• Non ci sono risultati.

La critica all’utilitarismo classico

V. Il progetto economico politico di Amartya Sen

2. La critica all’utilitarismo classico

Le riflessioni di Amartya Sen sul mondo contemporaneo si basano sulla consapevolezza che nonostante i livelli di benessere economico e libertà politica raggiunti, in molte aree del mondo sussistono ancora oppressione, miseria e privazione. L’idea dominante è che tali problemi siano limitati a società povere e generalmente più arretrate, ma spesso, come dimostra Sen, questa idea è soprattutto figlia di un pregiudizio culturale di matrice occidentale. Il principale obiettivo dell’economista consiste, allora, nell’analizzare le causa delle disuguaglianze sociali, per elaborare proposte valide in direzione di un loro superamento.

Sen parte da una critica ai metodi utilizzati per calcolare il benessere di uno stato, che risultano, a suo parere, inadeguati non solo per cogliere il malessere che può celarsi dietro l’apparente benessere materiale, ma anche per individuare gli elementi, non solo di tipo economico, indispensabili per condurre una vita felice.

130 Cfr. S. Mocellin, Il sogno poetico di un economista – L’antropologia economica di Amartya

Le teorie economiche ispirate all’utilitarismo, ad esempio, risultano incoerenti per la loro riduttiva visione dell’agente economico, che si assume agisca, in base a queste teorie, semplicemente in vista del proprio benessere personale.

Secondo l’utilitarismo classico, nato e sviluppatosi nel corso dell’Ottocento, l’utilità è intesa come la tendenza a procurare beneficio alla propria persona riducendo il più possibile il rischio di ricevere un danno. Tale nozione funziona come uno standard di valutazione delle politiche economiche, che rende i comportamenti umani tanto regolari da poter divenire oggetto di scienza. Il calcolo dell’utilità in base al piacere è stato posto da molti economisti come un principio di misurazione del livello di benessere individuale e collettivo, tuttavia è proprio su questo punto che Sen muove le sue prime critiche sia dal punto di vista teorico che morale. Per lo studioso il piacere è infatti uno stato mentale soggettivo, che pertanto, risulta inadeguato a descrivere in cosa consiste il benessere individuale. L’esperienza soggettiva del piacere, secondo Sen, può essere influenzata da desideri che non tendono al miglioramento effettivo della propria condizione.

I deprivati tendono a venire a patti con la loro condizione per pura e semplice necessità di sopravvivere, e possono di conseguenza non avere il coraggio di chiedere un qualsiasi cambiamento radicale o addirittura adeguare i desideri e aspettative alle cose che – senza alcuna ambizione – considerano fattibili. La misura mentale del piacere, o anche del desiderio, è troppo malleabile per rappresentare un indicatore attendibile della deprivazione e dello svantaggio131.

131 A. Sen, Devolopment as Freedom, University Press, Oxford, 1999, trad. it. a cura di G.

Andando ancora più a fondo nella sua critica, e valutando ciò che si ritiene indispensabile per vivere una vita buona, Sen sottolinea come alcune situazioni possano provocare piacere nell’immediato, ma non avere alcuna utilità per il benessere di un’intera vita, mentre al contrario azioni non piacevoli nell’immediato possono risultare molto utili per il benessere futuro.

Nella prima metà del novecento, in effetti, gli economisti si sono concentrati sul tentativo di affrontare il problema pratico della misurazione dell’utilità nei più diversi contesti, e per conferire una solida base epistemologica al concetto di utilità, hanno ritenuto più fecondo interpretarla nei termini di preferenze

individuali. In tal modo l’utilità non è più considerata come un elemento in grado

di contribuire al benessere dell’individuo tramite il soddisfacimento dei bisogni, quanto piuttosto l’elemento rivelatore delle scelte della persona, tramite le quali è possibile istituire una scala di preferenza132. Ma anche a questa idea che le preferenze offrano un criterio più sicuro, Sen oppone critiche simili a quelle rivolte contro la concezione classica dell’utilitarismo.

La prospettiva che viene maggiormente criticata da Sen è quella in cui si pone Paul Samuelson valorizzando il concetto di preferenza rivelata, assumendo che sia possibile dedurre la preferenza del soggetto in base al suo comportamento: se avendo a disposizione sia il bene x che quello y, il soggetto decide di scegliere x, allora è possibile affermare che egli preferisce x a y133. In questo caso, sottolinea Sen, il procedimento che utilizza l’osservatore per trarre le sue conclusioni è opposto a quello che compie l’agente economico, nel primo caso le preferenze vengono rivelate dopo la scelta, mentre nel secondo il soggetto prima struttura la

132 Cfr. Ivi, p. 28.

133 Cfr. P. Samuelson, Consumption Theory in Terms of Revealed Preferences, in “Economica”,

sua preferenza e poi compie le sue scelte134. L’assioma su cui la teoria di Samuelson si fonda è noto come l’assioma debole delle preferenze rivelate, e ha dato il via a numerosi studi sulla struttura della preferenza basati sull’osservazione del comportamento di mercato.

Sen non condivide proprio l’assunto centrale che si possa spiegare il comportamento facendo riferimento in primis al comportamento stesso, il che viene considerato “pura retorica”135

. Comunque Sen osserva come la teorie delle preferenze rivelate abbia senso, perché nonostante in parte oscuri il riferimento alle questioni psicologiche sottostanti le scelte, circoscrivono in modo adeguato una definizione scientifica plausibile delle preferenze economiche.

Per Sen invece non sempre è possibile scoprire la struttura delle preferenze del soggetto in base al suo comportamento effettivo. Per il suo obbiettivo Sen utilizza l’esempio del dilemma del prigioniero: due prigionieri sono colpevoli di un crimine, ma non vi sono gli indizi per condannarli entrambi, tuttavia vi sono abbastanza indizi per condannarli per un reato minore. I due criminali vengono separati e viene data loro la possibilità di trattare: se entrambi confessano il reato maggiore, avranno una riduzione della pena da venti a dieci anni; se entrambi non confessano verranno condannati a due anni di detenzione per il reato minore; infine se uno collabora con la giustizia, mentre l’altro decide di non farlo, chi ha confessato viene scarcerato subito, mentre l’altro è condannato alla pena intera di vent’anni. È evidente come per entrambi i criminali, non essendo a conoscenza della scelta del compagno, l’opzione migliore sia quella di confessare la propria colpa, ricevendo in tal modo uno sconto sicuro di pena di dieci anni:

134 Cfr. A. Sen, Choice, Welfare and Measurement, Basil Blackwell, Oxford, 1982, trad. it. a cura

di F. Delbono, V. Denicolò, G. Gozzi, Scelta, benessere, equità, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 106.

Entrambi, quindi, confessano, guidati dal perseguimento razionale del proprio interesse, così che ciascuno viene condannato a dieci anni. Se, tuttavia, nessuno confessasse, entrambi otterrebbero soltanto due anni di pena. La scelta razionale sembra costare a ciascuno otto anni in più di prigione136.

Sen ipotizza a questo punto l’esistenza di un contratto sociale, non direttamente stipulato, che prevede la tacita norma di non confessare: in questo caso, quindi, abbandonare l’atteggiamento individualistico per ipotizzare un tipo di comportamento collettivo porterebbe i criminali a risparmiare otto anni di prigione.

L’ipotesi di un contratto sociale segnala che spesso, nella vita quotidiana di un uomo, le norme morali a cui si fa riferimento quando si decide di abbandonare il mero calcolo individualistico sono molto più utili di quanto si possa pensare, anche quando l’obiettivo non è il benessere personale, ma quello dell’intera comunità. Oltretutto, trattando del dilemma del prigioniero, si dà per scontato che entrambi i criminali perseguano un tipo di ragionamento egoistico, ma non è impossibile che uno dei due segua un atteggiamento altruistico che lo porti a preferire una pena minore per il suo compagno. L’economia classica induce a credere che “tutto ciò che non sia una massimizzazione dell’interesse personale debba essere una forza irrazionale”137, riconoscendo come lecita un’economia

totalmente scollegata dall’etica. In realtà, insiste Sen, egoismo non è sinonimo di razionalità, tutte le scelte vanno indagate nella loro natura, “nel rapporto con gli scopi che si prefiggono, e con i valori e le motivazioni da cui si generano”138

.

136 Ivi, p. 118.

137 Sen, Etica ed economia, cit., p. 23.

Accade spesso, ad esempio, che un uomo decide di non perseguire un atteggiamento egoistico e di optare per delle scelte che comporteranno “un livello di benessere personale inferiore rispetto a quello che una alternativa pure accessibile sarebbe in grado di generare”139

: questo è ciò che avviene, scrive Sen, nel caso dell’obbligazione.

L’obbligazione, che può influenzare il comportamento umano, è connessa a principi morali che includono vari campi, da quello religioso a quello politico, e se tale fattore entra in gioco è errato pensare che l’economia debba occuparsi di analizzare solo il comportamento del consumatore nei riguardi di beni materiali privati: essa, invece, rappresenta lo studio anche di “beni pubblici” che, essendo fruiti da più persone contemporaneamente, fanno riferimento a problematiche dovute all’interazione sociale e, dunque, a questioni più direttamente collegate all’etica.

In conclusione l’ipotesi di un contratto sociale o di norme morali che guidano il comportamento rivela che:

La filosofia che ispira l’approccio delle preferenze rivelate essenzialmente sottostima il fatto che l’uomo è un animale sociale e che le sue scelte non sono rigidamente vincolate solamente alla sua struttura di preferenze. Non trovo affatto difficile pensare che gli uccelli, le api, i cani, i gatti, rivelano le loro preferenze attraverso le loro scelte; è rispetto agli esseri umani che tale approccio non è particolarmente persuasivo. Un atto di scelta per questo animale sociale che è l’uomo è, in un senso fondamentale, sempre un atto sociale. Può darsi che egli sia solo parzialmente conscio degli immensi problemi di interdipendenza che caratterizzano una società, e quello da noi considerato non è che un semplice esempio. Tuttavia, il suo comportamento è

qualcosa di più di una mera estrinsecazione meccanica della sua struttura di preferenza140.

Secondo Sen, in breve, il solo comportamento è insufficiente a spiegare le motivazioni che spingono gli individui a compiere determinate scelte.