di materialismo, liberalizzazione dei costumi e secolarizzazione, rischiavano seriamente di minare quel modello di società e l’autorità
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Ivi, p. 449. Secondo Giovagnoli, diverso è, invece, l’atteggiamento verso il capitalismo manifestato dalla seconda generazione di democristiani, protagonisti, dopo la morte di De Gasperi, della fase politica post ricostruzione. Più vicini alla dottrina cattolica, critica verso il capitalismo, essi considerano quest’ultimo in chiave maggiormente ideologica. Da quest’atteggiamento nasce una volontà di ridimensionare l’iniziativa privata a vantaggio di un maggiore intervento della Stato in economia, secondo il modello del welfare state. L’obiettivo sociale resta quello della prima generazione: migliorare le condizioni di vita generali e contrastare la povertà. Se i democristiani della prima generazione, guidati da una spiccata spiritualità, intendono il capitalismo anche in termini di adattamento, spirito di sacrifico e sottomissione degli interessi personali a quelli della collettività, i loro successori, meno guidati da questa spiritualità, sono più sensibili alle esigenze del lavoratore, al suo diritto di non sottostare alle regole della produzione e, pertanto, propendono per un maggiore intervento dello Stato in economia, che garantisca più giustizia.
Ivi, pp. 454-455.
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cattolica che vi era stata fino ad allora imperante. Il partito di governo, nonostante le perplessità, comprende che la modernità per forza di cose non possa essere bloccata, ma vada guidata e governata. La DC, perciò, se ne fa interprete, mostrandosi, ancora una volta, capace di superare i propri orientamenti culturali d’origine e di adattarsi alle circostanze dettate dal presente. L’adattamento alla modernità avviene tentando di addomesticare il cambiamento, incanalandolo nella tradizione nazionale. Si vuole creare una sorta di modernità «italian way», che coniughi il desiderio di emancipazione sociale e culturale con la profonda identità nazionale. La volontà di gestire la modernità e di dare le giuste risposte alla società civile, d’altra parte, è manifestata dal progressivo avvicinamento, a partire dal 1956, della DC al PSI, che culminerà nel 1963 con la nascita del centrosinistra, ovvero la proposta politica del governo per riflettere al meglio i mutamenti in corso nel Paese.
Se la DC, a patto di qualche compromesso, si adegua alla grande trasformazione, il PCI assume una posizione meno conciliante. Il consumismo, l’individualismo e l’omologazione culturale dell’Italia del boom contrastano completamente col modello sociale comunista, fondato sulla collettività e sul rifiuto della massificazione. Agli stravolgimenti del miracolo economico, perciò, il PCI risponde con un bagaglio di convinzioni poco moderne, che si sarebbero rivelate ben presto sbagliate. Il partito vive nella prima metà degli anni sessanta una grave perdita di militanti, che, tuttavia, non si traduce in un’erosione dei consensi elettorali (alle elezioni del 1963 esso addirittura cresce, attestandosi sul 25,3% dei consensi). A ciò va aggiunta la posizione di isolamento in cui è costretto dopo la rottura col PSI e il confluire di quest’ultimo nel progetto del centrosinistra. A differenza della DC, che si presenta come promotrice della modernità, il PCI di quest’ultima mette in luce con enfasi gli aspetti negativi, abbracciando una tesi catastrofista di inevitabile crollo del capitalismo. Nello scenario economico italiano il Partito Comunista individua stagnazione, imminenza di una crisi, ma soprattutto contrasti tra le poche realtà di sviluppo e le restanti, numerose, di drammatica miseria. Manifestando l’adesione a modelli economici superati e ad un’idea di Italia poco moderna, il PCI propone una diversa ricetta di sviluppo, fondata sulla riforma agraria e sull’incremento della produzione nazionale, per arginare l’eccessivo peso dato alle esportazioni. L’obiettivo primario è dare centralità alla classe operaia, ancora intesa come destinata a ricoprire un ruolo egemone, a fronte di una realtà presente in cui, invece, essa era spesso penalizzata dai processi di sviluppo44. Se lo sviluppo economico viene definito monopolistico e ingiusto, la tentazione dei consumi, che non lascia indifferenti nemmeno i militanti comunisti, è rappresentata come una trappola, che priva di libertà colui che ne cade vittima. Il modello consumista si basa su un ventaglio di valori antitetici a quelli del comunismo. Il primo si fonda sull’individualismo, sull’accumulazione materiale e su un ideale di vita profondamente edonistico. A tali principi il PCI oppone la lotta comune e la solidarietà, la tensione ideologica, lo spirito rivoluzionario ed il sacrificio. Valori, tuttavia, sempre più appannati nelle coscienze dei militanti, che non restano immuni dalla conquista del benessere. Il miglioramento del tenore di vita spegne lo spirito di lotta e molti iscritti si allontanano dal PCI: il modello di contrapposizione sociale che esso propone, nei primi anni sessanta, sembra ormai decisamente superato. In linea generale, il Partito Comunista Italiano non sembra essere stato in grado di capire in profondità i cambiamenti verificatisi nel Paese. Tentativi di offrirvi delle risposte non mancano in
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questi anni, ma si rivelano insufficienti e, soprattutto, non accompagnati da una più ampia revisione della linea politica. Tutto ciò determina il progressivo calo degli iscritti ed una perdita della capacità di penetrazione nella società, ormai sempre più distratta al richiamo della lotta di classe45.