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Il «Corriere della Sera» tra irredentismo, nazionalismo e problemi adriatici

Nel documento TRIESTE UNIVERSIT À DEGLI STUDI DI (pagine 29-37)

1.1 Il «Corriere della Sera» e la politica estera nei primi anni del Novecento: una breve introduzione

1.1.3 Il «Corriere della Sera» tra irredentismo, nazionalismo e problemi adriatici

Il prestigio del «Corriere della Sera» e la grande influenza che esso è in grado di esercitare sia sull’opinione pubblica, sia nelle alte sfere della politica italiana, rendono particolarmente rilevanti tutti gli atteggiamenti e le prese di posizione scelte dal giornale milanese e dal suo direttore rispetto alla politica estera condotta dall’Italia. Prendendo in esame il rapporto tra il «Corriere» e i problemi legati alla sponda orientale dell’Adriatico, è necessario allargare il discorso e fare riferimento, più in generale, all’opinione che Albertini nutre nei confronti del trattato di Triplice Alleanza tra Italia, Austria e Germania. Quando assume la guida del giornale milanese, il giovane direttore guarda all’accordo tra i tre Stati con un certo favore, mantenendo anche in questo ambito una linea di continuità con Torelli Viollier. Il fondatore del «Corriere», infatti, riteneva che la Triplice tutelasse sia l’equilibrio della situazione politica internazionale, sia quello riguardante la politica interna dei singoli Stati.

Infatti, la fine dell’Ottocento aveva visto la quiete europea scossa dai movimenti anarchici e socialisti: il rigore rappresentato dal sistema di governo degli Imperi centrali sembrava, agli occhi del direttore di un giornale che dava voce alla Destra liberale, un ottimo antidoto per garantire la stabilità dei cittadini.12 Queste considerazioni dell’illustre predecessore trovano terreno fertile in Albertini, sensibile al concetto di ordine sociale e morale, di cui Austria e Germania sono appunto gli emblemi nel primo decennio del Novecento.

Contemporaneamente, però, proprio nel periodo compreso tra l’esordio di Albertini come direttore della testata lombarda e l’inizio della Prima Guerra Mondiale, avvengono sulla scena internazionale mutamenti tali da influenzare in

maniera considerevole il pensiero dell’uomo più importante del «Corriere» in materia di alleanze e strategie diplomatiche, fino a rovesciarne del tutto le convinzioni iniziali, come ci apparirà chiaro nel corso dell’analisi degli articoli del giornale a ridosso dell’intervento italiano. Pertanto, nonostante Albertini, all’inizio del XX secolo, sia convinto che la Triplice Alleanza non rappresenti un ostacolo ai progetti italiani di espansione economica e anche territoriale, è allo stesso tempo consapevole che l’alleanza con l’Austria13 non è frutto di alcun sentimento spontaneo di amicizia tra i due Paesi e, soprattutto, non è destinata a durare per molto tempo.

A questo proposito, il riferimento alla questione delle terre italiane ancora sotto il controllo dell’Impero asburgico, le terre “irredente”, è praticamente immediato, come anche quello relativo alla convergenza degli interessi di entrambi gli Stati in area adriatica. D’altro canto è proprio in questi anni che molti, in Italia e non solo, desiderano che l’Impero austro-ungarico si dissolva anche e soprattutto per lasciare liberi di esprimere il proprio diritto nazionale i popoli ad esso soggetti. Per il «Corriere» del primo decennio del secolo, questa ipotetica dissoluzione è pericolosa per la pace europea, di cui proprio Vienna, mantenendo un rapporto di cordialità con Roma, è chiamata a farsi garante.

Questo concetto è espresso chiaramente in un articolo dell’ottobre del 1906 (preso a esempio anche da Glauco Licata nella sua Storia del Corriere della Sera), in cui il quotidiano di Albertini afferma che il compito a cui la Duplice Monarchia è chiamata, cioè mantenere la quiete in ambito europeo, “val ben meglio che inquietare i serbi, lasciar discorrere troppo i circoli navali di Pola e lanciar degli ordini superbi a traverso l’Adriatico, necessariamente mediati da noi”.14

Parole di questo tenore lasciano facilmente presupporre che anche il movimento

13 Dal punto di vista del «Corriere», i rapporti italiani con la Germania sono molto più sereni a causa di diversi fattori, tra cui la mancanza di attriti dovuti a interessi territoriali comuni e l’importanza degli investimenti tedeschi in Italia, soprattutto a Milano. Il giudizio positivo del quotidiano lombardo è inoltre dovuto anche all’ammirazione di Albertini per il sistema di governo tedesco, impostato secondo i valori, tipici della mentalità prussiana, dell’ordine e del pragmatismo.

dell’irredentismo, per il direttore del «Corriere», è un fenomeno che non deve essere sottolineato nelle pagine del giornale, poiché potrebbe compromettere l’instabile e artificiale armonia che l’Italia sta cercando di creare con l’Austria.

Ciò non vuol dire che Albertini sia insensibile alla situazione di Trento e di Trieste; il fratello Antonio, infatti, che sempre a inizio Novecento risiede a Vienna, è addentro ai circoli irredentisti composti da studenti provenienti da Trieste, dalla stessa capitale austriaca e da Innsbruck, e non manca di aggiornare continuamente il direttore del «Corriere» su quelli che sono gli umori e i progetti di questi gruppi.15 Albertini si trova, quindi, davanti a un dilemma: da un lato desidera senz’altro che le terre irredente ritornino sotto il dominio italiano; dall’altro però, dirigendo un quotidiano moderato ed essendo persona prudente di natura, ha paura che l’azione spesso irrazionale degli irredentisti, lungi dal portare un risultato concreto, avveleni ulteriormente i rapporti con Vienna. Peraltro, anche se, ancora nel 1910, il «Corriere» bolla le tesi irredentiste come “false sentimentalità rinascenti di tempo in tempo”,16

il suo direttore è consapevole che gli italiani che vivono sotto il regime austriaco non conducono vita facile, dal momento che vengono loro negati anche diritti basilari, quali quello di non subire discriminazioni in ambito giudiziario e quello di avere la possibilità di studiare a Trieste in una sede universitaria italiana.

La critica sottintesa che Albertini muove all’irredentismo, dunque, non è nella sostanza, (anche perché nella sua redazione lavorano lo zaratino Arturo Colautti e Ugo Sogliani, noti irredentisti), ma nel modo di condurre la lotta, contrario agli ideali del «Corriere», che persegue sempre, instancabilmente, la via della concertazione diplomatica. Queste riserve nei confronti dell’irredentismo sono le stesse che portano Albertini a nutrire delle perplessità iniziali anche verso il nascente movimento dei nazionalisti. Per quanto riguarda il nazionalismo, però, con il passare degli anni e con una maggiore definizione del programma politico e

15 Cfr. G. Licata, op. cit., p.124

della fisionomia culturale che si legano a questa corrente, anche il direttore del «Corriere» inizia, molto gradatamente, ad accettare e ad apprezzarne alcuni aspetti. L’episodio del risentimento di Ugo Ojetti, provocato da un articolo di Andrea Torre che sostanzialmente tesse le lodi dell’energia dimostrata dai nazionalisti durante il loro primo convegno, nel dicembre del 1910 a Firenze (e che Ojetti invece aveva criticato, attirandosi i commenti piccati del «Giornale d’Italia»), è rappresentativo del favore sempre crescente con cui il giornale di Albertini guarderà al nazionalismo.

Non bisogna inoltre trascurare il fatto che questo movimento, oltre ad avversare in genere il socialismo (la peggiore minaccia per la Destra liberale) incontra anche una delle passioni di Albertini, cioè l’interesse sempre vivo per tutto quello che riguarda il mondo militare. In questo senso, la spedizione in Libia del 1911 viene accettata e infine sostenuta dal «Corriere» (anche se il giornale è uno degli ultimi a sposare la causa africana), in virtù del fatto che essa viene considerata un’impresa soprattutto militare grazie a cui l’Italia potrà sperimentare e misurare le sue forze belliche.17

Un altro fattore, determinante per il giudizio positivo del giornale milanese, è inoltre rappresentato dalla considerazione che una guerra libica implica lo spostamento dell’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi dell’area adriatica per indirizzarla verso la zona del mare Mediterraneo, sicuramente meno “esplosiva” dal punto dei vista dei rapporti con la Triplice Alleanza. Per Albertini, con l’impresa di Tripoli l’Italia può soddisfare il suo desiderio di espansione e di conquista di nuovi mercati, incoraggiata dal momento di particolare prosperità economica di inizio secolo, e anche raggiungere, attraverso questo ampliamento dei propri orizzonti, lo status di grande Potenza europea che nessuno ancora le riconosce. Il tutto, senza turbare le strategie della politica estera

italiana verso l’Adriatico, che rappresentano “un aspetto importantissimo sì, ma non esclusivo né assorbente, della nostra attività internazionale”.18

Nella sua azione di sostegno alla campagna di Libia, in verità, il «Corriere della Sera» si spinge, con molta probabilità, oltre quello che aveva pianificato all’inizio della missione, perché in virtù del suo enorme peso culturale e sociale apre la strada alla diffusione del nazionalismo presso il grande pubblico, grazie anche alla presenza in terza pagina di articoli di Corradini e soprattutto di D’Annunzio. Le Canzoni delle Gesta d’Oltremare, pubblicate periodicamente e con grande risalto durante la guerra di Libia, ottengono infatti un duplice risultato: quello di accrescere l’interesse e l’entusiasmo dei lettori verso le imprese militari italiane e quello di contribuire “a trasformare, nella considerazione di larga parte dell’opinione pubblica italiana, il d’Annunzio da artista egocentrico ed elitario in araldo capace di esprimere i sentimenti politici di un più largo pubblico italiano”, secondo le parole dello stesso Albertini.19 Anche in un clima di esaltazione patriottica e nell’ambito di un lungo sodalizio, quale quello tra il direttore del giornale milanese e il poeta di Pescara, il «Corriere» non perde però mai di vista l’importanza di non eccedere con i toni patriottici, specialmente nel caso in cui questi possano essere male interpretati dall’Austria.

È emblematico, a questo proposito, il fatto che una delle Canzoni di D’Annunzio, la Canzone dei Dardanelli, contenente una lunga invettiva contro l’Austria, non solo non viene pubblicata dal foglio lombardo nel dicembre del 1911, ma che Albertini, in una lettera al poeta, lo prega di proibire a qualsiasi giornale italiano la diffusione del testo, per evitare “ogni pettegolezzo increscioso” e un possibile incidente diplomatico con Vienna.20

Pure con tutti questi accorgimenti, comunque, la guerra africana rappresenta qualcosa che nemmeno Albertini, forse, aveva potuto prevedere: il risveglio nella società

18

Ivi, p.125

19 F.Di Tizio, D’Annunzio e Albertini.Vent’anni di sodalizio, Ianieri, Chieti 2003, p.80

italiana di un forte senso di compattezza nazionale e la consapevolezza che l’Italia è in grado di condurre una guerra e vincerla, al pari delle altre Potenze europee.

Il nazionalismo, nel frattempo, ha fatto presa anche sulla piccola borghesia, perché sembra essere la risposta a una serie di malesseri che essa manifesta proprio in concomitanza con la guerra tripolina, essendo vessata dalle tasse e tagliata fuori dai guadagni che la spinta economica aveva portato al Paese. Inoltre, da un punto di vista ideologico, in questi anni è difficile che i ceti medi possano identificarsi con il socialismo e con il concetto di internazionalismo che esso propugna, mentre appare loro decisamente più semplice approvare il pensiero nazionalista che, promuovendo l’idea di un espansionismo italiano volto a migliorare l’economia della nazione, sembra poter soddisfare il bisogno di ordine e di progresso che questa larga fetta della società avverte.

Di grande rilevanza è anche il fatto che il mondo della cultura italiana, in occasione della campagna libica, accentua con modalità e toni diversi e variabili, quella tendenza - che già si era manifestata nei primi anni del secolo - a promuovere la guerra come un mezzo per ristabilire un ordine sociale, a intendere il conflitto come “sola igiene del mondo”, come lo definisce Marinetti già nel 1909, ovvero “farmaco dei mali costituzionali della nazione”, per utilizzare un’efficace espressione usata da Mario Isnenghi in tempi recenti.21

La spedizione di Tripoli rappresenta l’occasione ideale perché questi fermenti di celebrazione della lotta militare escano dal mondo strettamente letterario e raggiungano il grande pubblico, attraverso un intreccio tra circoli intellettuali, politica e giornalismo, che appaiono protesi verso un progetto comune di propaganda e orientamento dell’opinione pubblica, volto a conseguire un cambiamento radicale nella società italiana.

Tutti coloro che si occupano di studi sulla Grande Guerra sono concordi, del resto, nell’affermare che è proprio nel 1911 che si innesca quel meccanismo di

influenza sul grande pubblico, che sarà poi determinante per l’approvazione dell’intervento italiano del 1915.22

A onor del vero, è doveroso ricordare che, anche in occasione della guerra libica, ci sono diverse voci fuori dal coro, tra cui una delle più prestigiose è quella di Gaetano Salvemini, che è contrario alla spedizione italiana ed entra perciò in polemica con «La Voce»; l’attrito è tale da provocare, alla fine del 1911, l’abbandono della rivista fiorentina da parte dello storico pugliese e la creazione da parte di questi di una nuova testata, dal titolo «L’Unità». Ma l’atteggiamento fortemente critico dell’intellettuale di Molfetta rappresenta, appunto, un’eccezione: il pubblico, infervorato dall’impresa sulla “quarta sponda” italiana, diventa sempre più ricettivo rispetto alle tesi nazionaliste, che iniziano a penetrare nella società italiana.

Di conseguenza, la speranza nutrita dal «Corriere» di spegnere i bollenti spiriti irredentisti grazie a Tripoli, si infrange contro un interesse crescente degli italiani circa la sorte dei connazionali che vivono sotto il Governo di Vienna e contro un aumentato sentimento di intolleranza verso l’Austria. Tuttavia, anche lo stesso giornale di via Solferino, proprio a partire dal conflitto con i turchi, inizia a criticare apertamente l’Impero austro-ungarico e il suo modo di amministrare le diverse nazionalità che si trovano sotto il suo dominio, denunciando, in maniera finalmente diretta e senza precauzioni di alcun tipo, il trattamento iniquo e spesso umiliante subito dagli italiani nelle terre irredente.

Peraltro, i giudizi taglienti del «Corriere» vengono acuiti anche dalla ripresa delle ostilità sul fronte balcanico nel 1912; in questa occasione, il quotidiano non nasconde la sua solidarietà con i piccoli Stati slavi che lottano per la propria indipendenza, anche perché è proprio in questi anni che Albertini inizia a riflettere sul diritto nazionale e a elaborare il suo punto di vista che lo porterà, alla fine del conflitto mondiale, ad avere una precisa linea politica da sostenere riguardo il

nuovo assetto dell’area adriatica.23

Per il momento, ancora nel 1912, il direttore si limita a far notare ai suoi lettori (e a Giolitti), che benché la Triplice Alleanza sia una coalizione creata per mantenere la pace, l’Impero asburgico non si fa scrupolo a imporre la sua supremazia sui Balcani i quali, al contrario, secondo la testata lombarda, devono essere accessibili agli scambi commerciali di tutti i Paesi interessati a stabilire una rete di contatti economici in quell’area. Nonostante queste osservazioni del «Corriere della Sera», che alimentano ulteriormente il clima di sfiducia nella Triplice Alleanza che si respira in Italia, il 5 dicembre 1912 l’accordo tra le tre nazioni viene rinnovato anticipatamente, provocando la sorpresa (e il nervosismo) sia di Albertini, sia di buona parte dell’opinione pubblica italiana.

Negli anni che precedono l’assassinio di Francesco Ferdinando, pertanto, il foglio di Milano, pur non discostandosi eccessivamente dalla sua proverbiale prudenza nei giudizi, non risparmia, di tanto in tanto, frecciate rivolte alla Monarchia danubiana. I fatti di politica interna, d’altra parte, in questi anni non lasciano troppo spazio a riflessioni su quanto accade al di fuori dei confini nazionali, al punto che gli avvenimenti bosniaci di quel fatidico giugno 1914 sortiscono, in tutta Italia e dunque anche nella redazione di via Solferino, una reazione di sorpresa mista al presagio che l’ordine faticosamente raggiunto in Europa stia per crollare inesorabilmente. Questo sentimento è ben visibile nell’analisi dedicata agli articoli del «Corriere della Sera» del periodo immediatamente successivo al duplice omicidio in Bosnia, presentata nei prossimi paragrafi.

1.2 La questione adriatica nelle pagine del «Corriere della Sera»: analisi

Nel documento TRIESTE UNIVERSIT À DEGLI STUDI DI (pagine 29-37)