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La corretta identificazione del paziente

Roberta Gallo,1,2Fabio Bertoncini,2,3Claudia Gatta2,4

1Associazione ANíMO; 2ASL Biella; 3Gruppo Ricerca Associazione ANíMO; 4Past-President Associazione ANíMO, Italia

Corrispondente: Fabio Bertoncini, ASL BI, Medicina d’urgenza, via dei Ponderanesi 2, Ponderano (BI), Italia.

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QUADERNI- Italian Journal of Medicine 2019; 7(6):61-62

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UADERNI - Italian Journal of Medicine 2019; volume 7(6):61-62

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del paziente prima di ogni intervento medico, permette di fornire cure più sicure con meno errori.6,7

I codici a barre, come accennato in precedenza, sono la forma più familiare di identificazione, attaccati ad un braccialetto, posseggono le informazioni del pa- ziente e tutti i dati possono essere accessibili attraverso un dispositivo in grado di leggerli.

Anche un identificatore del paziente biometrico (ad esempio una scansione dell’iride), potrebbe essere co- dificato come barcode e indossato come un braccialetto. I codici a barre vengono in genere utilizzati con un’applicazione in cui le informazioni codificate ven- gono strutturate come record in un database che per- mette di ricercare informazioni più dettagliate sul paziente che si sta visualizzando.2

Gli aspetti positivi che la letteratura identifica nell’utilizzo di codici a barre per l’identificazione dei pazienti sono: i) facilità di utilizzo; ii) notorietà e dif- fusione della tecnologia; iii) economicità del metodo di codifica delle informazioni di testo; iv) facilità di lettura da parte di dispositivi elettronici poco costosi; v) rapidità della possibilità di raccolta dati; vi) facilità di stampa.

I limiti: i) il lettore di codici a barre richiede una superficie liscia per la lettura; ii) il codice a barre è il- leggibile, senza dispositivo, al personale, pazienti e parenti; in caso di errata identificazione questa non potrà essere prontamente riconosciuta;4iii) pur avendo un costo unitario basso, il numero di lettori necessari per dare avvio all’utilizzo ad un intero reparto può es- sere significativo; iv) possibilità di difficoltà fisiche nell’ottenere una superficie lineare di lettura per il let- tore di codici a barre in alcuni reparti. Gli esempi in- cludono terapie intensive, dove i pazienti potrebbero avere numerosi bracciali, infusioni e monitor collegati e reparti neonatali, dove la dimensione e la curvatura del braccialetto potrebbe essere troppo piccolo per consentire al dispositivo di leggere il codice a barre.2 Tutta la letteratura, le procedure interne alle orga- nizzazioni, le norme di buon senso, così come le buone pratiche, sono concordi nell’affermare che i paradigmi più importanti per abbattere la possibilità di commettere

errori di identificazione dei pazienti all’interno dei pro- cessi di assistenza infermieristica comprendono: la dif- fusione della cultura della doppia identificazione effettuata da due operatori indipendenti, la costante sen- sibilizzazione del personale sanitario, l’implementa- zione di tecnologie che garantiscano e favoriscano la sicurezza del paziente (identificatori tecnologici) e la condivisione di soluzioni personalizzate che si fondano sull’organizzazione e sulle risorse disponibili e tendano costantemente al miglioramento della sicurezza dei pa- zienti stessi.8

Bibliografia

1. World Health Organization. Regional Office for the East- ern Mediterranean. Patient safety tool kit. 2015. Available from: http://apps.who.int/iris/bitstream/handle/10665/ 195709/EMROPUB_2015_EN_1856.pdf?sequence=1&i sAllowed=y

2. Australian Commission on Safety and Quality in Health Care. Technology Solutions to Patient Misidentification. Report of Review. 2008. Available from: https://www. safetyandquality.gov.au/wp-content/uploads/2012/01/ 19794-TechnologyReview1.pdf

3. NHS Improvement. Learning from patient safety inci- dents. 2017. Available from: http://www.npsa.nhs.uk/ site/media/documents/1440_Safer_Patient_Identifica- tion_SPN.pdf

4. The Joint Commission. National Patient Safety Goals. 2019. Available from: https://www.jointcommission.org/ assets/1/6/2019_NCC_NPSGs_final.pdf

5. Ministero della salute. Raccomandazione per la corretta identificazione dei pazienti, del sito chirurgico e della pro- cedura. Raccomandazione n. 3. 2008. Available from: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_587_ allegato.pdf

6. Greenly M. Helping Hippocrates: a cross-functional ap- proach to patient identification. Joint Commission. J Qual Patient Safety 2006;32:463-9.

7. McDonald CJ. Computerization can create safety haz- ards: a bar-coding near miss. Ann Intern Med 2006; 144:510-6.

8. Lippi G, Mattiuzzi C, Bovo C, Favaloro EJ. Managing the patient identification crisis in healthcare and labora- tory medicine. Clin Biochem 2017;50:562-7.

Rischio clinico e preven, ione dei rischi in medicina interna

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Introduzione

In ambito clinico i due maggiori prodotti del pro- cesso decisionale, clinical decision making, sono la dia-

gnosi e il programma terapeutico. Se la diagnosi è

corretta, anche la terapia ha ottime probabilità di essere efficace. In realtà alcuni dati della letteratura stimano che gli errori diagnostici siano nell’ordine del 10-15%, e questo dato è sicuramente superiore a quanto perce- pito dai clinici nella loro pratica quotidiana. Secondo alcune stime le specialità maggiormente soggette a er- rori nella fase diagnostica sono la medicina d’urgenza, la medicina generale (di famiglia) e la medicina interna, mentre in ambito radiologico e anatomo-patologico questa percentuale scende intorno al 2%.1

Fattori che influenzano gli errori in fase diagnostica

L’errore diagnostico solo raramente è causato da una scarsa conoscenza della patologia o del protocollo clinico, nella maggior parte dei casi esso è dovuto a un processo cognitivo che non prende in considera- zione quella determinata possibilità clinica, nonostante molti indizi orientino alla diagnosi corretta (errore co- gnitivo). I bias che portano a una diagnosi errata, ri- tardata o omessa, spesso dipendono dall’attitudine

specialistica del medico, per esempio difronte a un

sintomo aspecifico come l’emottisi, un infettivologo potrebbe essere più orientato a escludere una tuberco- losi (TBC), mentre un internista potrebbe pensare a una trombo-embolia polmonare (TEP). Altri errori in

fase diagnostica possono essere influenzati da un que-

sito specifico con cui il paziente giunge all’attenzione

del clinico, distogliendo l’attenzione da altri dati anamnestici rilevanti, ad esempio: emottisi e dispnea

in paziente imunocompromesso: escludere TBC. A

questo punto l’iter diagnostico potrebbe essere fina- lizzato all’esclusione dell’infezione e non a conside- rare tutte le cause di emottisi, che in quel paziente affetto anche da una malattia infiammatoria cronica, potrebbe essere dovuto a una TEP, poiché ne costitui- sce un importante fattore di rischio.

Uno studio del 2001, basato su reperti autoptici, dimostrava una misdiagnosi di TEP fatale nel 55% di una casistica di pazienti analizzati.2

Alcuni autori hanno preso in considerazione una serie di queste interferenze nella fase diagnostica del processo decisionale per eliminarle o almeno ridurle, utilizzando il termine di debiasing strategy.3Nella pratica non è così semplice, soprattutto perché non sempre il decision maker è consapevole dei propri li- miti di giudizio (pregiudizi), dovuti alla propria for- mazione clinica ed alla propria esperienza (case-mix), ma spesso anche a fattori dipendenti dall’organizzazione che possono comprendere la tur- nistica, la facilità di accesso alla diagnostica più avanzata, il sovraffollamento. Per evitare che il pre-

giudizio possa influenzare il decision-maker è neces-

sario adottare un processo che permetta il passaggio da una modalità di ragionamento intuitiva, più im- mediata, basata sulle conoscenze, sull’esperienza e sulla consuetudine, ad una modalità analitica,4più riflessiva, basata su evidenze scientifiche (linee guida) che si possano integrare con le caratteristiche dell’organizzazione locale. In quest’ultimo contesto, sebbene non esistano evidenze che supportino l’uti- lizzo di strategie ben definite per la riduzione dei bias, i percorsi diagnostico terapeutici assistenziali (PDTA) potrebbero essere definiti una debiasing

strategy, soprattutto se essi vengano strutturati par-

tendo dai sintomi clinici di presentazione, più che dalle patologie, perché questo prescinde da una dia- gnosi eziologica che potrebbe essere formulata in modo errato dal primo operatore che avvia il per- corso, per esempio: la definizione di un PDTA per il paziente con dispnea acuta o con insufficienza respi-

ratoria, potrebbe essere più efficace nel ridurre i bias