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Responsabilità degli ISP e limiti esterni: la tecnica del bilanciamento tra libertà tutelate nella giurisprudenza della Corte

di Giustizia dell’Unione Europea.

A partire da queste prime considerazioni sulle ragioni di estendere al provider una responsabilità di secondo grado, è possibile introdurre un altro concetto importante.

Si tratta del bilanciamento tra diritti o interessi.

Il bilanciamento è una tecnica di soluzione di conflitti molto utilizzata nell’ambito della giurisprudenza europea.

Noti sono i casi in cui i giudici europei hanno dovuto bilanciare la libertà di impresa con interessi di rilievo pubblicistico come ad esempio la tutela dell’ambiente o della salute dei cittadini. O i casi in cui la libertà di impresa è stata bilanciata con gli interessi dei consumatori. E infine i casi in cui la libertà di impresa è entrata in contrasto con gli interessi dei lavoratori.

Sotto quest’ultimo profilo, hanno lasciato il segno le famose sentenze della CGUE rese in relazione ai casi Viking e Laval36.

Nel primo caso (caso Viking), riguardante una compagnia di navigazione finlandese che voleva assumere per una delle proprie navi la bandiera dell’Estonia e un’azione collettiva promossa da un’organizzazione sindacale che ostacolava l’iniziativa della società, ritenuta contraria agli interessi dei lavoratori iscritti, la Corte ha affermato che la tutela dei lavoratori costituisce un legittimo interesse idoneo a giustificare restrizioni ad una libertà fondamentale (e ciò, sul presupposto che l’obiettivo della tutela e del miglioramento delle condizioni di lavoro dei lavoratori marittimi rappresenti una ragione imperativa di interesse generale)37. Il profilo che più di tutti è degno di

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Sul punto v. B.BRANCATI, Il bilanciamento tra diritti sociali e libertà

economiche in Europa. Un’analisi di alcuni importanti casi giurisprudenziali, 2015, consultabile online, pp. 55 ss.

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Fermo resta che, per considerare giustificata l’azione collettiva, occorre che essa sia effettivamente rispondente all’obiettivo di tutela: non sarebbe così –

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nota è il seguente: la Corte, in quest’ambito, ha fatto applicazione del metodo del bilanciamento autoassegnandosi una competenza che le fonti europee sembrerebbero riservare ai diritti nazionali (la competenza a legiferare in materia di sciopero e di contrattazione collettiva): e, per farlo, ha dovuto “estrapolare” dallo specifico diritto in questione (il diritto dei lavoratori di auto-organizzarsi per meglio difendere i propri interessi) un diritto fondamentale meritevole di protezione anche a livello europeo (e, allora sì, suscettibile di bilanciamento con altro diritto di pari rango riconosciuto dalle fonti sovranazionali)38.

Anche in materia di libertà di impresa e salute pubblica sono noti casi giurisprudenziali di bilanciamento tra interessi: uno dei più recenti è il caso Ilva, approdato anche a livello europeo (sia di fronte alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sia di fronte alla Corte EDU). E si tratta di un caso – solo questo è importante osservare – in cui la Corte Costituzionale Italiana (ma lo stesso deve dirsi della giurisprudenza europea sulla medesima vicenda giudiziaria) ha ribadito a chiare lettere che «nessun principio o diritto riconosciuto dalla Costituzione, anche se essa lo definisce (com’è il caso del diritto alla salute) come “fondamentale”, deve essere considerato assoluto e di per sé dice la Corte – se si accertasse che i posti e le condizioni di lavoro non sono compromessi o seriamente minacciati; inoltre, una volta riscontrata la seria minaccia per la tutela dei lavoratori, per la Corte occorre verificare anche se l’azione intrapresa sia adeguata per raggiungere l’obiettivo e non vada al di là di ciò che è necessario per conseguirlo: in particolare, il giudice deve verificare se il sindacato disponga di mezzi meno restrittivi della libertà di circolazione e se li abbia adoperati, prima di giungere a operare una certa azione collettiva.

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Lo stesso è avvenuto anche nel caso Laval, riguardante un’impresa lettone che voleva distaccare dei lavoratori in Svezia e un sindacato (svedese) che tentava di imporre all’impresa la previsione – per i lavoratori distaccati – di garanzie equivalenti a quelle riconosciute per i lavoratori svedesi: qui la Corte, ravvisando un pericolo per le libertà europee in materia di circolazione dei servizi, ha ritenuto di negare al contratto collettivo operante per i lavoratori svedesi un’efficacia ultra partes, tale cioè da estendersi ai lavoratori lettoni; diversamente, non si sarebbe tenuto conto delle ragioni dell’impresa lettone e del suo legittimo interesse a stimare in via preventiva i costi del lavoro. Anche la sentenza Laval ha fatto applicazione, sia pure in modo particolare, della tecnica di bilanciamento tra interessi, qui soprattutto nella prospettiva di una adeguata tutela delle libertà europee in materia di circolazione dei servizi.

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prevalente, perché tutti i “diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca” e sono perciò soggetti al bilanciamento»39.

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Ora, anche in relazione alla materia della responsabilità del provider è possibile notare – lo si riscontrerà soprattutto nel Terzo capitolo – come la sua attuazione ad opera della Corte di Giustizia faccia largo uso del bilanciamento tra interessi, in assenza di gerarchie prestabilite tra diritti o valori40.

In effetti, tracciare una zona di safe harbour per l’intermediario della rete, stabilire cioè quali sono i presupposti al ricorrere dei quali il soggetto leso da un illecito online può domandare il risarcimento del danno (a titolo di culpa in vigilando) allo stesso Internet Service Provider e quando invece l’intermediario è esente da responsabilità, significa bilanciare interessi e libertà che godono di analoga protezione a livello di fonti normative. Da una parte, c’è la libertà di impresa del provider, che rischierebbe di risultare compromessa se i doveri di controllo sul comportamento degli utenti dovessero estendersi oltre ogni criterio di ragionevolezza o in ogni caso oltre la soglia di sostenibilità dei relativi costi organizzativi. Dall’altra parte, c’è un catalogo eterogeneo (e difficilmente determinabile a priori) di interessi e libertà che possono essere violati dai comportamenti degli utenti.

Un compito simile risulta davvero arduo, soprattutto nel contesto storico attuale. E le ragioni di questa difficoltà sono principalmente due.

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La citazione è di R. BIN, Giurisdizione o amministrazione, chi deve prevenire i reati ambientali? Nota alla sentenza “Ilva”, in Giurisprudenza costituzionale, 2013, p. 1505.

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Cfr. S. SCUDERI, La responsabilità dell’internet service provider alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea (causa C-610/15, 14 giugno 2017), in Diritto Mercato Tecnologia, 30 luglio 2018, p. 9.

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La prima è che spesso il giudizio di responsabilità del provider mette in scena un contrasto tra due diritti che presentano potenziali profili di incompatibilità: il diritto alla libera manifestazione del pensiero e la dignità o l’onore (personale ma anche commerciale) di un determinato soggetto, persona fisica o giuridica. Al riguardo, possono soccorrere i criteri elaborati dalle giurisprudenze nazionali in materia di diffamazione. Ma in realtà, poi, il problema dipende in larga parte dal modello culturale vigente.

A titolo di esempio, si può considerare l’evoluzione storica della disciplina italiana in materia di concorrenza sleale.

Essa infatti insegna che, all’indomani dell’entrata in vigore del codice del 1942, la diffusione di messaggi screditanti su un concorrente era ritenuta di per sé illecita, a prescindere dalla verità della notizia diffusa, sulla base della cosiddetta teoria del consumatore sovrano: l’idea era che il consumatore dovesse maturare autonomamente un suo giudizio e una sua opinione sui prodotti e sui servizi di un determinato imprenditore, senza essere influenzato dalle notizie dei concorrenti. Oggi quest’impostazione è stata abbandonata, ed esiste una generale tolleranza verso forme di pubblicità comparativa (perlomeno se rispettose di certi requisiti): al posto della teoria del consumatore sovrano, ha preso piede la teoria del consumatore consapevole, che fa perno sull’esigenza di stimolare la diffusione di notizie su tutti gli imprenditori che si propongono sul mercato, in modo da orientare i consumatori e consentire l’assunzione di scelte di acquisto razionali e ponderate.

Ma, come si accennava poco fa, c’è una seconda ragione che rende ardua l’operazione di bilanciamento tra interessi quando si parla di ISP e illeciti online.

La ragione è che, in una rilevantissima parte dei giudizi di responsabilità del provider, come si avrà modo di constatare nell’ultimo capitolo, le libertà che si contendono il campo – ai fini del

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relativo bilanciamento – sono libertà che fanno capo, entrambe, a soggetti “forti”.

La controversia, spesso, è tra un soggetto “forte” e un altro soggetto “forte”. Emblematico è ad esempio il caso della violazione – in rete – dei diritti di privativa connessi alla titolarità di un marchio o altro segno distintivo. Qui la tensione è tra la libertà di impresa del provider e i diritti di utilizzazione economica derivanti dalla registrazione di una privativa. E spesso a scontrarsi sono “colossi” dell’economia mondiale.

Proprio da questo nasce la difficoltà di bilanciare gli interessi in gioco: oltre ad essere interessi di pari rango, dunque meritevoli dello stesso grado di protezione, sono interessi che fanno parte di uno stesso universo culturale: la cultura liberale, di matrice ottocentesca (la cultura – per intendersi – che fa da sfondo all’art. 3, comma 1, della nostra Costituzione).

Questo significa che l’operazione di bilanciamento è ancora più delicata: il giudice non potrebbe – nemmeno se volesse – far prevalere un diritto sull’altro sulla base di una determinata ideologia socio- politica (ad esempio sulla base di una sua adesione innata ad un modello culturale socialista anziché liberale). Qui la libertà di fare impresa non si scontra con i valori del welfare state, ma spesso entra in contrasto con un’altra libertà di fare impresa.

Ciò costituisce un fattore di complicazione nel momento in cui si tratta di definire un approccio normativo al problema. Ma anche nel momento in cui un giudice – come ad esempio la Corte di Giustizia dell’Unione Europea – è chiamato a concretizzare la regola enunciata dalla Direttiva e-commerce o la corrispondente regola di diritto nazionale. Nel senso che qui l’individuale libertà di fare impresa non produce esternalità negative su interessi diffusi, sulla collettività nel

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suo insieme o anche soltanto su categorie di soggetti deboli (i lavoratori, i consumatori)41.

Qui lo scontro è tra “titani”: ma allora il rischio è che l’idea di addossare all’imprenditore i rischi derivanti dall’attività esercitata in base a opzioni di optimal deterrence, least-cost avoiding o efficient risk bearing potrebbe essere ribaltata contro il soggetto leso dall’illecito online: un colosso industriale vittima di una contraffazione online – si potrebbe dire – deve annoverare tra i “costi” della sua attività le perdite derivanti da contraffazioni del marchio di cui è titolare e con cui distingue agli occhi del pubblico i suoi prodotti o servizi.

Si tratta di conclusioni estreme e sicuramente infondate dal punto di vista giuridico. Ciò che si è voluto dimostrare è soltanto il fatto che qui l’elemento ideologico aiuta poco o nulla: non può certo essere l’adesione alla causa dei più “deboli” la ragione per la quale un giudice condannerà un provider al risarcimento dei danni per culpa in vigilando, ma dovranno al contrario essere chiari i passaggi del ragionamento ed estremamente precisi i parametri su cui si fonda la responsabilità.

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CAPITOLO II

La responsabilità degli ISP nel quadro del diritto europeo e

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