• Non ci sono risultati.

La tutela del marchio sul web: Caso Google.

La giurisprudenza europea

1. La tutela del marchio sul web: Caso Google.

Nonostante l’espressione sia ricorrente, non esiste un caso Google, ma esistono diversi casi Google, tutti riguardanti profili di potenziale responsabilità risarcitoria del prestatore di servizi della società dell’informazione.

In particolare, in questa sede si farà riferimento a tre controversie del 2003, che sono state riunite dalla Corte di Giustizia nel 2010.

1) La prima controversia era tra Google France SARL e Louis Vuitton Malletier SA. Accadde che il noto brand di accessori di lusso scoprì che, se un utente avesse voluto ricercare il proprio marchio – “Louis Vuitton” – all’interno di Google Search, sarebbero comparsi annunci e link con prodotti Louis Vuitton contraffatti.

2) Anche la seconda controversia era tra Google France SARL e Viaticum SA. Qui, la controversia aveva ad oggetto marchi relativi a servizi destinati all’organizzazione di viaggi (che venivano offerti da Viaticum SA). La società, come nella controversia precedente, apprese che, inserendo il “nome” dei propri marchi nel motore di ricerca di Google, comparivano pubblicità e link di società concorrenti che sponsorizzavano gli stessi servizi di organizzazione di viaggi117. 3) L’ultimo caso vedeva contrapposti Google France SARL e il Centre national de recherche en relations humaines (CNRRH) SARL (con il litisconsorzio di altri soggetti: il Sig. Pierre-Alexis Thornet, il Sig. Bruno Raboin, Tiger SARL). Il sig. Thornet, titolare del marchio

117

Anche il Trib. di Napoli, 8 agosto 1996 (in Dir. inf e inf., 1997, 970, e in Riv .dir. ind., 1999, II, 38), ha affermato la responsabilità del provider per aver consentito ad un suo utente di aver tenuto un comportamento illecito, più precisamente per avergli permesso la diffusione in rete di messaggi promozionali contenenti nomi e marchi appartenenti a società concorrenti.

101

Eurochallenge relativo a servizi di agenzia matrimoniale, aveva dato in licenza alla società CNRRH lo svolgimento materiale dell’attività. il Sig. Thornet contestava a Google la stessa condotta illecita dei casi n. 1 e 2, perché, inserendo in Google Search la parola “eurochallenge”, comparivano link che sponsorizzavano servizi della società concorrente del sig. Raboin e di Tiger SARL.

Rispetto agli altri casi finora trattati, queste controversie non hanno ad oggetto il diritto di autore ma la tutela del marchio.

Prima di parlare della vicenda, occorre dire che Google prevede la possibilità per gli operatori economici di richiedere un servizio a pagamento (c.d. AdWords), cioè un servizio di posizionamento che consente loro di far apparire sulla pagina un link pubblicitario che porta al proprio sito mediante la digitazione di una o più keywords da parte degli utenti. Il link pubblicitario appare tra i “link sponsorizzati”, ed è accompagnato da un breve messaggio commerciale118.

Ciò premesso, gli attori dei tre processi avevano contestato a Google France il fatto di aver inserito parole-chiave corrispondenti ai marchi di loro titolarità nella sezione dei “link sponsorizzati” di cui al sistema AdWords, che collegavano a siti diversi, cioè a siti di società concorrenti che imitavano gli accessori di lusso (nel caso Louis Vuitton) oppure che offrivano servizi concorrenti (nel caso della Viaticum e del Sig. Thornet).

I giudici francesi di primo e secondo grado avevano condannato Google per contraffazione di marchio. Google France aveva fatto ricorso alla Cour de Cassation119, dinnanzi alla quale le tre cause

118

Il pagamento – lo si anticipa sin d’ora (e lo si vedrà meglio a breve, sulla base dell’analisi del testo della sentenza della CGUE) – è previsto in base ad una somma calcolata in funzione del “prezzo massimo per click” e del numero di selezioni compiute dagli utenti.

119

La Corte francese si è trovata ad affrontare altri due casi rilevanti ai nostri fini. Il primo caso del 2008, con sentenza del 17 febbraio 2011, vedeva come protagonista la società Bloobox-net la quale aveva creato un sito web sul quale erano state divulgate notizie ritenute poi diffamatorie (era stata pubblicata la seguente affermazione: “Kylie M. e Oliver M. di nuovo insieme, e forse presto ancora innamorati” con il titolo “Kylie M. e Oliver M. ancora innamorati, insieme a

102

venivano riunite (in ragione del fatto che tutte e tre avevano in comune la medesima questione giuridica). E la Suprema Corte francese decise di sospendere il giudizio e proporre ricorso in via pregiudiziale alla CGUE.

In particolare, il giudice francese chiedeva se l’art. 14 della Direttiva e-commerce dovesse essere interpretato nel senso che un servizio di posizionamento su Internet costituisca un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite dall’inserzionista, «di guisa che tali dati sono oggetto di un’attività di hosting ai sensi di tale articolo e che, pertanto, non è possibile ravvisare una responsabilità del prestatore del servizio di posizionamento prima che egli sia stato informato del comportamento illecito di detto inserzionista»120.

La Vuitton, la Viaticum e la CNRRH sostenevano che un servizio di posizionamento quale AdWords non potesse considerarsi un servizio della società dell’informazione, con la rilevante conseguenza che il prestatore di un tale servizio non avrebbe potuto accedere alle esenzioni o limitazioni di responsabilità previste dall’art. 14. La Google e la Commissione europea sostenevano il contrario.

Parigi”), accompagnate anche da un hyperlink che rimandava all’articolo pubblicato sul sito web www.celebrities-stars.blogspot.com. A tal proposito, la Corte stabilì che la società Bloobox-net essendosi solo limitata a strutturare e classificare le informazioni messe a disposizioni degli utenti, non poteva essere ritenuta responsabile perché non aveva avuto conoscenza e non aveva monitorato i dati immagazzinati sul sito. Dunque, venne esclusa la responsabilità del provider perché non aveva avuto un ruolo attivo nella vicenda (beneficiava della limitazione di responsabilità prevista dall’art. 6 della legge LCEN).

L’altro caso, del febbraio 2011, riguardava la mancata rimozione, in seguito ad una diffida con la quale si era notificato l’illecito, del film francese “Joyeux Noel” dal sito www.dailymotion.com della stessa società. Qui, la Corte si era soffermata sull’idoneità della diffida e cioè se fosse idonea a costituire l’obbligo in capo al provider di rimozione del materiale (in base a quanto detto dalla Corte, la diffida doveva contenere tutte le informazioni richieste dalla legge LCEN). Pertanto, ribadendo ciò che era già stato detto dalla Corte d’Appello, disse che le informazioni contenute nella diffida erano insufficienti per adempiere all’obbligo di rimozione e quindi la Dailymotion non poteva essere accusata di non aver rimosso il contenuto illecito.

120

103

La Corte di Giustizia fece ruotare la propria decisione intorno all’applicazione dell’art. 14 della Direttiva e-commerce, che – come si è visto – escludeva ed esclude la responsabilità del provider quando non ha avuto effettiva conoscenza dell’attività illecita o di fatti che la rendano manifesta.

La questione della responsabilità fu molto delicata perché bisognava innanzitutto verificare quale fosse l’attività effettivamente svolta da Google e, solo dopo, sarebbe emerso il ruolo che il provider assumeva in Internet.

Un tale profilo, trattandosi di un profilo di fatto (e non di diritto), fu lasciato dalla CGUE al libero apprezzamento della Corte nazionale. Tuttavia, la CGUE si preoccupò di dettare una serie di linee-guida che il giudice francese avrebbe poi dovuto seguire nell’accertamento dei fatti di causa. In particolare, la Corte stabilisce che:

i) il legislatore europeo ha definito la nozione di servizio della società dell’informazione includendovi i servizi prestati a distanza mediante attrezzature elettroniche di trattamento e di memorizzazione di dati, a richiesta individuale di un destinatario di servizi e, normalmente, dietro retribuzione121; ii) il servizio Ad-Words consente a qualsiasi operatore economico

di far apparire un link pubblicitario verso il suo sito mediante la selezione di una o più parole-chiave, qualora tale o tali parole coincidano con quella o quelle contenute nella richiesta indirizzata da un utente di Internet al motore di ricerca. Il link pubblicitario appare dunque nella rubrica «link sponsorizzati», visualizzata sia sul lato destro dello schermo, a destra dei risultati naturali, sia nella parte superiore dello schermo, al di sopra dei risultati. Il link pubblicitario è accompagnato da un breve messaggio commerciale: link e messaggio pubblicitario costituiscono, insieme, l’annuncio destinato ad essere

121

104

visualizzato nella rubrica. L’inserzionista è tenuto a pagare il servizio di posizionamento per ogni selezione del link pubblicitario, e ciò in base al «prezzo massimo per click» che, al momento della conclusione del contratto di servizio di posizionamento con Google, l’inserzionista ha dichiarato di essere disposto a pagare, e in base al numero di click sul link da parte degli utenti di Internet122;

iii) un elemento importante – ai fini della ricostruzione del servizio – è il fatto che Google ha messo a punto un processo automatizzato per consentire la selezione di parole-chiave e la creazione di annunci. Gli inserzionisti – precisa la CGUE – selezionano le parole-chiave, redigono il messaggio commerciale e inseriscono il link al loro sito123;

iv) una simile configurazione del servizio non può essere ritenuta estranea ai contorni della fattispecie presa in considerazione dall’art. 14 Direttiva e-commerce124

;

v) le deroghe alla responsabilità previste da tale Direttiva riguardano esclusivamente i casi in cui l’attività di prestatore di servizi della società dell’informazione sia di ordine «meramente tecnico, automatico e passivo», con la conseguenza che detto prestatore «non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate»125. La conseguenza è che, per verificare se la responsabilità del prestatore del servizio di posizionamento possa beneficiare della limitazione prevista dall’art. 14 della Direttiva e-commerce, occorre esaminare«se il ruolo svolto da detto prestatore sia neutro, in quanto il suo comportamento è meramente tecnico, automatico

122 Causa C-236/08, parr. 23, 24 e 25. 123 Causa C-236/08, par. 27. 124 Causa C-236/08, par. 110. 125 Causa C-236/08, par. 113.

105

e passivo, comportante una mancanza di conoscenza o di controllo dei dati che esso memorizza126;»

vi) la comunicazione di suggerimenti in ordine alla redazione del messaggio pubblicitario, il fatto che il servizio fosse retribuito e la “politica di remunerazione” contrattualmente prevista non debbano essere presi in considerazione dal giudice nazionale, trattandosi di elementi o fattori inespressivi – in sé e per sé considerati – di un ruolo attivo del provider127;

vii) al contrario, avrebbero dovuto assumere rilievo determinante (ai fini della configurazione di un ruolo attivo in capo a Google) le seguenti circostanze: i) da un lato, la redazione attiva del messaggio; ii) dall’altro lato, la selezione delle parole-chiave128.

2. (Segue) il caso eBay vs L’Orèal

La sentenza che ha definito la controversia tra il colosso eBay e l’altro colosso L’Orèal è stata pronunciata nel 2009 – anno successivo a quella del caso Google – ed ha anch’essa ad oggetto la tutela del marchio.

La società L’Orèal SA – conosciutissimo brand che produce e commercializza profumi, prodotti per capelli e cosmetici – insieme ad altre parti129 ha agito contro la eBay International AG, altrettanto nota per gestire il più famoso portale di aste online, dunque – nell’ottica 126 Causa C-236/08, par. 114. 127 Causa C-236/08, parr. 115 e ss. 128

L’elaborazione da parte della giurisprudenza europea di una nuova figura di provider attivo (Corte di Giustizia UE, sentenza del 23 marzo 2010, cause riunite da C-236/08 a C-238/08, Google France & Google Inc. e altri c. Louis Vuitton Malletier) è stata poi recepita – anche se con qualche incertezza – da quella italiana: Trib. Torino, 23 giugno 2014 e App. Milano, 7 gennaio 2015.

Comunque meno innovativo appare invece quanto statuito in riferimento al comportamento del provider successivo alla conoscenza dell’illecito: un profilo, questo, su cui del resto già si era formato un consolidato orientamento giurisprudenziale.

129

Le altri parti sono: Lancôme parfums et beauté & Cie SNC, Laboratoire Garnier & Cie e L’Oréal (UK) Ltd.

106

che ci interessa – un vero e proprio mercato elettronico: in esso, gli utenti che si sono iscritti al sito attraverso la creazione di un account vendono – mediante annunci – prodotti di ogni tipo e, di conseguenza, la eBay riscuote una percentuale sulle operazioni effettuate. La L’Orèal riteneva che fosse stato violato il suo diritto di marchio attraverso la vendita di prodotti contraffatti ed articoli non destinati alla vendita sul sito. E imputava ad eBay l’aver agevolato o in ogni caso non impedito una simile violazione del segno distintivo.

Ora, nel suo ruolo di portale di aste online, eBay consente ai propri potenziali acquirenti di partecipare ad un’asta sugli oggetti dei suoi utenti-venditori oppure attraverso un sistema (c.d. «Compralo subito») che permette di vendere oggetti senz’asta, e quindi a prezzo fisso. Inoltre, per i venditori è prevista la possibilità di creare anche «negozi online» sul sito stesso130. E, nei casi in cui lo ritiene necessario, eBay offre alcuni servizi: aiuta gli utenti-venditori ad ottimizzare le loro offerte, a creare – appunto – i loro negozi online, a promuovere e ad aumentare le loro vendite; pubblicizza persino alcuni prodotti attraverso l’inserzione (che ne consente la successiva visualizzazione ad opera di chi “naviga” in rete, anche e soprattutto per scopi diversi) di annunci su motori di ricerca, come per esempio Google.

È importante sottolineare che tutti i venditori e tutti gli acquirenti sono tenuti ad accettare le condizioni d’uso del mercato online fissate da eBay, tra cui rientrano: il divieto di vendita di oggetti contraffatti e di arrecare pregiudizio a marchi131.

Restava da comprendere se un simile impegno, assunto dai potenziali venditori mediante l’adesione al “modulo” predisposto da eBay per la fruizione del servizio, fosse misura sufficiente ad escludere in capo a eBay una posizione di garanzia rispetto a condotte contraffattorie.

130

“Un negozio di questo tipo offre tutti i prodotti proposti da un venditore in un determinato momento”, v. causa C-324/09 par. 29.

131

107

La High Court of Justice decise di sospendere il procedimento e di sottoporre alla CGUE diverse questioni. Le questioni che a noi interessano di più sono le questioni che riguardano la responsabilità del provider; e cioè:

1) innanzitutto, se il servizio fornito dal gestore di un mercato online rientrasse nell’ambito di applicazione dell’art. 14 della Direttiva e-commerce;

2) e, in caso di risposta affermativa, in quali ipotesi si può ritenere che eBay sia effettivamente a conoscenza dell’illecito. Prima di analizzare le due questioni pregiudiziali sottoposte alla CGUE, occorre dire che – come nella sentenza Google France – sono stati forniti alcuni elementi (che vedremo tra poco) da considerare nell’ambito di un giudizio nazionale. La CGUE si è – prima di tutto – occupata di altre questioni:

1. ha stabilito che il servizio offerto da eBay rientra nell’ambito dell’host providing. Più in generale, ha rilevato che – ai fini della Direttiva 2000/31 – si tratta di un servizio su Internet che consiste nell’agevolare i rapporti tra i venditori e gli acquirenti e può costituire, in linea di principio, un «servizio della società dell’informazione» ai sensi della Direttiva stessa. Del resto, sempre la Direttiva parla di “servizi della società dell’informazione” e in particolare di commercio elettronico e, se gli elementi della fattispecie “servizio della società dell’informazione” sono da individuarsi nella prestazione a distanza e “attraverso apparecchiature elettroniche destinate al trattamento e alla conservazione di dati”, nel carattere normalmente retribuito del servizio e nel fatto che esso venga esercitato dall’intermediario su richiesta individuale degli utenti, ne deriva che tutti questi elementi caratterizzano senza dubbio anche “l’operazione di un mercato online”132;

132

108

2. ha rilevato che eBay svolge un’attività di memorizzazione sul proprio server dei dati forniti dai suoi clienti e che questa si ha ogni volta che un cliente apre un account e le fornisce i dati sulle proprie offerte in vendita. Però, il fatto che questo servizio comprenda la memorizzazione di informazioni, che sono trasmesse dai suoi utenti-venditori, non è di per sé sufficiente per concludere che il servizio rientri – sempre e comunque – nell’ambito di applicazione dell’art. 14 della Direttiva e-commerce: disposizione, questa, che – precisa la Corte – dev’essere interpretata non solo secondo i canoni dell’interpretazione letterale, ma anche e soprattutto in relazione al suo contesto e agli scopi perseguiti dalla normativa di cui essa fa parte (c.d. canone dell’interpretazione teleologica e dell’interpretazione sistematica);

3. ha precisato che, per considerare il prestatore di un servizio su Internet riconducibile all’ambito di applicazione dell’art. 14 della Direttiva 2000/31, è necessario che egli sia un «prestatore intermediario» nel senso inteso dal legislatore nell’ambito della Sezione Quarta del Capo II della stessa Direttiva; e che così non è «allorché il prestatore del servizio, anziché limitarsi ad una fornitura neutra di quest’ultimo, mediante un trattamento puramente tecnico e automatico dei dati forniti dai suoi clienti133».

Fatte queste premesse, che definiscono il quadro concettuale di riferimento tenuto presente dalla Corte, è possibile procedere all’esame delle linee-guida definite dalla medesima CGUE per indirizzare l’operato delle Corti nazionali.

133

Sui quattro punti sopra menzionati si vedano anche la Sentenza Google France e Google, cit., punti 114 e 120 e la causa C-324/09, parr. 111-113. Occorre aggiungere che, come nel caso Google France, la CGUE ha lasciato alla Corte nazionale inglese il compito di definire il funzionamento del provider, con lo scopo di verificare effettivamente se – come richiesto dalla norma – avesse mantenuto un profilo neutrale.

109

In riferimento alla prima questione, la CGUE ha preso posizione sia in negativo che in positivo. Cioè, da un lato, ha indicato quali fatti non rilevano ai fini della determinazione di un ruolo attivo del provider, e dall’altro lato si è preoccupata di indicare una serie di circostanze che invece assumono rilevanza a tale scopo.

I fatti irrilevanti sono i seguenti: 1) prima di tutto, il fatto che il provider memorizzi sui propri server le offerte in vendita; 2) poi, il fatto che siano state stabilite modalità specifiche di erogazione del servizio e che il servizio sia a pagamento; 3) infine, il fatto che il provider fornisca informazioni ai clienti-venditori134.

Invece, ha ritenuto circostanza rilevante per determinare un ruolo attivo del provider la prestazione dei servizi aggiuntivi offerti da eBay ai clienti-venditori135: servizi che sono stati ricordati sopra e che costituiscono – come si è visto – prestazioni ausiliarie, idonee a promuovere le vendite (mediante la creazione di veri e propri negozi virtuali e l’inserzione di annunci sui motori di ricerca) e più in generale capaci di ottimizzare le offerte. Sotto questo profilo, la sentenza della Corte si allinea a quanto stabilito nel precedente caso Google France, fornendo un ulteriore contributo alla definizione dello statuto dell’hosting provider attivo.

Più interessante e innovativo è invece il contributo dato dalla CGUE nel rispondere al secondo quesito. Infatti, nel precedente caso Google France la Corte non aveva preso posizione sulla definizione di “conoscenza” di cui alla lettera a) e b) dell’art. 14 della Direttiva, lasciando sprovviste le corti nazionali francesi di linee-guida per la determinazione della controversia.

D’altra parte, la Direttiva, come si è visto nel Secondo capitolo, si limita a precisare che, a prescindere dalla posizione di neutralità verso il materiale ospitato, l’intermediario può comunque essere ritenuto responsabile al ricorrere di due elementi: i. se è effettivamente a

134

Causa C-324/09, par. 115.

135

110

conoscenza dell’attività illecita o – comunque – se sussistono elementi oggettivi che rendono manifesta la conoscenza136; ii. se, dal momento in cui è venuto a conoscenza della violazione, non è intervenuto prontamente per rimuoverlo137. Ciò lascia aperto il problema della conoscenza: occorre cioè stabilire con esattezza in quale momento sia imputabile al prestatore del servizio uno stato soggettivo di conoscenza riferito all’illecito in rete. Ed è proprio su questo elemento che interviene la CGUE, dando una serie di indicazioni utili nell’accertamento e nella ricostruzione dei fatti.

In particolare, la Corte specifica che il provider è a conoscenza dell’illecito in due casi: 1) sia nel caso in cui abbia svolto lui stesso un’attività di controllo; 2) sia nel caso in cui l’esistenza del materiale illecito gli venga comunicata mediante notifica da parte dell’interessato, con la precisazione che una semplice notifica non può portare in automatico alla responsabilità del provider, perché, in assenza di una disposizione che fissi i requisiti essenziali della notifica, questa potrebbe rivelarsi infondata o “insufficientemente precisa” nell’individuazione dell’illecito138

Documenti correlati