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Il coordinamento con la nuova Direttiva copyright: il caso della pubblicazione online di articoli di giornale.

Il diritto dell’Unione e la responsabilità del provider

10. Il coordinamento con la nuova Direttiva copyright: il caso della pubblicazione online di articoli di giornale.

Fino a tempi recenti, il diritto europeo non prevedeva una disciplina ad hoc per la tutela del copyright contro le violazioni commesse in rete: mancava, cioè, l’anello di congiunzione tra la Direttiva e- commerce (e l’ormai consolidata disciplina della responsabilità degli ISP) e la materia del diritto di autore.

In verità, la Direttiva copyright (n. 790, 17 aprile 2019) – che interviene a colmare questo gap normativo – nasce soprattutto dalle pressioni del mondo dell’editoria: in particolare, da anni gli editori reclamavano una remunerazione per l’uso delle loro pubblicazioni giornalistiche da parte di piattaforme social e dei cosiddetti aggregatori di notizie. Il tema, dunque, era quella dell’indebita

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appropriazione di contenuti giornalistici da parte degli operatori della rete, i quali, appellandosi alla libertà di informazione, alla libertà di impresa e in generale a tutti i diritti (economici e non) riconosciuti dalla Direttiva e-commerce, pretendevano di pubblicare notizie tratte dalle più note testate nazionali senza tuttavia remunerare le rispettive case editrici.

In Spagna, peraltro, nel 2014, ben prima della Direttiva copyright, era già stata adottata una legge diretta ad introdurre una tutela economica per gli editori. Tuttavia, l’assenza di una regolamentazione uniforme a livello europeo, alimentava comportamenti abusivi da parte dei colossi della rete: emblematico è stato in proposito la reazione di Google, che preferì chiudere direttamente il servizio News sul territorio spagnolo piuttosto che pagare il compenso agli editori; e nel contempo poté tranquillamente continuare a svolgere lo stesso tipo di servizio (con gli stessi introiti di prima) sul territorio degli altri Stati membri.

Anche la Germania tentò, dal canto suo, di adottare una legge nazionale per tutelare gli editori: l’iniziativa però naufragò ben presto. A quel punto, i pesci piccoli del mondo della rete si accordarono con gli editori per il pagamento di 700.000 euro. Google, invece, si rifiutò di pagare e ottenne una licenza gratuita dagli editori tedeschi, minacciandoli – laddove non gliela avessero concessa – di deindicizzarli, cioè di farli sparire dalle ricerche. Stesso comportamento ha tenuto Google su “suolo” francese, dove però gli editori – meno accondiscendenti dei loro colleghi tedeschi – si sono rivolti all’autorità antitrust. Quest’ultima, all’esito del contenzioso, ha emesso una decisione dal sapere pilatesco: tale decisione infatti, si limitò a dire che Google avrebbe dovuto proporre agli editori francesi una qualche utilità economica (bastava che fosse maggiore di zero): la mancata previsione di una tariffa minima da parte dell’autorità ha avallato comportamenti dilatori e opportunistici del colosso californiano.

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Occorre precisare che il comportamento di Google non nasce da un semplice capriccio commerciale, ma si basa su una logica economica ben precisa. In particolare, Google si è sempre difesa affermando di rendere un servizio agli editori volta per volta interessati: servizio che consisteva nell’attirare la curiosità di chi naviga in rete così da indirizzarlo verso la pagina dell’editore contenente la pubblicazione per intero (e, questa, sì, a pagamento).

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Le tensioni emerse a livello europeo in punto di sfruttamento delle pubblicazioni giornalistiche da parte degli operatori della rete sono sfociate nell’attuale art. 15 della Direttiva copyright, significativamente collocato in apertura del Titolo IV, rubricato “Misure miranti a garantire il buon funzionamento del mercato per il diritto di autore”.

La norma prevede che gli Stati membri debbano riconoscere agli editori di giornali – stabiliti sul loro territorio82 – diritti economici per l’utilizzo online delle loro pubblicazioni da parte dei prestatori di servizi della società dell’informazione. Con tre eccezioni: a) in primo luogo, non spettano diritti economici nel caso in cui tali pubblicazioni vengano utilizzate in ambito privato o comunque a scopi non commerciali dai singoli utenti del servizio; b) in secondo luogo, la protezione accordata dalla norma non si applica ai collegamento ipertestuale; c) infine – previsione questa che ha destato molte perplessità e che con ogni probabilità non farà che aumentare il contenzioso – i diritti economici non si applicano “all’utilizzo di singole parole, o di estratti molto brevi di pubblicazioni di carattere giornalistico”.

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La libertà di stabilimento – regolata dagli artt. 49-55 del Trattato sul funzionamento dell’unione europea (TFUE) – prevede il diritto di svolgere “attività indipendenti di creare e gestire imprese” allo scopo di esercitare un’attività che sia permanente e continuativa.

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Va da sé che la disciplina di cui all’art. 15 della nuova Direttiva copyright è di primaria importanza per i prestatori di servizi della società dell’informazione, sotto due profili distinti ma complementari: i) il primo profilo di responsabilità nasce dalla violazione diretta dell’art. 15 ad opera dell’intermediario: è questo il caso in cui l’intermediario utilizzi la propria piattaforma per pubblicare un articolo di giornale o un suo estratto “non breve” senza negoziare con l’editore una contropartita economica.

ii) su un piano distinto ma collegato, si può poi ipotizzare una forma di responsabilità di secondo grado, che nasce dall’omesso controllo rispetto a violazioni commesse (questa volta) dagli utenti. Si pensi al caso in cui un famoso fashion blogger pubblichi sul proprio profilo un articolo di giornale senza aver prima acquisito il consenso dell’editore (e quindi senza avergli riconosciuto alcun corrispettivo economico): una simile violazione, certamente addebitabile al fashion blogger, potrebbe essere contestata anche nei confronti dell’intermediario della rete che fornisce al fashion blogger lo spazio virtuale dedicato al suo profilo. Responsabilità, questa, che tuttavia nasce da una condotta omissiva dell’intermediario e che quindi sarà integrata soltanto se non ricorreranno le condizioni previste dalla Direttiva e-commerce per l’esonero dell’hosting provider.

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Sezione II

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