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Le costituzioni rette e degenerate

III. Il regime costituzionale migliore

2. Le costituzioni rette e degenerate

Una volta terminato il discorso sulle costituzioni in generale, Aristotele distingue i diversi tipi di costituzione, chiarendo anche, in maniera più specifica, a cosa facciano riferimento all’interno della città. Già nel definire la costituzione come forma della città risultava evidente l’identificazione tra le costituzioni e i ruoli di governo e in particolare quello più importante: il políteuma, il corpo politico sovrano. La costituzione coincide con il corpo politico che detiene l’autorità (Pol. III, 7, a 25-26) e il políteuma si compone di tutti gli abitanti che prendono parte ai ruoli di governo, definiti da Aristotele cittadini in senso stretto, e varierà da città e città, in base alla forma di governo. Pertanto risulta chiaro dagli esempi che riporta Aristotele, quando afferma che nelle democrazie padroni sono i tanti e nell’oligarchie i pochi, che “le costituzioni varieranno al variare dell’estensione dell’elemento che detiene la sovranità”23

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Nonostante ciò, indipendentemente da quanti e chi siano gli uomini al governo, è necessario specificare che le costituzioni si dividono in rette e degenerate ( Pol. III, 7, 1279 a 27-30). Al fine di comprendere questo punto, è bene riportare alla mente il passo del primo libro della Politica in cui Aristotele definisce l’uomo come animale politico (Pol. I, 2, 1253 a 1-7), il cui senso è che l’individuo vive

all’interno della società politica poiché solo in essa ha la possibilità di esprimere appieno la sua natura di uomo e di conseguenza essere felice.

Il fine delle costituzioni rette è proprio il benessere della comunità e mai l’interesse di chi comanda. Per illustrare la distinzione tra i regimi costituzionali retti e deviati, Aristotele si richiama ai diversi tipi di autorità inerenti alla famiglia ed esposti nel primo libro: vi è il governo dispotico, che è quello del padrone sullo schiavo, che viene esercitato essenzialmente nell’interesse di chi governa; quello economico, del marito su moglie e figli, esercitato nell’interesse dei sottoposti “oppure in vista di qualcosa di comune a entrambi” (Pol.III,6, 1278 b 39). Il rapporto che si instaura nel governo economico è lo stesso che ha luogo nell’esercizio di una tecnica come la navigazione, la medicina o la ginnastica: essenzialmente la tecnica è esercitata nell’interesse di chi è destinatario, ma anche, a volte, a vantaggio di chi la esercita.

Nulla vieta infatti che l’istruttore sia occasionalmente egli stesso uno di quelli che fanno ginnastica, così come il timoniere è sempre uno dei naviganti. Ora l’istruttore, o il timoniere, mira sì al bene dei sottoposti, ma laddove venga a essere egli stesso uno di questi, partecipa accidentalmente del vantaggio; in effetti, l’uno è un navigante e l’altro diventa uno di quelli che fanno ginnastica, pur essendo istruttore. (Pol. III, 6, 1279 a 2-8)

La distinzione tra i diversi tipi di autorità può essere interpretata come una critica al pensiero espresso nel primo libro della Repubblica di Platone da Trasimaco, il quale nel dialogo con Socrate afferma che giusto è ciò che torna utile al potere e, essendo il detentore del potere sempre il più forte, il giusto è l’utile del più forte (Rep. I, 339 a3). La posizione che Aristotele sostiene con l’esempio delle tecniche e del governo economico è opposta: il potere, in questi due casi, mira a realizzare

ciò che è meglio per gli oggetti di cui si prende cura, realizzando in tal modo l’utile del più debole24

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I governi dispotico ed economico tendono comunque a realizzare un utile parziale che si esplica nell’immediato, mentre l’unica forma di comunità che mira all’utile più giusto è la comunità politica, che mira all’utile che “si estende all’intera nostra vita” (E. N. VIII 11, 1160a 23). La differenza fondamentale tra la comunità politica e le altre forme di autorità risiede nel fatto che, mentre nelle seconde è presente la subordinazione dei sottoposti ai governanti, la comunità politica si esercita su uomini liberi e uguali, per cui “si ritiene giusto esercitare le cariche politiche a turno” (Pol. III, 1279 a 9-10). Aristotele ritiene che nel caso di un governo politico l’interesse non sia mai rivolto a chi governa, ma sempre verso i governati; pertanto le costituzioni rette sono sempre quelle in cui il legislatore attua il vero compito della politica, il bene della comunità, mentre deviate sono tutte quelle forme che hanno un carattere non adatto a una città formata da uomini liberi e uguali.

Aristotele individua le tre forme di costituzioni degenerate in tirannide, oligarchia e democrazia, che derivano dalle rispettive forme di costituzione rette, monarchia, aristocrazia e politía (Pol, III, 7, 1279 b 6-8).

La politía25 è considerata come la costituzione per eccellenza, non solo dal punto di vista qualitativo, ma anche dal punto di vista normativo: alcuni studiosi hanno visto in essa una sorta di “costituzione prima”, in base alla quale può essere

24 Cfr. Aristotele, Politica, Libro III, cit., p. 175.

25 Il termine politéia è generalmente tradotto con “costituzione” ma nella Politica, oltre ad avere

tale significato, Aristotele lo utilizza per designare il regime costituzionale migliore. In questo caso optiamo per la distinzione utilizzata da Berti in Il pensiero politico di Aristotele, cit., traducendo con politía quando il termine designa il regime costituzionale migliore tra quelli retti e opposto alla democrazia, trattato nei libri III e IV della Politica. Il termine politéia verrà successivamente ripreso per descrivere la città delle nostre preghiere descritta nei libri conclusivi del trattato.

misurato il diritto e la pretesa di tutte le altre forme di governo di essere considerate delle costituzioni in quanto tali. Tale impostazione teorica del concetto di politía, presuppone l’attenzione di Aristotele per l’esperienza delle città a lui contemporanee: la descrizione delle varie costituzioni greche, nella comprensione della loro molteplicità, è a sua volta il materiale empirico utile alla riflessione in rapporto a tale concezione ideale26.

Secondo Aristotele la politéia è, in generale, anche il nome “con cui si designano tutte le costituzioni” (Pol. III, 6, 1279 a 38). Alcune forme, infatti, sono più degenerate rispetto ad altre: la tirannide, ad esempio, è peggiore della democrazia in quanto rappresenta la forma di governo che meno assomiglia alla regime costituzionale migliore; mentre la democrazia rappresenta la forma migliore tra quelle degenerate, proprio perché relativamente più vicina alla politía.

Interessante a questo punto è notare un altro criterio che Aristotele pone per distinguere forme di governo come democrazia e oligarchia, che non dipende solo dalla quantità degli uomini presenti nel governo, ma anche e soprattutto dal loro status economico-sociale. Nelle oligarchie, infatti, governano i pochi, che compongono la parte ricca della popolazione, mentre nelle democrazie a governare è la massa, la parte più povera della città: “ciò per cui la democrazia e l’oligarchia differiscono l’una dall’altra sono la povertà e la ricchezza” (Pol. III, 8, 1279 b 40 – 1280 a 1): il criterio discriminante per l’attribuzione dei ruoli di governo nelle oligarchie è la ricchezza, mentre nelle democrazie è la libertà. Entrambe queste forme di governo sono degenerate in quanto perseguono un tipo di giustizia parziale: i ricchi governano nell’interesse di preservare la loro

26 Cfr. G. Bien, Die Grundlengung der politischen Philosophie bei Aristoteles, Freiburg, Verlag

Karl Alber, 1973, trad. it. a cura di M. L. Violante, La filosofia politica di Aristotele, Il Mulino, Bologna, 1985, pp. 307-308.

ricchezza, i poveri invece per cercare di mantenere la propria libertà; la comunità, invece, non si istituisce allo scopo di garantire i beni materiali utili per la sopravvivenza dei cittadini, ma per permettere a tutti di vivere bene (Pol. III, 9, 1279 a 31-32). Il giusto criterio a cui la distribuzione delle cariche politiche dovrebbe fare riferimento è la virtù politica, che rappresenta il vero contributo che ognuno può dare alla realizzazione del bene comune (Pol. III, 9, 1280 b 6-7). Tuttavia Aristotele crede che il governo dei molti sia migliore rispetto a quello dei pochi, innanzitutto per le ragioni esposte nell’argomento comunemente noto come la teoria della somma: i più, pur non essendo tutti perfettamente buoni, possono contribuire alla virtù e saggezza totale, formata dalla somma delle virtù particolari di ogni uomo, che sarà maggiore rispetto a quella dei pochi; in tal modo la moltitudine è considerata come un soggetto dalle capacità potenziate (Pol. III, 11, 1281 a 42- 1281b 10).

Il secondo motivo, di ordine pratico, riguarda la stabilità della comunità, considerata un bene fondamentale. L’esclusione dei molti dai ruoli di comando è riconosciuta come causa di una maggiore instabilità, in quanto porta in sé la possibilità dell’insurrezione della maggior parte della popolazione estranea alla gestione del potere (Pol. III, 12, 1281 b 25-29).

Il terzo argomento rappresenta anche una critica alle tesi sostenute da Socrate nel

Protagora di Platone: come spiega Aristotele, è chi beneficia del sapere e non

colui che lo detiene, l’esecutore, come in Platone, il miglior giudice di una tecnica (Pol. III, 11, 1282 a 16-24).

Tuttavia Aristotele pone dei limiti a qualunque autorità: chiunque sia il detentore del potere politico dovrà sottostare all’autorità delle leggi, che rappresentano l’istanza ultima e sovrana. Le leggi sono adattate alla costituzione vigente: tanto

più sono buone le costituzioni, tanto migliori sono le leggi (Pol. III, 2, 1282 b 1- 11).

La difesa del governo dei molti ha portato alcuni studiosi a considerare Aristotele come un filo-democratico, nonostante annoveri la democrazia tra le forme di costituzione degenerate.

In realtà Aristotele considera come migliore in assoluto il regno, se affidato a un uomo non paragonabile a nessun altro per la sua virtù, considerato come un dio tra gli uomini, che non dovrà essere soggetto alle leggi, ma dovrà rappresentare lui stesso la legge (Pol. III, 13, 1284b 26-34). Aristotele sa bene però che questa possibilità si dà solo a livello teorico, ma è del tutto irrealizzabile nella realtà concreta, e quindi ritiene più utile trattare come forma migliore la politía, anche per la sua concreta possibilità di realizzazione empirica.