L’avvento della società di massa
IV.1 Lo sbarco del modello americano
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale L’Italia conosce una forte accelerata nella direzione della modernizzazione. Uscito dalla chiusura del regime, il Paese si affaccia e si conforma gradualmente ai dettami della società di massa, già a partire dagli anni quaranta. Un ruolo centrale in questo processo è svolto dagli Americani, che sin dal loro sbarco sulla penisola, nel 1943, diffondono beni, di consumo e culturali, e, con essi, valori e nuovi modelli di vita tra la popolazione. Questi segnali di modernità hanno facile presa sulla società: gli Italiani, disorientati per la fine di un’epoca politica, elettrizzati dal rinnovato clima di libertà e desiderosi di dimenticare i dolori della guerra, accolgono con entusiasmo l’ondata di novità che arriva d’oltreoceano. La necessità di buttarsi alle spalle le preoccupazioni degli anni precedenti è testimoniata dal rapido rifiorire nell’immediato dopoguerra di iniziative ed organizzazioni ricreative. La voglia di vivere prende corpo nelle tante attività del tempo libero praticate, dal ballo allo sport, dal cinema, al teatro, alla musica. La nuova atmosfera provoca anche una graduale ma costante liberalizzazione dei costumi. Cominciano ad essere scardinati i vecchi ruoli sessuali, in virtù di un nuovo protagonismo delle donne nella società. La ventata di cambiamento, si diceva, è favorita dall’arrivo degli Americani, che portano con sé i nuovi simboli della moderna società industriale. Il cibo, i medicinali, ma anche prodotti più insoliti, come lo scatolame, le calze e le gomme da masticare, creano il senso di un mondo di benessere, che appare da subito desiderabile per gli Italiani, usciti dagli stenti del regime e della guerra. Gli Stati Uniti, alimentando desideri di consumo, preparano il campo per la successiva colonizzazione del mercato italiano, che si avrà solo negli anni cinquanta. Solo allora, infatti, i miglioramenti economici consentiranno al Paese di sviluppare un proprio mercato di massa. L’obiettivo americano, tuttavia, non è solo fare dell’Italia uno dei propri partner commerciali. La strategia di conquista ha anche una finalità geopolitica: di fronte ai primi segnali di guerra fredda, gli USA lavorano per favorire un
posizionamento della penisola nel blocco occidentale da essi capitanato1.
I condizionamenti americani sulle scelte in politica economica appaiono decisivi e difficilmente eludibili da parte della classe dirigente italiana, dato lo status dell’Italia di Paese sconfitto. In particolare, gli USA impongono le proprie direttive nei settori del commercio estero, della politica finanziaria e dell’interventismo dello Stato in economia, forti di salde alleanze strette con alcuni gruppi industriali e col Vaticano, considerato dagli Americani decisamente più credibile rispetto allo Stato italiano. Gli obiettivi strategici sono evitare l’autonomia dell’Italia in campo economico e ripristinare «la piena libertà di iniziativa economica, sia sul piano internazionale che interno, in modo tale che, qualunque fosse l’indirizzo politico da essa prescelto, il mercato italiano venisse a trovarsi definitivamente nell’area economica dominata dalla
1
leadership americana»2. Difficile dire fino a che punto la classe dirigente italiana fosse consapevole di questi condizionamenti. De Gasperi, realisticamente, li vive inquadrandoli in una situazione di emergenza, di cui attende il superamento, che
avrebbe permesso all’Italia di riconquistare il completo autogoverno3. Questo
atteggiamento spiega perché, anche sul fronte della ricostruzione, il leader democristiano, pur sensibile ai temi delle riforme economiche per il Paese, rinunci alla proposta di una specifica politica in materia tutta italiana e lasci sostanzialmente carta bianca agli Americani, che impongono una linea chiaramente liberista. Essa, infatti, prevede una marginalizzazione dello Stato in favore di un maggiore spazio concesso all’iniziativa privata. Anche in questo caso, l’opzione liberista di De Gasperi, e quindi della classe di governo, più che essere frutto di propri convincimenti, sembra per lo più una risposta alle esigenze del momento, nutrita dalla consapevolezza che per l’Italia vi fossero minimi margini di autonomia nel compiere le proprie scelte. Si rimanda, allora, il tempo delle riforme ad una fase successiva all’emergenza attuale, in cui non è possibile sottrarsi al condizionamento americano. In attesa di un futuro diverso, l’obiettivo di breve periodo da raggiungere è dimostrare che la classe dirigente italiana sia ben disposta ad adeguarsi alle strategie geopolitiche degli Stati Uniti. È necessario, infatti, conquistarne la fiducia: gli Americani occupano ancora il Paese e, soprattutto,
promettono aiuti economici di cui c’è assoluto bisogno4.
Se l’adesione da parte della classe dirigente cattolica alle prescrizioni americane appare ineludibile sul piano pratico, lo è meno sul piano dei valori di riferimento evocati dal modello economico statunitense. I democristiani, in quanto uomini culturalmente vicini alla Chiesa, accolgono con atteggiamenti controversi, come d’altronde farà quest’ultima, le influenze e la ventata di cambiamenti portata dagli Americani nei settori economico e del costume. Infatti, da un lato, in virtù delle arretratezze italiane, gli Stati Uniti sono visti come modello di riferimento da inseguire per raggiungere la modernizzazione di cui si avverte l’esigenza. Dall’altro, però, dispiacciano dell’America l’eccessivo consumismo e l’attenzione sfrenata alla produzione, il materialismo e la libertà dei costumi, che appaiono inconciliabili con la cultura cattolica, imperniata sulla spiritualità, su un modello di società tradizionale, rurale piuttosto che industriale, e su regole di rigida moralità. Anche per queste ragioni la DC non può essere definita come il partito dell’America, nonostante le relazioni forti intessute nel dopoguerra col colosso d’oltreoceano5. Questo discorso vale per lo stesso Vaticano. I suoi rapporti con gli Americani s’infittiscono già durante la guerra, anche grazie alla forte autorevolezza, rispetto alla classe dirigente nazionale, acquistata dalla Chiesa agli occhi degli Stati Uniti, così come della popolazione italiana. Papa Pio XII, pur guardando con atteggiamento critico a certi segnali culturali provenienti dall’America, vede quest’ultima come un sostegno sicuro per combattere il proprio principale nemico, il comunismo. Durante la guerra, il Papa avvia una riflessione sulla democrazia e sulla sua importanza in quanto baluardo in difesa di una nuova catastrofe bellica. L’accettazione della democrazia, tuttavia, avviene in un disegno più ampio, che vede la Chiesa, in virtù dei valori di cui è espressione, nel ruolo di fautrice di un nuovo ordine internazionale:
2
Agostino Giovagnoli, Le premesse della ricostruzione. Tradizione e modernità nella classe dirigente cattolica del
dopoguerra, Milano, Nuovo istituto editoriale italiano, 1982, p. 250.
3
Ivi, pp. 250-251.
4
Ivi, pp. 266-267.
5
Angelo Ventrone, L’avventura americana della classe dirigente cattolica, in Pier Paolo D’Attorre (a cura di),
Nemici per la pelle. Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, Milano, Franco Angeli, 1991, pp.
«era la Chiesa, quindi, a dover farsi portavoce e promotrice dell’unica civiltà in grado di assicurare al mondo la pace e l’armonia: la “civiltà cristiana”»6. L’accettazione della democrazia nell’ambito di una supremazia dei valori cristiani conduce ad un atteggiamento critico da parte della Chiesa verso l’eccessiva fiducia nel progresso economico, che, secondo il Papa, accomunava il sistema capitalistico e quello sovietico. Perciò,
«Pur riconoscendo radici cristiane nel mondo occidentale, Pio XII non si stancò mai di denunciare l’“individualismo nazionale e statale”, la “cultura laica”, l’“umanesimo secolarizzato” che avevano portato all’ateismo e al totalitarismo. Che questi valori togliessero spazio e forza alla proposta “cristiana”, l’unica appunto su cui era possibile fondare, nelle convinzioni del pontefice, la convivenza umana, era avvertito chiaramente dal papa.»7
Tuttavia, nella lotta al comunismo l’alleato americano è indispensabile. Perciò, nonostante le pecche dei suoi modelli di vita, verso i quali vi è un chiaro progetto riformatore, l’Occidente guadagna l’adesione del Vaticano. Si tratta chiaramente di un’adesione funzionale agli scopi di contrasto dell’URSS perseguiti in quella fase dalla Santa Sede. Il distacco tra i modelli sociali e culturali della Chiesa e quelli americani resta, però, evidente. Pio XII non è in grado di comprendere le trasformazioni in corso nella società italiana del dopoguerra, che si avvia pian piano verso la modernizzazione. Questi cambiamenti sono perlopiù letti attraverso la dicotomia moralità-immoralità e attraverso schemi ormai superati. È la stessa concezione di società alla base del pensiero cattolico ad essere lontana dal modello che si va affermando. Nel Paese si diffondono ideali di ricchezza, aspirazione di benessere e una nuova libertà dei costumi. La Chiesa vi contrappone un modello di società rurale, fondata sui valori quali la semplicità, l’umiltà e il sacrifico, ancorata alla pietra angolare della famiglia, alla tradizione e permeata di spirito religioso8. La compenetrazione con la modernità avviene allora attraverso un’«apertura selettiva» ad essa: se ne accettano solo le componenti che non contrastano col bagaglio di valori e di ideali cattolici, nel tentativo di raggiungere l’agognato connubio tra progresso e tradizione, in grado di assicurare una nuova conquista cristiana della società9. Sotto accusa, invece, nelle parole delle gerarchie ecclesiastiche, finiscono il materialismo, l’edonismo e l’individualismo della civiltà moderna. Si potrebbe immaginare che, essendo gli Stati Uniti portatori di tali valori negativi, siano finiti anch’essi al centro delle critiche severe della Chiesa. In realtà, è stato notato, ciò non avviene, certamente in ragione dell’alleanza necessaria tra Vaticano ed USA. Così,
«Il “nemico” costituito dal materialismo teorico, dall’ateismo, dal totalitarismo rimanda ad una precisa ubicazione geopolitica; presenta, in altri termini, una chiara declinazione: ideologia comunista, Urss, Pci […]. Per converso il “nemico” della morale cristiana di volta in volta additato nel materialismo pratico, nel laicismo, nell’edonismo, nell’individualismo, nell’economicismo, nell’utilitarismo, nel neopaganesimo, nel liberalismo, nel progressismo, nel meccanicismo, nel consumismo, nell’ipersessualismo, nella modernolatria, in un tecnicismo esasperato, si rivela, alla fine, tanto sfaccettato da risultare indeterminato nelle sue coordinate geopolitiche. Questo “nemico” non individua un luogo del male (se non quello mitologico, irreale, costituito di immagini e celluloide che è Hollywood); quanto piuttosto un tempo: la modernità.»10
6 Ivi, p. 146. 7 Ivi, p. 147. 8 Ivi, pp. 147-149. 9 Ivi, p. 154. 10
La Chiesa e i cattolici, dunque, non si pronunciano mai apertamente contro gli Stati Uniti, preferendo addirittura ricorrere a perifrasi, dal carattere più indeterminato, per indicare i responsabili della diffusione di valori corrotti nella società moderna. Inoltre, il modello americano è fatto oggetto di critiche superficiali, che cioè riguardano il piano del costume e quindi della moralità; ma non si fa mai cenno alle degenerazioni del sistema capitalistico, che sono in contrasto coi principi cattolici. In tal senso, la condanna del modello americano non è mai totale, né potrebbe esserlo: il mito che esso evoca è uno strumento fondamentale in Italia per combattere l’influenza del
comunismo11. L’influsso del modello americano passa attraverso la mole di prodotti culturali diffusi
dagli Stati Uniti sin dallo sbarco in Italia durante la guerra. Gli Americani sono consapevoli che per veicolare e far sì che abbiano presa sul pubblico i valori di riferimento del proprio modello politico-economico occorra agire sul piano della mentalità. A tale scopo, essi invadono letteralmente il Paese con prodotti culturali, sia informativi che d’intrattenimento. Fra questi la parte del leone la fa il cinema, da sempre considerato l’arma più forte e, d’altro canto, una forma d’intrattenimento assai gradita agli Italiani, soprattutto nell’immediato dopoguerra, come dimostra la vertiginosa crescita del numero dei biglietti staccati. Da una parte arrivano cinegiornali e prodotti informativi, dall’altra, grazie all’abolizione delle norme protezionistiche di stampo fascista, i film d’intrattenimento hollywoodiani. Sono proprio i produttori americani, consapevoli dell’appetibilità del mercato italiano, a fare pressione, affinché siano eliminati i lacci e lacciuoli che fino a quel momento avevano imbrigliato il libero mercato. Nonostante i veti dei produttori italiani, le majors riescono ad avere la meglio e, nel giro di poco, sommergono la penisola come numerosissimi film, più o meno recenti12. L’obiettivo delle case di produzione americane è impedire una ripresa del cinema italiano, che si ritiene fortemente contaminato dal fascismo, e fare profitti riversando sulla penisola interi fondi di magazzino. Dalla loro i produttori statunitensi hanno il sostegno della Chiesa, disposta, nella nuova logica delle alleanze, a favorire i film americani, anche dovendo in alcuni casi mettere tra parentesi le proprie riserve
morali13. Attraverso le pellicole d’oltreoceano viaggiano divi, miti, immagini di
benessere, mode e nuovi stili di vita e di comportamento, che in breve hanno gran presa sul pubblico. Oltre che al cinema, tali messaggi di esaltazione del modello di vita americano passano attraverso i diffusi e popolari prodotti dell’editoria. Riviste, rotocalchi, letture di vario genere e fumetti si diffondono rapidamente, addirittura costringendo, in tanti casi, gli editori italiani ad adattarsi ai modelli comunicativi da essi veicolati.
Le preoccupazioni circa i valori diffusi dai prodotti di massa americani non emergono solo nel mondo cattolico. Ben presto esse si fanno vive anche tra i comunisti. Si teme per l’appiattimento del gusto, per l’omologazione culturale e per il far leva di questi prodotti sull’emotività, piuttosto che sulla razionalità del pubblico. Se ne rileva la bassa qualità culturale e lo spiccato carattere borghese. Ma, soprattutto, essi sono ritenuti responsabili, proponendo modelli di vita basati sull’edonismo e sull’individualismo, tipici di una società capitalistica, di debellare lo spirito di lotta della classe operaia, di alienarla, suggerendo «per i problemi della vita soluzioni individuali e private, e quindi
D’Attorre (a cura di), Nemici per la pelle, op. cit., p. 180.
11
Ivi, pp. 181-182.
12
S. Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca, op. cit., pp. 64-67.
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in contrasto con la fede nell’azione collettiva e nella solidarietà sociale»14, tipiche, oltre che del PCI, anche del mondo cattolico.
Nonostante le critiche, i militanti comunisti, non diversamente dal resto del popolo italiano, si mostrano permeabili ai prodotti di consumo e, quindi, ai valori della società di massa. Certe letture popolari, la passione per i film e per i miti hollywoodiani sono assai diffuse tra gli iscritti al PCI. Il partito, dunque, sarà costretto a scendere a compromessi con la società di massa e la sua cultura, a riconoscerle per evitare di perdere consensi tra i propri iscritti e simpatizzanti, che in quei modelli si rispecchiano. Deriva da qui un atteggiamento schizofrenico. Infatti, a livello di cultura alta, nel rapporto coi suoi intellettuali organici, il PCI manifesta rigore e intransigenza. Lo dimostrano, ad esempio, i giudizi severissimi dei critici di sinistra al film Riso amaro (1949) del regista comunista Giuseppe De Santis, accusato di aver contaminato con influenze provenienti dal modello americano il mondo popolare raccontato nell’opera. Diversamente, a livello di cultura popolare, il PCI manifesta più indulgenza verso i gusti del pubblico, non sempre allineati esclusivamente coi riferimenti ideologici comunisti. Ne sono prova i concorsi di bellezza organizzati dal periodico comunista «Vie Nuove» o durante le feste de «l’Unità» per eleggere la stellina de «l’Unità». Alle elette reginette di bellezza veniva garantito un salto nel mondo del cinema. Sarà anche stato vero che attraverso questi concorsi il partito mirava a lanciare un ideale di bellezza e femminilità italiane da contrapporre a quello americano. Tuttavia, è evidente come sulla stessa organizzazione di queste iniziative influissero miti e sogni hollywoodiani assai diffusi tra le giovani15. L’altalenare tra cultura alta e cultura bassa rappresenterà una costante, a partire dagli anni cinquanta in poi, per il PCI, che gli causerà non pochi imbarazzi. Significativo, a questo proposito, è un articolo del 1963 pubblicato su «Rinascita» di Umberto Eco. Riflettendo sulla cultura comunista, sui suoi limiti, ma anche sulle aperture in quella fase di grande cambiamento rappresentata dagli anni sessanta, lo studioso concentra la propria analisi proprio su questo paradossale dualismo. Eco, senza mezzi termini, dichiara come
«va riconosciuto con coraggio che il concetto di umanesimo sul quale fa leva buona parte della cultura di sinistra in Italia è ancora il concetto aristocratico borghese. Comecorrettivo vi viene collegato la vaga speranza che questi valori possano diventare patrimonio anche delle classi subalterne, un’ambigua speranza frammista alla paura che questo avvenga davvero e che di conseguenza i valori si deteriorino»16.
Da una parte, dunque, secondo il semiologo, vi è un riconoscimento nella cultura di massa di un altro universo di valori. Dall’altra, tuttavia, essendo esso declassato dalla cultura ufficiale umanistica, cara al PCI, come «universo di disvalori», non è realmente assimilato, ma solo «usato a titolo strumentale e narcotico»17. Con grande lucidità Umberto Eco riconosce i limiti della politica culturale comunista, divisa tra la necessità di difendere il patrimonio ideologico e l’immagine del PCI di partito della cultura e i gusti delle masse con cui vuole rimanere in contatto. Una condotta paradossale che rappresenterà una costante negli anni.
14
S. Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca, op. cit., p. 75.
15
Ivi, pp. 144-147.
16
«Rinascita», 5 ottobre 1963, cit. in Dario Consiglio, Il Pci e la costruzione di una cultura di massa. Letteratura,
cinema e musica in Italia (1956-1964), Milano, Edizioni Unicopli, 2006, p. 91.
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