Il diritto dell’Unione e la responsabilità del provider
1. Gli obiettivi della Direttiva 2000/31/CE.
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In punto di regolazione del commercio elettronico, il diritto europeo, anteriormente all’entrata in vigore della Direttiva 2000/31/CE (c.d. Direttiva e-commerce), presentava significative criticità.
In primo luogo, l’Europa si trovava in una posizione di visibile arretratezza (data dall’assenza di regolazione) rispetto agli Stati Uniti: dove, invece, la produzione normativa in materia di commercio elettronico era già ampia e strutturata alle soglie dell’attuale millennio; inoltre, le Corti americane avevano già sviluppato una specifica sensibilità verso i profili di responsabilità dell’ISP.
La seconda criticità consisteva nel fatto che gli ordinamenti dei singoli Stati membri non avevano dato la stessa risposta ai problemi di gestione dell’informazione in rete e al trattamento delle connesse responsabilità. In particolare, l’Europa dovette fare i conti con una situazione di disomogeneità normativa tra i vari Stati (tra questi, soprattutto Germania42, Italia, Francia e Paesi Bassi), in cui le giurisprudenze nazionali avevano affrontato e risolto diversi casi talora attingendo alle soluzioni elaborate dal modello statunitense43. Del resto, l’aspirazione all’omogeneità tra le singole legislazioni nazionali era avvertita non solo nelle sedi di produzione normativa ma anche tra gli operatori del settore. Sotto questo profilo, assunsero sin da subito un ruolo di primo piano le pressioni che l’Europa riceveva da parte delle imprese che esercitavano attività nel settore in oggetto, le quali spingevano affinché si arrivasse ad un framework unitario in materia di responsabilità degli intermediari.
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Il sistema degli Stati Uniti (Online Copyright Infringement Liability Act) e la normativa tedesca in materia (“Teledienstgesetz”, abbreviata in TDG) sono state considerate fonti di ispirazione per la Direttiva e-commerce: in particolare, la TDG, entrata in vigore nel ‘97, anticipava la maggior parte dei contenuti poi ripresi dalla Direttiva e-commerce.
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Il modello statunitense distingueva tre ipotesi di responsabilità civile: la responsabilità diretta (direct liability) e cioè quando il provider è direttamente responsabile dell’illecito; la responsabilità a titolo di concorso (contributory liability) quando il provider ha avuto conoscenza dell’illecito o ha protetto l’anonimato del vero responsabile dell’illecito; la responsabilità a titolo di vigilanza (vicarious liability) quando il provider non ha adempiuto (con dolo o colpa) ad un obbligo di vigilanza imposto dalla legge. Per approfondimenti, M.L.MONTAGNANI, op.cit., p. 52.
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Una disciplina unitaria in materia di responsabilità dell’ISP richiedeva un preliminare confronto con i principi generali in materia di libertà: anche, ma non solo, sotto lo specifico profilo della libertà di circolazione dei servizi. In altri termini, occorreva predisporre regole che, pur mostrandosi sensibili alle esigenze di tutela dei “soggetti deboli” (danneggiati da comportamenti illeciti in rete), non aggravassero in maniera eccessiva la posizione degli intermediari. Diversamente, la nuova disciplina avrebbe costituito un disincentivo alla prestazione di servizi a contenuto (in senso lato o in senso stretto) informativo, con un conseguente vulnus per tutte le attività imprenditoriali a vario titolo legate al “mercato dell’informazione in rete”44
: sia, cioè, per i prestatori di servizi di informazione, sia – a cascata – per tutti gli imprenditori che hanno necessità di avvalersi di servizi online.
Una tale difficoltà dovette essere ben nota al legislatore europeo, tant’è che la Direttiva e-commerce, nei suoi Considerando, sembra valorizzare piuttosto i profili di libertà che non invece i profili di responsabilità degli intermediari. Emblematico è in proposito il contenuto del Considerando n. 8, che prefigura il fondamentale obiettivo di “creare un quadro giuridico inteso ad assicurare la libera circolazione dei servizi della società dell’informazione tra gli Stati membri, e non di armonizzare il settore del diritto penale in quanto tale”. Tale obiettivo è ripreso dal Considerando n. 40, in cui si dà conto della suddetta situazione di disomogeneità normativa tra gli Stati membri e del fatto che le divergenze tra le giurisprudenze nazionali nel campo della responsabilità degli intermediari della rete
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Si è infatti osservato che «l’esposizione a responsabilità costituisce una voce di costo per ogni intermediario Internet e quindi una barriera all’entrata del relativo mercato. Ciò, combinato all’incertezza sul diritto nazionale applicabile ai servizi, rende meno attraente l’esercizio della libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi»: così, in particolare, M.L.MONTAGNANI, op.cit., p. 76, nt. 18.
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“impediscono il buon funzionamento del mercato interno, soprattutto ostacolando lo sviluppo dei servizi transnazionali e introducendo distorsioni della concorrenza”. In tal senso, la Direttiva e-commerce annuncia ex professo il suo scopo di “costituire la base adeguata per elaborare sistemi rapidi e affidabili idonei a rimuovere le informazioni illecite e disabilitare l’accesso alle medesime”.
L’insistenza dei vari Considerando sui profili di integrazione tra gli Stati membri e l’espressa rinuncia a dettare norme di armonizzazione in materia criminale confermano il fatto che la previsione di regole sulla responsabilità degli ISP è concepita in funzione dell’attuazione – e non già della limitazione – dei valori di libertà.
In questo senso, significativo è il richiamo all’obiettivo di eliminare le barriere interne tra gli Stati membri – “stabilire legami sempre più stretti tra gli Stati ed i popoli europei” – in modo da “garantire il progresso economico e sociale”. Ancora più significativo è l’obiettivo di “garantire un elevato livello di integrazione giuridica comunitaria al fine di instaurare un vero e proprio spazio senza frontiere interne per i servizi della società dell’informazione45”. Da ultimo, merita di
essere richiamato il riferimento alla libertà di espressione, anch’essa tutelata dal diritto dell’Unione: in proposito, il Considerando n. 9 evidenzia che la libera circolazione dei “servizi della società dell’informazione” (su cui v. infra, § 2) coinvolge non solo profili di libertà imprenditoriale (e dunque di libertà di iniziativa economica) ma anche profili di libertà di espressione o di manifestazione del pensiero, sia individuale che collettivo. Profili, questi ultimi, che godono di esplicita protezione normativa all’art. 10, par. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Ciò premesso, il Considerando n. 9 traccia una direzione ben precisa in vista della disciplina della responsabilità degli ISP, affermando che la Direttiva e-commerce “non è volta ad incidere
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sui principi e sulle norme fondamentali nazionali in materia di libertà di espressione”: libertà che restano – dunque – affidate alla disciplina generale e soggette alle tassative restrizioni di cui all’art. 10, par. 2, della citata Convenzione.
Su queste premesse – posto, dunque, che la Direttiva e-commerce non impatta sui valori di libertà (né sulla libertà di prestazione e circolazione dei servizi né sulla libertà di espressione) – appare necessario mettere a fuoco l’ambito di applicazione della normativa in oggetto.
2. L’ambito di applicazione della Direttiva 2000/31/CE e le