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La riflessione politica di Aristotele e l'"approccio delle capacità"

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Academic year: 2021

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ILOSOFIA E FORME DEL SAPERE

Tesi di laurea magistrale

La riflessione politica di Aristotele e

l’“approccio delle capacità”

Relatore

Candidato

Prof.ssa Maria Michela Sassi

Katia Casciana

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Indice

I. Introduzione

... 1

II. La comunità politica

1. Il fine della comunità politica ... 5

2. L’uomo animale politico e la comunità come suo prodotto naturale ... 8

3. La critica al comunismo platonico ... 17

4. Individuo e comunità, privato e pubblico nella Politica ... 22

III. Il regime costituzionale migliore

1. La definizione di costituzione e cittadino ... 27

2. Le costituzioni rette e degenerate ... 31

3. La politía come “costituzione media” ... 36

4. La “città delle nostre preghiere” ... 43

4.1. La vita felice ... 43

4.2. L’organizzazione della città felice ... 53

4.3. L’educazione alla felicità ... 58

IV. La rivalutazione del pensiero aristotelico nel progetto politico

di Martha Nussbaum

1. La rivalutazione di Aristotele ... 73

2. La crisi della democrazia ... 75

3. La capacità personale nel pensiero della Nussbaum ... 78

4. La concezione “astratta” del bene ... 89

5. L’elenco delle capacità fondamentali ... 92

6. Le teorie “sottili” del bene ... 98

7. Le preferenze adattive femminili ... 105

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V. Il progetto economico - politico di Amartya Sen

1. Etica ed economia ... 116

2. La critica all’utilitarismo classico ... 117

3. L’eterogeneità dell’uguaglianza ... 123

4. L’approccio di Sen alle capacità come etica sociale ... 125

5. Un modo diverso di definire la povertà ... 127

6. Economia, libertà e democrazia ... 131

7. Le donne “mancanti” ... 140

8. La filosofia di Aristotele nel pensiero di Amartya Sen ... 146

VI. Considerazioni conclusive

... 149

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I. Introduzione

L’obiettivo del presente lavoro è esaminare la riflessione politica aristotelica ricercandovi elementi che possono essere ancora validi per questioni discusse nella filosofia politica contemporanea. I primi due capitoli sono perciò dedicati all’analisi del pensiero di Aristotele esposto nel trattato della Politica, con particolare attenzione per i temi che riguardano i temi dell’individuo nel quadro della città, com’è noto, infatti, il fine della vita umana è per Aristotele l’eudaimonía, ed è realizzabile se coincide con la felicità dell’intera comunità e viceversa.

In questo contesto, però, il concetto di felicità assume un significato specifico e, spesso, differente rispetto a quello che i pensatori moderni potrebbero sottolineare. Il bene dei singoli cittadini, in Aristotele, non può essere scisso da quello dell’intera comunità, in quanto è l’aspetto sociale dell’essere umano e il suo impegno nella pólis che gli permettono di raggiungere tale obiettivo, mettendo in pratica la propria virtù in comportamenti eticamente validi. Tuttavia lo sviluppo della virtù non è automatico e necessita sia di un percorso educativo mirato che di condizioni esterne favorevoli.

Il primo capitolo si concentra sui primi due libri della Politica, in cui la comunità viene presentata come l’ambiente per eccellenza in cui l’uomo esprime pienamente la sua natura di animale politico, e dove agisce verso il fine migliore: ogni uomo infatti agisce in vista di un qualche bene, dunque anche la comunità politica, che è composta dal vivere insieme di molti uomini, agirà in vista di un bene. La pólis, in questo senso, rappresenta la forma di comunità più adeguata a conseguire il bene più importante, ovvero quello della comunità politica.

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La pólis è inoltre descritta come un prodotto naturale dell’uomo, non solo perché la sua nascita stessa, frutto dell’unione dell’uomo e della donna nella famiglia, è prodotta dall’istinto biologico alla riproduzione, ma anche perché ogni fase del suo processo costitutivo a partire dalla famiglia è sempre orientato verso il fine del ben vivere.

Nel secondo capitolo, concentrandomi inizialmente sui libri III, IV e successivamente sui libri VII e VIII della Politica, ho cercato di cogliere gli aspetti ritenuti da Aristotele importanti per rendere la comunità politica l’ambiente più adatto allo sviluppo della virtù dell’individuo. Nella ricerca dell’assetto costituzionale migliore Aristotele non si discosta mai dallo studio delle forme di comunità presenti nella realtà, poiché il suo intento non è quello di descrivere un forma di comunità che non può essere realizzata concretamente dall’uomo. Nei libri III e IV viene quindi descritta la politía, la costituzione migliore attuabile in condizioni normali, che viene descritta da Aristotele come un misto tra democrazia e oligarchia, o meglio come una forma di costituzione che si innesta su alcuni caratteri propri della democrazia e altri dell’aristocrazia.

Gli ultimi due libri, invece, sono dedicati alla descrizione della città delle nostre

preghiere. Anche in questo caso la politéia rappresenta una forma di comunità

concretamente realizzabile dall’uomo, ma a differenza della politía, questa città può nascere solo in condizioni ottimali o meglio, riprendendo l’esempio aristotelico, quando i materiali in possesso dell’artigiano (il politico) sono i migliori possibili.

Importante nella descrizione della città migliore è il tema dell’educazione, a cui Aristotele dedica per intero l’VIII e ultimo libro della Politica. Il fine dell’intero progetto pedagogico aristotelico è quello di riuscire a rendere i cittadini virtuosi.

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Tuttavia una delle caratteristiche peculiari di tale progetto consiste nel suo rivolgersi anche ai cittadini adulti, configurandosi, dunque, come un processo continuo e per così dire “permanente”. L’educazione, infatti, non è solo un modo per rendere virtuosi i cittadini, ma è anche ritenuto il mezzo più importante per garantire la coesione all’interno della pólis.

L’attenzione che Aristotele pone allo sviluppo delle capacità individuali è stato il tema che ha maggiormente interessato due pensatori contemporanei, la filosofa politica Martha Nussbaum e l’economista indiano Amartya Sen. Per entrambi, il contributo maggiore del pensiero aristotelico per ripensare la politica consiste nell’indicarne il fine, nella felicità del singolo, senza la quale non è possibile il benessere dell’intera comunità. Questo tema ha permesso sia alla Nussbaum che a Sen di rielaborare in maniera nuova e feconda temi di importanza generale, come la distribuzione dei beni, l’importanza del dibattito pubblico e la necessità di una partecipazione attiva e responsabile del cittadino.

Il IV capitolo è dedicato al pensiero di Martha Nussbaum, che si è concentrata maggiormente sul concetto di capacità collegandolo anche a scritti aristotelici diversi dalla Politica, come il De Anima e la Metafisica, al fine di mettere in luce l’aspetto “libero” delle capacità: la Nussbaum sottolinea come in Aristotele l’idea che l’uomo sia naturalmente in possesso di certe capacità non determina univocamente la direzione delle sue azioni, in quanto spetta comunque all’individuo la decisione di farne uso o meno. L’essere umano è, secondo il pensiero sia della Nussbaum che di Aristotele, portatore di un valore e di un fine in sé che è possibile realizzare solo all’interno di una comunità politica che promuove il suo sviluppo in tal senso e dunque, conduce un’esistenza dignitosa solo quando sceglie liberamente e consapevolmente il proprio percorso di vita in

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mutua collaborazione con gli altri individui che vivono nella sua comunità, mentre al di sotto una certa soglia minima di capacità un individuo non è più in grado di vivere la sua umanità.

Uno degli aspetti più innovativi della filosofia della Nussbaum è stato senza dubbio quello di stilare un elenco di capacità umane fondamentali, il cui fine è indirizzare la politica a garantire sia i beni che le condizioni esterne che permettono di svilupparle, e quindi di vivere una vita, nella prospettiva della Nussbaum, autenticamente umana.

Il pensiero della Nussbaum riguardo alle capacità presenta significativi contatti con quello di Amartya Sen al quale è dedicato il IV capitolo. Il pensiero di Sen, molto più incentrato sul tema economico, parte da una critica alle teorie moderne di stampo utilitarista, che mettono in primo piano il calcolo del benessere dello stato e dell’individuo; a suo vedere, tali teorie non sono in grado di cogliere né il malessere che può celarsi dietro l’apparente benessere economico, né quali siano gli elementi, non solo di tipo economico, indispensabili per condurre una vita felice.

Le riflessioni aristoteliche sull’individuo e la comunità politica valorizzate sia dalla Nussbaum che da Sen, permettono di pensare, secondo l’approccio delle capacità, alcuni problemi della politica economica contemporanea con l’obiettivo di garantire per tutti i cittadini, e soprattutto quelli che vivono condizioni più svantaggiate, la possibilità di vivere una vita dignitosa e felice.

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II. La comunità politica

1. Il fine della comunità politica

Aristotele, nel I capitolo del sesto libro della Metafisica, suddivide le scienze in base ai loro fini: esistono le scienze teoretiche finalizzate alla pura conoscenza, che comprendono al loro interno la matematica, la filosofia prima e la fisica; le scienze poietiche (si tratta delle téchnai) che hanno per fine la produzione; infine, le scienze pratiche che vertono sull’ambito delle azioni umane. Queste discipline comprendono l’etica, che si occupa del comportamento individuale, e la politica che si occupa di descrivere le azioni degli uomini associati nella città.

Etica e politica sono caratterizzate da uno statuto epistemologico meno forte rispetto alle scienze teoretiche, perché i fini da perseguire non sono determinati da leggi sempre vere e immutabili, ma sono vere “per lo più”. È perciò indispensabile per tali discipline l’esperienza della realtà concreta, grazie alla quale siamo in grado di conoscere cosa accade “per lo più”. La filosofia pratica, per le ragioni appena esposte, si troverà inoltre ad avere a che fare con un margine di errore molto più alto: come scrive Aristotele, tale scienza “dimostra la verità in maniera approssimativa e a grandi linee” (E. N. I, 3, 1094 b 11)1.

L’originalità della filosofia pratica aristotelica sta precisamente nella concezione dell’etica e della politica come discipline che rinunciano all’esattezza epistemica propria delle discipline teoretiche. Tra le scienze pratiche, la disciplina che Aristotele considera superiore è la politica, che viene chiamata “scienza

1 La traduzione utilizzata è quella di: Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di C. Natali, Editori

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architettonica” (E. N. I, 1, 194 a24-25), in quanto comprende in sé anche l’etica. L’importanza attribuita a tale disciplina è data dalla capacità di realizzare il bene supremo al quale tutti gli altri sono subordinati. Il bene supremo a cui fa riferimento Aristotele, a differenza di quello platonico che è di natura trascendente, è un bene del tutto inserito all’interno della realtà umana concreta, il cui conseguimento equivale alla realizzazione della felicità, la quale si realizza al meglio nella comunità. Il compito di tale scienza non sarà, quindi, solo conoscitivo, ma anche orientativo, volto a dare indicazione su come pervenire alla realizzazione di tale bene. In effetti il trattato della Politica, suddiviso in otto libri, è organizzato come un corso di lezioni indirizzate da Aristotele, pur all’interno della scuola, ai cittadini attivi nella pólis. È significativa in tal senso l’affermazione generale con cui Aristotele apre il trattato, non avendo come intento quello di iniziare una ricostruzione storica del processo di nascita e sviluppo della pólis, ma di presentare subito l’importanza di quello che sarà l’esito finale della sua trattazione nel primo libro: la comunità politica.

Dal momento che vediamo che ogni città è una forma di comunità e ogni comunità è costituita in vista di un qualche bene – giacché compiono le loro azioni per quello che sembra essere loro bene – è chiaro che tutte mirano a un qualche bene, ma in grado eminente e al più importante di tutte include tutte le altre: questa è quella chiamata città e comunità politica. ( Pol. I, 1, 1252 a 1-7)2

Aristotele in questo modo introduce al tema della politica attraverso un modello teleologico che sottende il processo di analisi delle singole parti costitutive della città. L’affermazione citata mette in evidenza anche i punti chiave che saranno

2 Le traduzioni del Libro I della Politica, sono tratte da Aristotele, Politica- Libro I, Testo a cura di

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oggetto della ricerca, ovvero: la pólis, la koinonìa e l’agathón. Il termine pólis, normalmente tradotto con “città”, per essere compreso compiutamente deve far riferimento al concetto di koinonìa. Ogni uomo, secondo Aristotele, agisce in vista di un qualche bene, dunque anche la comunità, che è composta dal vivere insieme di molti uomini, agirà in vista di un bene. La pólis rappresenta in questa prospettiva la “forma di comunità” più autorevole, in quanto include in sé tutte le forme ad essa subordinate e mira al bene più importante da perseguire, ovvero quella della “comunità politica” nel suo insieme.

La distinzione gerarchica tra i beni da perseguire è un argomento che Aristotele ha discusso nel primo libro dell’Etica Nicomachea, dove criticando l’Idea di Bene platonica, afferma che di bene unico non si può parlare se non per analogia, esistendo in realtà una molteplicità di beni. Alcuni beni però, e qui si innesta la distinzione gerarchica, sono ricercati unicamente in vista di altri e quindi possono essere considerati non come beni in sé, ma piuttosto come mezzi, altri invece possono essere desiderati come beni in sé, “ma anche di essi è dato reperire un’ulteriore gerarchizzazione, la subordinazione a un fine comune già implicita nell’effettiva desiderabilità.”3

Siffatta gerarchizzazione rende necessario un fine ultimo, altrimenti il procedimento all’infinito renderebbe nulli e privi di importanza i beni intermedi; tale fine ultimo non può che “essere il bene e il bene supremo” (E.N. I, 1, 1094 a 26). Per bene supremo si intende quello dell’uomo che coincide con quello della città, ma essendo il bene della città più grande e più perfetto sarà “più bello e più divino” da perseguire (E. N. I, 1, 1094 b 7-10). Una volta chiarito il punto di approdo finale Aristotele, seguendo un metodo adatto

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allo studio di un organismo vivente, procede alla scomposizione della città nelle sue forme più semplici in modo tale da descrivere le relazioni esistenti tra le parti e il loro sviluppo in vista del fine ultimo, la città in quanto organismo. La scomposizione negli elementi della famiglia e del villaggio sarà necessaria per evidenziare non solo la consequenzialità nel loro sviluppo, ma anche le relative differenze. Questo passaggio è importante per cogliere il distacco di Aristotele da Platone, che considerava l’unità come il bene supremo a cui la città dovesse aspirare, e che, nella Repubblica, in linea con tale prospettiva, aveva ridotto la comunità politica a una sola grande famiglia. La critica di Aristotele su questo punto, che sarà approfondita nei prossimi paragrafi, mira a mostrare come il pensiero platonico porti di fatto alla distruzione della comunità politica piuttosto che alla sua coesione, tra l’altro coerentemente con la sua visione del bene supremo dell’uomo come fine della città.

2. L’uomo animale politico e la comunità come il suo prodotto naturale

Un punto fondamentale della riflessione sul concetto di phýsis sta nel fatto che questo non si riferisce solo alla materia, come invece avevano inteso i naturalisti, ma anche e soprattutto all’aspetto della forma. Tale riflessione ha luogo nei primi due libri della Fisica, dove la natura è caratterizzata come un concetto dinamico, una fonte interna di trasformazione degli enti naturali, che rappresenta la causa del loro processo di crescita e cambiamento. In ogni ente naturale c’è sempre un sostrato, che è propriamente la materia, il “qualcosa che diviene” e che quindi cambia nel tempo le sue proprietà, e la forma che è invece “il qualcosa che esso diviene”. Nell’unione di materia e forma consiste la

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sostanza. La materia rappresenta il momento della potenza, mentre la forma quello dell’atto: il sostrato, soggetto a continui cambiamenti, passa dal non-essere qualcosa, quindi da uno stato di privazione, all’essere quel qualcosa che è la sua forma e che lo determina. La forma nel pensiero aristotelico è anche il fine, ovvero ciò a cui gli enti naturali tendono fin dal principio del loro mutamento: è dunque un principio che si “pone come anteriore all’intero processo anche se cronologicamente si realizza per ultimo.”4

Ora, gli esseri naturali si distinguono da quelli artificiali perché il loro sviluppo non dipende da cause esterne. L’essere umano, anche nella sua forma embrionale, possiede già un principio che lo porterà a svilupparsi nella sua forma umana, mentre ad esempio una scultura necessita di una causa esterna, in questo caso l’artigiano, per raggiungere la sua forma migliore. Per spiegare l’aspetto naturale della pólis, si può far riferimento5 proprio al concetto di essere per natura, illustrato da Aristotele nella Fisica. In un ente che ha in sé la propria causa, i concetti di natura, fine e funzione sono strettamente collegati “since its end just is to actualize its nature by performing its function”.6

Anche la pólis può essere considerata come un composto simile: la materia sono i suoi abitanti e la sua forma la politéia. Tuttavia è ovvio che la città è una sostanza diversa rispetto a quelle studiate dalla Fisica. Bisogna sempre tener presente che la città è un tutto, quindi una sostanza, formata da molte sostanze da cui non è prescindibile. Fatta questa precisazione possiamo affermare che la pólis rappresenta un prodotto naturale dell’uomo, non solo perché nasce da un suo istinto prettamente biologico,

4 L. Repici, Fisica e Cosmologia, in Guida ad Aristotele, a cura di E. Berti, Laterza, Roma – Bari,

1997, p.111.

5 Così per esempio C.D.C. Reeve, The Naturalness of the Polis in Aristotle, in G. Anagnostopoulos

(ed.), A Companion to Aristotle, Blackwell Publishing, Malden, 2009, pp. 512-525.

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quello alla riproduzione, ma anche in quanto ogni tappa del suo processo costitutivo è sempre integrato con il punto di vista del fine e della funzione. La città che infine si realizza compie quella sua forma (che Aristotele considera “più natura che la materia” (Phys. II, 1, 193 b 7)7

) che è la politéia, e rappresenta il miglior assetto auspicabile.

La prima comunità naturale è la famiglia. Essa si costituisce da due istinti naturali per l’uomo: quello che lo porta ad unirsi con una donna per compiere l’atto riproduttivo e quello che lo conduce all’associazione di padrone e schiavo, dove il primo è naturalmente predisposto al comando e il secondo a servire. In questa prima forma di associazione, l’oìkos, nessuno dei singoli membri può vivere senza l’altro in quanto è solo grazie al loro vivere insieme che possono essere soddisfatti i bisogni primari e quotidiani dell’uomo (Pol. II, 2, 1252 a 26-34). Il governo che appartiene a questa prima forma di associazione è definito di tipo regio per via dei rapporti di tipo psicologico che caratterizzano i singoli membri. Solo il maschio adulto e libero possiede infatti quel “surplus di razionalità”8 grazie al quale è in grado di esercitare la capacità direttiva sui membri della propria casa. Gli sono perciò sottoposte diverse figure: lo schiavo, che secondo il pensiero aristotelico manca della capacità deliberativa ed è ridotto a solo corpo, possedendo la sola razionalità sufficiente per la buona esecuzione dei compiti ricevuti dal padrone; i figli, che da fanciulli possiedono una razionalità ancora imperfetta e in fase di sviluppo non adatta al comando; e infine la donna, che pur possedendo la capacità deliberativa manca dell’autorità necessaria per poter comandare. Aristotele

7 La traduzione utilizzata è quella di Aristotele, Fisica, a cura di A. Russo, Editori Laterza, Roma-

Bari, 1968.

8 S. Gastaldi, Introduzione alla storia del pensiero politico antico, Laterza, Roma- Bari, 2008, p.

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sottolinea una differenza che intercorre tra le forme di autorità presenti nella casa: la relazione “dispotica”, che vi è tra padrone e schiavo e quella chiamata “economica” esercitata dal marito sulla moglie e i figli. La prima è una forma di governo in cui il governante esercita il suo potere per sé, e solo accidentalmente nell’interesse di chi è comandato, mentre, al contrario, la seconda forma, quella economica, è più simile all’autorità politica, in quanto il governo è sempre esercitato nell’interesse di chi è sottoposto e solo accidentalmente nell’interessa di chi comanda. Già da qui si capisce come solo l’uomo adulto e libero sarà al centro della trattazione successiva, in quanto l’unico ad essere in grado di svolgere l’attività politica.

L’associazione successiva è rappresentata dai villaggi che derivano dall’unione di più famiglie. Aristotele non dedica molto spazio a questa fase, sottolineando semplicemente come la forma dei villaggi sia dal punto di vista economico autosufficiente e in grado di soddisfare anche i bisogni secondari. Tuttavia è bene notare come anche in questo stadio Aristotele non vede un governo politico, ma ancora una forma di tipo regio, in quanto sia le famiglie che i villaggi sono governati dall’uomo libero più anziano (Pol. II, 2, 1252 b 15-21). Il governo politico, infatti, appartiene solo alla città intesa come “la comunità perfetta formata da più villaggi” (Pol. I, 1, 1252b 28). Nella famiglia e nei villaggi la gerarchizzazione dei ruoli implica una rigida suddivisione dei compiti. Tale distinzione tra le varie funzioni è strettamente collegata, come abbiamo visto, a un modello psicologico entro un quadro di tipo naturalistico: poiché, come spiega il filosofo, la natura opera in modo che ogni ente sia predisposto a svolgere una sola funzione, al fine di poterla svolgere al meglio (Pol. II, 2, 1252 b 2-9), lo schiavo o la donna non potranno mai accedere al comando, poiché questo non rappresenta il

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ruolo naturale al quale sono predisposti. Il governo politico prevede invece, in base a una riflessione che verrà ulteriormente sviluppata nei libri successivi, che governati e governanti si alternino secondo un sistema di turnazione (Pol. II, 2, 1253 a 32-34).

È importante qui osservare che nonostante sia posta come passaggio necessario del medesimo sviluppo della città, ogni tipo di associazione rimane autonoma e non assimilabile agli altri. Questa rappresenta una prima critica a Platone, secondo cui “l’uomo politico, l’uomo regale, l’amministratore della casa e il padrone si identifica” (Pol. I, 1, 1252 a 9-10), e l’unica differenza che intercorre tra i loro modi di governare dipende dalla quantità dei sottoposti. Al contrario la differenza risiede anche nei fini perseguiti dai diversi tipi di associazione: la città viene considerata come la comunità perfetta, non solo perché ha raggiunto l’autosufficienza dal punto di vista economico, ma in quanto permette ad ogni suo cittadino di “vivere bene”(Pol. II, 2, 1252 b 28-30). La pólis si esplica nella sua forma perfetta poiché, in base alla distinzione gerarchica dei fini che abbiamo descritto, persegue un bene che è molto più alto rispetto a quello delle famiglie e dei villaggi: permettendo ad ogni uomo di raggiungere la felicità, mentre le prime due forme di associazione hanno semplicemente il fine di pervenire a un benessere di tipo economico. Ne consegue che il governo politico non è quello esercitato in vista di un interesse, come avviene nel governo di tipo dispotico, ma per portare a compimento quel compito precipuo della politica che è la ricerca del bene comune. Il governo politico e quello regio o domestico presentano dunque differenze molto più profonde della semplice quantità numerica dei sottoposti, derivanti dal fatto che “le relazioni famigliari (marito-moglie, genitori-figli, padrone-schiavi) sono relazioni fra individui disuguali in rapporto alla loro

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capacità di governare, mentre le relazioni specificamente politiche, che formano la città, sono relazioni fra individui, in rapporto alla stessa capacità, fondamentalmente uguali”9

. Tutti i cittadini come tali sono naturalmente predisposti ad esercitare le cariche politiche e condividono lo stesso fine: garantire la felicità altrui e dunque quella della comunità. Il governo politico sarà allora un servire la comunità.

Come nota giustamente Berti, in questa spiegazione si può anche trovare la soluzione al problema dell’autorità del governo politico che secondo alcuni interpreti non sarebbe stato affrontato da Aristotele in maniera soddisfacente. Diversamente da filosofi come Hobbes o Rousseau, che ipotizzano un contratto sociale che porta gli individui a rispettare la volontà dell’autorità statale, sembrerebbe a prima vista mancare nel pensiero aristotelico una ragione che giustifichi l’obbedienza dei governati al governante. In realtà, l’uomo che vive nella pólis descritta da Aristotele, si trova per natura implicato in rapporti di potere necessari per l’unità e l’esistenza di essa: ciò equivale a dire che la legittimazione del potere si ritrova inscritta nella natura stessa dell’uomo, che ha come suo fine il raggiungimento della felicità, realizzabile soltanto all'interno della vita associata. Al di fuori di un quadro ove vigono rapporti di potere, e quindi di una comunità politica, l’uomo non potrebbe soddisfare quel suo bisogno naturale che è la realizzazione della felicità. La pólis teorizzata da Aristotele esisterà e sarà giustificata finché esisteranno uomini dotati della tendenza naturale a vivere insieme in vista di un bene comune. Per tale motivo l’ordine non è mantenuto attraverso una rigida suddivisione tra i governanti e i governati, visto

9 E. Berti, La nozione di società politica in Aristotele, in Id. Nuovi studi aristotelici, III – Filosofia

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che, attraverso un sistema di turnazione, prima o poi, ogni cittadino si ritroverà a ricoprire la carica del comando. È, infatti, il fine ciò che li unisce e se quest’ultimo non viene condiviso non può essere imposto attraverso un’azione di forza. Solo all’interno di una comunità l’uomo può esprimere la sua natura di “animale politico” (Pol. I, 2, 1253 a 3).

La nozione dell’uomo come animale politico è menzionata da Aristotele anche negli scritti biologici, ove riguarda tutti quegli animali, come ad esempio le api o gli stessi uomini, che possiedono un istinto naturale a vivere insieme poiché condividono uno stesso fine. In questo caso, quindi, la qualità dell’animale “politico” non è riferita alla pólis, ma piuttosto alla tendenza a formare qualsiasi tipo di società, quindi significa essenzialmente “socievole”. Alla base di questo istinto naturale vi è lo stesso principio di conservazione della specie che aveva portato alla formazione della famiglia, ma per quanto riguarda l’uomo la definizione della Politica sottolinea un elemento che esso ha in più rispetto agli altri animali politici, come ad esempio le api, che è la sua razionalità.

È chiaro allora perché l’uomo è un animale politico più di ogni ape e di ogni animale che vive in greggi. La natura, infatti, come diciamo noi, non fa nulla inutilmente; soltanto l’uomo, tra gli animali, ha la parola. La voce è segno del dolore e del piacere, perciò la possiedono anche gli altri animali: infatti la loro natura giunge fino a questo punto, ad avere la sensazione del dolore e del piacere e a manifestarla l’uno all’altro; la parola serve invece a mostrare l’utile e il nocivo, come anche il giusto e l’ingiusto. Questo infatti è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali: essere l’unico ad avere la sensazione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e delle altre cose del genere. La condivisione di queste cose costituisce la famiglia e la città. (Pol. I, 2, 1253 a 8 – 18)

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Date tali indicazioni, risulta chiaro che alla base della città vi sono due fattori naturali: uno strettamente biologico, che l’uomo condivide con gli altri animali, e uno razionale, appartenente solo all’uomo. Importante per comprendere entrambi questi fattori, è sottolineare che in Aristotele “razionale” non si colloca in antitesi al concetto di naturale, in quanto la ragione non è altro che la massima espressione della natura umana. L’uomo, mosso semplicemente dall’istinto che appartiene anche agli altri animali, può dar vita a diversi tipi di società, ma la scelta di vivere all’interno di una comunità politica, la pólis, che esprime nel modo migliore possibile la sua natura, dipende da una sua scelta libera e razionale10. La sua politicità, quindi, non è semplicemente un fattore biologico, come avviene per le api, ma permette la massima espressione della sua natura. Il panorama politico a cui poteva far riferimento Aristotele non comprendeva solo una realtà politica come la pólis. Il filosofo era a conoscenza del fatto che presso altri popoli vigevano realtà politiche differenti, come ad esempio i barbari che avevano un governo di tipo regio o dispotico, ma era sua viva convinzione che solo ed esclusivamente nella pólis l’uomo fosse in grado di esprimere appieno la sua natura umana. Uomini che vivono al di fuori della città possono essere considerati o degli dei, quindi con uno statuto superiore, o delle bestie, quindi a un livello inferiore (Pol. I, 2, 1253 a 3-4). La politicità dell’uomo si esprime anche nel suo possesso del lógos, che non deve semplicemente essere considerato, come la capacità di esprimere il piacere e il dolore, nel modo in cui anche avviene invece per gli altri animali. Grazie al lógos l’uomo è in grado di indicare cosa è giusto e cosa è sbagliato. La parola, come espressione del pensiero, rappresenta lo

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strumento che permette agli individui di entrare in relazione con i suoi simili. La città è l’unica entità che fa riferimento a valori morali, come il giusto o il bene, senza i quali è possibile “vivere”, ma non il “vivere bene”. Solo quando è a contatto con le leggi e la giustizia l’uomo è il migliore tra gli animali, invece, quando, vive lontano da essa diventa l’essere peggiore e il più scellerato (Pol. I, 2, 1252 a 31-34).

Infine, Aristotele pone la città in una posizione antecedente all’uomo stesso. La città rappresenta il tutto e l’uomo la parte e, visto che il tutto è antecedente alla parte, anche la città lo sarà rispetto all’uomo. L’analogia riportata con la pólis, la presenta come un organismo e l’uomo come la sua componente singola. Una volta che una mano viene separata corpo, non può dirsi mano che per omonimia, poiché esclusa dal complesso organismo non può svolgere la funzione che la caratterizza e la rende ciò che è. Stessa cosa vale per l’uomo al di fuori della comunità: esso può dirsi uomo solo per omonimia (Pol. I,2, 1253 a 20-25) . Questa celebre definizione, però, non deve indurre a considerare il pensiero di Aristotele totalitario: il suo obiettivo non è mai quello di ridurre la parte al tutto o viceversa. Come abbiamo precedentemente sottolineato, la città è una sostanza, ma che però non può esistere se viene eliminata la molteplicità che la compone. Il termine “anteriore” non dev’essere inteso in senso cronologico, ma piuttosto come elemento “indispensabile”, senza il quale l’uomo non potrebbe raggiungere la propria perfezione. Il compito essenziale della città, infatti, rimane quello di permettere ad ogni singolo individuo di vivere bene e raggiungere la sua felicità.

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3. La critica al comunismo platonico

Il secondo libro della Politica è interamente dedicato alla critica di posizioni politiche, costituzioni o progetti costituzionali elaborati precedentemente. Più interessante, per il nostro discorso, come già accennato, è la critica che Aristotele indirizza alle teorie della Repubblica platonica.

Secondo Platone la pólis era malata: la politica imperialistica ateniese aveva fatto della città una comunità dedita al lusso e tanto da essere “malata”. L’anima degli uomini che la popolavano era animata solo dal desiderio di sopraffare il prossimo per prenderne il potere, in una costante lotta tutti contro tutti senza nessuna traccia del sentimento di collaborazione. Platone era però convinto che l’anima potesse essere plasmata e indirizzata verso sentimenti più nobili attraverso l’educazione. Tutto ciò non era possibile agendo su ogni singola anima, come prevedeva il metodo socratico, ma solo se questo compito educativo fosse stato assunto dalla città intera11. Una città giusta poteva rendere razionale i suoi cittadini. Per guarire la città, Platone aveva elaborato un programma esposto nei libri centrali della

Repubblica, configurando soluzioni drastiche, ma ai suoi occhi del tutto

necessarie.

Per comprendere appieno il punto centrale su cui si innesta la critica di Aristotele, ovvero l’abolizione della proprietà privata, è bene soffermarsi su un elemento fondamentale nella Repubblica, l’isomorfismo tra l’apparato psichico umano e la città. Qui l’anima di ogni uomo è suddivisa in tre parti: razionale, irascibile e desiderativa. Non si tratta di tre anime separate (essa rimane fondamentalmente una) ma di diversi centri motivazionali dell’azione: in una perfetta situazione di equilibrio e salute avremo un uomo guidato dalla parte razionale dell’anima, con

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una sottomissione delle altre due, in una giusta disposizione gerarchica che può essere raggiunta attraverso una buona educazione. Allo stesso modo anche la città è tripartita: alla parte appetitiva corrispondono i commercianti e gli agricoltori, la parte irascibile composta dai guardiani e infine la parte razionale formata dai filosofi. Ogni gruppo ha una virtù peculiare che giustifica la sua posizione: i filosofi, grazie alla loro conoscenza, sono in possesso del “sapere politico”; i guardiani sono animati dal coraggio e una indispensabile fedeltà al comando dei filosofi; infine, i commercianti e gli agricoltori sono dotati di sophrosýne, la moderazione utile a comprendere la loro posizione di subordinazione e obbedienza agli altri due gruppi. I cambiamenti maggiori sono quelli riguardanti il ceto dirigente, formato da guardiani e filosofi, i quali devono condividere un tipo di vita comunitaria. Platone ritiene che un buon metodo per rendere la classe dirigente sgombra da lotte interne è quello di separare la proprietà privata e i ruoli di governo. L’idea platonica, totalmente in contrasto con il pensiero e gli usi tradizionali, prevede la messa in comune sia della proprietà economica, le terre, che di quella affettiva, mogli e bambini. In tal modo, la classe dirigente forma un’unica grande famiglia, dove nessuno può più rivendicare il possesso di qualcosa e desiderare di quello che gli è concesso. Questa estrema soluzione è, nel pensiero platonico, l’unica che possa assicurare l’unità all’interno della città e garantire la giustizia. Infatti, allo stesso modo dell’uomo, anche la città giusta è quella dove la parte appetitiva e collerica vengono sottomesse a quella razionale. La kallípolis, anche se formata da tre parti, è un’anima sola, dove ogni componente svolge il ruolo assegnatole senza nessun tentativo di prevaricazione.

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Per Aristotele tutto questo è “bello, ma impossibile” (Pol. II, 3, 1261 b 31).12 L’analisi critica di Aristotele si rivolge soprattutto al carattere utopico del progetto platonico, che, non tenendo conto degli interessi individuali, tende in ultima analisi a soffocare la pluralità indispensabile per la città. Aristotele ritiene invece che l’unità è sì un bene per la città, ma non giustifica la soppressione delle singole individualità che si esprimono anche nel possesso della proprietà. Come abbiamo più volte sottolineato, per Aristotele, la città è una sostanza formata da una molteplicità di parti che differiscono dall’intero e la cui unità può risultare dal loro stare insieme. Se la città perde il suo carattere plurale, viene distrutta come “se si riducesse la sinfonia all’unisono o il ritmo a un solo piede” (Pol. II, 5 1263 b 34-35).

Gli argomenti che Aristotele utilizza sono essenzialmente due, uno di tipo economico, e uno più dettagliato, che si basa su riflessioni della psicologia umana. Secondo il primo punto di vista, Aristotele osserva che l’autosufficienza è un bene maggiore per la pólis, rispetto all’unità: la famiglia sarà più autosufficiente rispetto all’individuo, ma la famiglia lo è meno rispetto alla città.

Se dunque si deve preferire ciò che è più autosufficiente, allora bisogna preferire anche ciò che è meno unitario rispetto a ciò che lo è di più. (Pol. II, 2 1261 b 14-15)

Il secondo argomento riguarda più da vicino gli effetti psicologici del possesso comune delle donne e dei figli. Infatti è tipico dell’essere umano, secondo Aristotele, occuparsi con più attenzione di ciò che gli appartiene, piuttosto che di

12 Le traduzioni del Libro II della Politica, sono tratte da Aristotele, Politica- Libro II, Testo a cura

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quello che ha in comune con altri. Una città dove tutti possono chiamare chiunque padre o figlio genererà un sempre maggiore disinteresse, soprattutto verso i giovani che non saranno curati da nessuno in particolare (Pol. II, 3, 1261 b 34- 40): Aristotele attinge da un carattere importante della psicologia umana, la relazione affettiva di appartenenza, inoltre, in una situazione di tal genere, venendo meno il sentimento di rispetto che ognuno prova naturalmente verso i propri famigliari, potranno essere commesse verso di loro azioni delittuose, o, ancor peggio, potrebbero venirsi a creare situazioni incestuose (Pol. II, 4, 1262 a 24-40).

Le posizioni opposte dei due filosofi vengono alla luce proprio su questo punto: per Platone il possesso è motivo di discordia, mentre per Aristotele è proprio da esso che nasce nell’uomo il sentimento che permette la realizzazione dell’unità. Una costituzione del tipo platonico, inoltre, non permette all’uomo di esercitare una virtù importantissima per la città, ovvero l’amicizia (philía), su cui si fonda la solidarietà politica (Pol. II, 4, 1262 b 10-15).

L’amicizia, per Aristotele, comprende ogni tipo di relazione affettiva, è intimamente legata alla natura politica dell’uomo ed è una virtù indispensabile per la sua felicità. Se anche qualcuno possedesse molti beni, come la salute o le ricchezze, ma mancasse di persone care, di amici attorno a lui, non potrebbe essere felice (E. N. VIII, 1, 1155 a 1-10). La comunanza della proprietà terriera limita la virtù perché, impedendo all’individuo di mettere a disposizione i frutti della sua terra per aiutare gli amici, “non si potrà compiere alcuna azione generosa” (Pol. II, 5, 1263 b 14). L’amicizia è dunque quel sentimento grazie al quale gli uomini riescono a vivere in concordia e che spinge due individui ad entrare in tutt’uno l’uno con l’altro, ma in un luogo dove non è possibile una

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proprietà, sia affettiva che economica, l’amicizia si diluisce al tal punto da non essere più percepita (Pol. II, 4, 1262 b 17-18).

Qui va sottolineata un’idea che Aristotele lascia implicita, ovvero che l’amore per se stessi è del tutto naturale e soprattutto utile alla conservazione della parte più importante di sé, quella razionale. In questo senso, l’amore che ognuno prova per le cose che gli appartengono è come un’estensione dell’amore verso di sé. L’elargire qualcosa che ci appartiene è dunque un gesto virtuoso perché permette di estendere l’amore verso se stessi anche agli altri13. In questa estensione dell’amore da sé verso il prossimo risiede la generosità. Una legislazione del tipo platonico, quindi, invece di realizzare la concordia e aumentare lo spirito di collaborazione non farà altro che impedire all’uomo di mettere in pratica le sue virtù, fomentando lotte civili tra uomini che non hanno alcun valore. Tuttavia la contraddizione fondamentale che Aristotele mette a nudo nelle tesi platoniche è l’impossibilità di raggiungere il suo obiettivo principale, ovvero la felicità della comunità. Nella kallípolis, infatti, un uomo incapace di esprimere la sua virtù non potrà vivere bene e quindi essere felice, e, come scrive Aristotele:

è impossibile che la città nel suo complesso sia felice se il maggior numero o tutte o alcune delle sue parti non possiedono la felicità. (Pol. II, 5, 1264 b 18-20)

13 Cfr. Curnis-Pezzoli, op. cit., p. 218.

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4. Individuo e comunità, privato e pubblico nella Politica

Questa spiegazione merita di essere approfondita ricordando che per Aristotele la felicità si configura per essere un modo di vivere che si svolge attorno a un’attività principale. Ogni uomo cerca di svolgere nella maniera migliore possibile una certa attività, ad esempio, il suonatore di flauto cercherà di suonare nel miglior modo possibile il suo strumento, lo scultore di produrre opere perfette e così via (E. N. I, 7, 1098 a9-14). Analogamente il compito dell’uomo in generale sarà connesso con una funzione che lo caratterizza in quanto tale e che non si ritrova in nessun altro animale (E.N. I, 7, 1098 a14-16). Questa attività principale, inoltre, potrà essere considerata come il fine ultimo della vita, un fine cioè che, una volta raggiunto, permetta all’uomo di vivere la vita migliore possibile che nessun bene in più possa migliorare. Tale attività viene identificata con quella dell’anima razionale che agisce secondo virtù. Quest’ultima viene suddivisa in due parti: quella intellettuale, che comprende la sapienza e la comprensione, e quella morale che comprende in sé la temperanza e la generosità (E. N. I, 13, 1103 a4-10). L’anima, però, non è formata semplicemente dalla parte razionale, ma comprende anche una parte irrazionale formata da desideri ed emozioni, che rappresenta un aspetto fondamentale dell’apparato psichico umano: le emozioni, infatti, sono quella parte dell’anima che ci inducono al movimento e all’azione. Quest’ultime svolgono un ruolo fondamentale nella teoria della felicità aristotelica: non basta ad esempio possedere la virtù della temperanza e della generosità, ma è anche necessario, per essere felici, saper mettere in pratica queste virtù.

Una buona città è per Aristotele uno spazio dove ogni cittadino è in grado di mettere in atto le proprie virtù, ma ciò non accade, secondo Aristotele, in una

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costituzione di tipo platonico. Platone non ha insomma compreso ciò che davvero è dannoso per la comunità politica, che non è la proprietà privata ma un agire non conforme alla virtù. Secondo Aristotele una genuina identificazione con la comunità politica di appartenenza è possibile solo con l’educazione, cui non a caso il filosofo dedica l’intero ultimo libro della Politica. Platone non aveva trascurato il tema dell’educazione, ma l’aveva trattato nella prospettiva di realizzare l’universale a scapito degli interessi individuali; Aristotele non intende invece superare la continuità con gli interessi particolari, e perciò la sua analisi fa “perno su virtù private, non politiche, per contestare la repubblica dei guardiani; rivendica la libertà morale ancor prima di quella politica.”14 Una città che non sia in grado di reggere il peso della libertà di scelta del singolo è una città che impedisce ai cittadini di mettere in pratica anche la loro capacità politica. I cittadini platonici perdono la loro identità, non si riconoscono né come privati membri di un ambiente famigliare, né come cittadini attivi all’interno di un contesto politico. L’essere privi di un’identità, “l’essere identici li fa indifferenti sia agli altri sia al bene della città”.15 La soppressione delle varie individualità produce una vana vita pubblica che è solo “una mimica del privato”.16

Aristotele, per cui un buon cittadino è colui che sa tenere una buona condotta sia in privato che in pubblico, conforme dunque a una città che sappia integrare pubblico e privato anziché porli in un rapporto di esclusione, ma, in questa concezione l’individuo non ha il peso preponderante che molti studiosi vi hanno visto, attribuendo ad Aristotele tesi marcatamente individualiste.

14 N. Urbinati, Liberi e uguali, Contro l’ideologia individualista, Editori Laterza, Roma – Bari,

2011, p. 99.

15 Ivi, p. 98. 16 Ibidem.

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Guardando al contesto storico nel quale ha preso forma il pensiero politico aristotelico, è opportuno ricordare il periodo di crisi che la pólis greca, e in particolare quella ateniese stava attraversando. Molti uomini, come ad esempio i filosofi, spinti da sfiducia verso le leggi vigenti e nella pólis come istituzione, richiedevano sempre di più uno spazio di espressione privato in cui coltivare i propri interessi, diverso da quello politico. Sia Platone che Aristotele erano consapevoli che alla base della crisi che coinvolgeva le istituzioni cittadine vi era la corruzione e il crescente individualismo. Tuttavia Aristotele non condivide affatto i rimedi estremi proposti dal suo maestro per superare la crisi, ed è per questo che da una parte li critica e dall’altra cerca di elaborare una sua proposta più praticamente utile a restituire compattezza alla città. Valorizzando l’interesse individuale, senza d’altronde spezzare la continuità con quello pubblico. In questa prospettiva l’educazione assume un ruolo fondamentale. L’azione educativa dev’essere considerata in un’accezione molto più ampia rispetto a quella dei moderni. Non si intende, infatti, semplicemente l’educazione rivolta ai fanciulli, ma di un’azione sempre presente nella vita dell’uomo. Il compito educativo viene portato a compimento nella comunità politica dalle leggi, le quali non comprendono solo quelle scritte, ma anche quelle “non scritte” che fanno riferimento ai buoni costumi da tenere all’interno della città. L’educazione, più che in una formazione dei fanciulli, consiste “nell’esperienza risultante dalla partecipazione dei singoli nella attività pubbliche, specialmente politiche, della città, come dal loro coinvolgimento in attività pubbliche come le rappresentazioni teatrali e i festival cittadini”17

. È tale esperienze a formare l’uomo.

17 W. Leszl, Individuo e comunità politica, in a cura di G. Carillo, Unità e disunione nella pólis,

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Anticipando un tema che verrà ripreso e ampliato nei prossimi capitoli, bisogna considerare che nella pólis non è ancora presente la separazione tra Stato e società civile. In età moderna questa separazione inizia dal XVII secolo e lo Stato si configura come l’organo del comando, mentre la società civile rappresenta l’insieme dei cittadini privi di potere politico che svolgono attività essenzialmente economiche18. Per Aristotele la pólis è intesa come il luogo dove il governo, dal punto di vista dell’autorità suprema che detiene il potere, e società civile, intesa come comunità di cittadini, si identificano nello stesso organo politico. Egli aveva del resto di fronte a sé un modello di democrazia diretta, dove il singolo, a differenza che nelle moderne democrazie rappresentative, prendeva personalmente parte alle decisioni importanti della comunità. Questo modello democratico faceva sì che da una parte il cittadino si sentisse direttamente responsabile delle decisioni prese, e dall’altra crescesse in lui il senso di un ruolo utile che poteva esercitare nella comunità.

Anche Aristotele, su questo sfondo, vede la realizzazione di un uomo strettamente legata all’attività politica. In tal senso, la sua difesa della gestione privata della casa e dei possedimenti non è fine a se stessa. La felicità di un uomo non dipende dalle ricchezze che possono derivare dai suoi possedimenti, ma dal potere e saper mettere in pratica la sua virtù politica. Il privato, dunque, non sussiste mai senza il pubblico. La critica a Platone del secondo libro si connette con l’idea che solo grazie alla serenità che gli deriva dalla buona gestione della casa l’individuo può permettersi il tempo libero necessario ad adempiere ai suoi doveri di buon cittadino. La difesa della sfera privata non può e non deve tradursi in una teoria

18 Cfr. E. Berti, Storicità e attualità della concezione aristotelica dello Stato, in Id. Nuovi studi

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individualista: la dignità del singolo dipende comunque dalla sua partecipazione a quell’organismo completo che è la pólis. L’ambito politico è lo spazio in cui ogni cittadino ha la possibilità di emergere dando prova del suo valore come uomo. In questo senso la pólis assume un statuto di priorità rispetto all’individuo. Anche la libertà di scelta, che nella concezione aristotelica riguarda i mezzi e non i fini, deve esercitarsi sempre nel contesto comunitario.

Con i primi due libri della Politica si conclude un’analisi preliminare che funge da base per l’esposizione del tema centrale del trattato, ovvero l’esame critico delle costituzioni al fine di pervenire al modello costituzionale migliore rappresentato dalla politéia, paradigma a cui ogni comunità politica dovrebbe aspirare.

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III. Il regime costituzionale migliore

1. Le definizione di costituzione e cittadino

Nel terzo libro della Politica Aristotele indaga sul concetto di costituzione; ad essere messo in evidenza è innanzitutto il legame tra costituzione e città, affermando che l’indagine sulla costituzione richiede quella sulla città (Pol. III, 1, 1274b 32-35)19. Il quesito da cui Aristotele parte riguarda chi debba essere ritenuto responsabile degli atti politici tra la città o il suo regime (Pol. III, 1, 1274 b 35-38): notiamo dunque fin da subito come i due termini (città e costituzione), anche se strettamente collegati, non possono essere considerati complementari né tanto meno essere sovrapposti.

Questa domanda, che inizialmente non trova risposta, permette ad Aristotele di dare una prima definizione del concetto di costituzione come “un certo ordinamento di coloro che abitano la città” (Pol. III, 1, 1274b 38). Tale definizione, ancora incompleta, induce erroneamente a considerare cittadini tutti coloro che abitano la pólis mentre, poco dopo, Aristotele precisa che:

poiché la città rientra tra i composti, al pari di qualsiasi altra totalità costituita da molte parti, è chiaro che anzitutto si deve sottoporre a indagine il cittadino, perché la città è una certa moltitudine di cittadini. (Pol.III, 1, 1274 b 38- 41)

La nuova definizione chiarisce che solo i cittadini possono essere considerati parte integrante della comunità ed è proprio per l’importanza attribuita loro che la trattazione successiva verte sulla definizione di cittadino.

19 La traduzione utilizzata è quella di: Aristotele, Politica, Libro III, a cura di Paolo Accattino e

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Nel capitolo precedente, dedicato ai primi due libri della Politica, si è già notato come la capacità deliberativa, necessaria per svolgere ruoli di governo, sia una caratteristica appartenente solo ai capi-famiglia, i maschi adulti e liberi: coerentemente con questa limitazione, Aristotele non considera cittadini né gli schiavi, né i meteci (gli stranieri che abitano la città, come ad esempio Aristotele stesso), né i fanciulli, né gli anziani (Pol. III, 1, 1275 a 5-20). Le figure elencate condividono la residenza nello stesso luogo, ma ciò non basta per essere considerati cittadini: i meteci, i fanciulli e gli anziani sono cittadini incompleti, in quanto possono usufruire della giurisdizione della città, ma non possono accedere alle assemblee e ai ruoli di governo, mentre cittadino completo, inizialmente, viene definito colui che partecipa al governo e svolge la funzione di giudice (Pol. III, 1 1275 a 22-23). Aristotele ritiene, però, riduttivo comprendere tra i cittadini solo coloro che governano, occupando cariche a tempo determinato, e, per questo, estende la portata del concetto facendo rientrare tra “i cittadini per eccellenza” tutti coloro che possono partecipare alle cariche da lui chiamate a tempo

indefinito.

Certe cariche si distinguono per la durata, cosicché alcune non possono essere coperte due volte, oppure possono esserlo solo a determinati intervalli di tempo; invece altre, come la funzione di giudice o del membro dell’assemblea, sono a tempo indeterminato. Forse qualcuno potrebbe sostenere che questi non sono veramente pubblici ufficiali e quindi non hanno posti di comando: però non è serio voler escludere dal comando proprio quelli che si trovano ai vertici del potere. Dove starebbe mai la differenza? È una pura questione di nomi, dovuta al fatto che non esiste un’espressione che accomuni il giudice e il membro dell’assemblea e permetta di designare ambedue. Pertanto, al fine di darne una definizione, chiamiamo tale carica “ufficio senza limite di tempo”, e stabiliamo

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quindi che i cittadini sono coloro che partecipano di esso. (Pol. III, 1275 a 25-33.)

Questa distinzione tra i diversi tipi di carica permette ad Aristotele di estendere la nozione di cittadino a tutti coloro che hanno la possibilità di prendere parte all’amministrazione della giustizia (inclusa nelle cariche a tempo indefinito) e al governo attraverso il sistema di turnazione.

Un moderno lettore della Politica difficilmente potrà condividere l’idea di escludere parte della popolazione dall’amministrazione della città, tuttavia se si guarda al contesto storico in cui il pensiero di Aristotele nasce e si sviluppa (il IV secolo a. C.), non si potrà fare a meno di notare quanto il suo progetto politico sia in realtà molto più democratico rispetto, ad esempio, a forme di governo a lui contemporanee in cui ogni membro della comunità veniva considerato come schiavo20.

Aristotele, nonostante escluda parte della popolazione dal corpo civico, è estremamente consapevole del legame che intercorre tra le costituzioni vigenti e il compito del cittadino: la definizione che ha infatti utilizzato per descrivere le sue funzioni è corretta se si riferisce a una democrazia, dove ad esempio sono presenti le assemblee, ma non per quei regimi istituzionali come Sparta e Cartagine, che non prevedono cariche a tempo indefinito.

In conclusione, Aristotele cerca di conciliare i punti chiave della discussione: il

cittadino come colui che partecipa ad un’arché e la nozione di cittadino relativa alla costituzione, in una definizione che sappia includere entrambi i concetti e che

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quindi possa avere un significato universale, senza il riferimento a una città in particolare.

Da tutto ciò è evidente chi sia il cittadino: colui che ha facoltà di partecipare a una carica deliberativa o giudiziaria, noi diciamo che è senz’altro cittadino di questa città e, per parlare in senso stretto, diciamo città quella moltitudine di individui di questo tipo che soddisfi l’autosufficienza di vita. ( Pol. III, 1, 1275b 15-20)

La definizione data non è di carattere normativo, quanto piuttosto descrittivo: il suo fine non è quello di definire chi dovrebbe correttamente essere qualificato come cittadino e rivestire le cariche di governo, bensì descrive semplicemente come cittadino colui che ha la facoltà di esercitare un dato potere21.

Nel terzo capitolo, Aristotele riprende il problema che aveva lasciato insoluto all’inizio del primo: il chiarimento su chi sia responsabile degli atti politici, la città o il suo regime. La risposta a tale domanda sottolinea ancor di più il rapporto che intercorre tra cittadinanza e costituzione: infatti, in presenza di una tirannide ad agire è il tiranno, nelle oligarchie sono gli oligarchi e infine nelle democrazie ad agire è il démos (Pol. III, 3, 1276 7-13)22. Il popolo qui non viene inteso come l’insieme degli abitanti, ma di coloro che possiedono il pieno diritto di cittadinanza. Risulta quindi chiaro che una città rimane la stessa solo fino a quando non varia la sua costituzione, allo stesso modo in cui, spiega Aristotele, un coro tragico e uno comico, pur se composti dallo stesso materiale umano, non possono essere considerati uguali in quanto variano nella loro forma (Pol. III, 3, 1276 b 4-5). La città è definita come “una comunità di cittadini che condividono

21 Cfr. Aristotele, Politica, Libro III, cit., p. 151.

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una costituzione, e quest’ultima conferisce la forma al corpo civico” (Pol. III, 1276 b 1)

2. Le costituzioni rette e degenerate

Una volta terminato il discorso sulle costituzioni in generale, Aristotele distingue i diversi tipi di costituzione, chiarendo anche, in maniera più specifica, a cosa facciano riferimento all’interno della città. Già nel definire la costituzione come forma della città risultava evidente l’identificazione tra le costituzioni e i ruoli di governo e in particolare quello più importante: il políteuma, il corpo politico sovrano. La costituzione coincide con il corpo politico che detiene l’autorità (Pol. III, 7, a 25-26) e il políteuma si compone di tutti gli abitanti che prendono parte ai ruoli di governo, definiti da Aristotele cittadini in senso stretto, e varierà da città e città, in base alla forma di governo. Pertanto risulta chiaro dagli esempi che riporta Aristotele, quando afferma che nelle democrazie padroni sono i tanti e nell’oligarchie i pochi, che “le costituzioni varieranno al variare dell’estensione dell’elemento che detiene la sovranità”23

.

Nonostante ciò, indipendentemente da quanti e chi siano gli uomini al governo, è necessario specificare che le costituzioni si dividono in rette e degenerate ( Pol. III, 7, 1279 a 27-30). Al fine di comprendere questo punto, è bene riportare alla mente il passo del primo libro della Politica in cui Aristotele definisce l’uomo come animale politico (Pol. I, 2, 1253 a 1-7), il cui senso è che l’individuo vive

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all’interno della società politica poiché solo in essa ha la possibilità di esprimere appieno la sua natura di uomo e di conseguenza essere felice.

Il fine delle costituzioni rette è proprio il benessere della comunità e mai l’interesse di chi comanda. Per illustrare la distinzione tra i regimi costituzionali retti e deviati, Aristotele si richiama ai diversi tipi di autorità inerenti alla famiglia ed esposti nel primo libro: vi è il governo dispotico, che è quello del padrone sullo schiavo, che viene esercitato essenzialmente nell’interesse di chi governa; quello economico, del marito su moglie e figli, esercitato nell’interesse dei sottoposti “oppure in vista di qualcosa di comune a entrambi” (Pol.III,6, 1278 b 39). Il rapporto che si instaura nel governo economico è lo stesso che ha luogo nell’esercizio di una tecnica come la navigazione, la medicina o la ginnastica: essenzialmente la tecnica è esercitata nell’interesse di chi è destinatario, ma anche, a volte, a vantaggio di chi la esercita.

Nulla vieta infatti che l’istruttore sia occasionalmente egli stesso uno di quelli che fanno ginnastica, così come il timoniere è sempre uno dei naviganti. Ora l’istruttore, o il timoniere, mira sì al bene dei sottoposti, ma laddove venga a essere egli stesso uno di questi, partecipa accidentalmente del vantaggio; in effetti, l’uno è un navigante e l’altro diventa uno di quelli che fanno ginnastica, pur essendo istruttore. (Pol. III, 6, 1279 a 2-8)

La distinzione tra i diversi tipi di autorità può essere interpretata come una critica al pensiero espresso nel primo libro della Repubblica di Platone da Trasimaco, il quale nel dialogo con Socrate afferma che giusto è ciò che torna utile al potere e, essendo il detentore del potere sempre il più forte, il giusto è l’utile del più forte (Rep. I, 339 a3). La posizione che Aristotele sostiene con l’esempio delle tecniche e del governo economico è opposta: il potere, in questi due casi, mira a realizzare

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ciò che è meglio per gli oggetti di cui si prende cura, realizzando in tal modo l’utile del più debole24

.

I governi dispotico ed economico tendono comunque a realizzare un utile parziale che si esplica nell’immediato, mentre l’unica forma di comunità che mira all’utile più giusto è la comunità politica, che mira all’utile che “si estende all’intera nostra vita” (E. N. VIII 11, 1160a 23). La differenza fondamentale tra la comunità politica e le altre forme di autorità risiede nel fatto che, mentre nelle seconde è presente la subordinazione dei sottoposti ai governanti, la comunità politica si esercita su uomini liberi e uguali, per cui “si ritiene giusto esercitare le cariche politiche a turno” (Pol. III, 1279 a 9-10). Aristotele ritiene che nel caso di un governo politico l’interesse non sia mai rivolto a chi governa, ma sempre verso i governati; pertanto le costituzioni rette sono sempre quelle in cui il legislatore attua il vero compito della politica, il bene della comunità, mentre deviate sono tutte quelle forme che hanno un carattere non adatto a una città formata da uomini liberi e uguali.

Aristotele individua le tre forme di costituzioni degenerate in tirannide, oligarchia e democrazia, che derivano dalle rispettive forme di costituzione rette, monarchia, aristocrazia e politía (Pol, III, 7, 1279 b 6-8).

La politía25 è considerata come la costituzione per eccellenza, non solo dal punto di vista qualitativo, ma anche dal punto di vista normativo: alcuni studiosi hanno visto in essa una sorta di “costituzione prima”, in base alla quale può essere

24 Cfr. Aristotele, Politica, Libro III, cit., p. 175.

25 Il termine politéia è generalmente tradotto con “costituzione” ma nella Politica, oltre ad avere

tale significato, Aristotele lo utilizza per designare il regime costituzionale migliore. In questo caso optiamo per la distinzione utilizzata da Berti in Il pensiero politico di Aristotele, cit., traducendo con politía quando il termine designa il regime costituzionale migliore tra quelli retti e opposto alla democrazia, trattato nei libri III e IV della Politica. Il termine politéia verrà successivamente ripreso per descrivere la città delle nostre preghiere descritta nei libri conclusivi del trattato.

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misurato il diritto e la pretesa di tutte le altre forme di governo di essere considerate delle costituzioni in quanto tali. Tale impostazione teorica del concetto di politía, presuppone l’attenzione di Aristotele per l’esperienza delle città a lui contemporanee: la descrizione delle varie costituzioni greche, nella comprensione della loro molteplicità, è a sua volta il materiale empirico utile alla riflessione in rapporto a tale concezione ideale26.

Secondo Aristotele la politéia è, in generale, anche il nome “con cui si designano tutte le costituzioni” (Pol. III, 6, 1279 a 38). Alcune forme, infatti, sono più degenerate rispetto ad altre: la tirannide, ad esempio, è peggiore della democrazia in quanto rappresenta la forma di governo che meno assomiglia alla regime costituzionale migliore; mentre la democrazia rappresenta la forma migliore tra quelle degenerate, proprio perché relativamente più vicina alla politía.

Interessante a questo punto è notare un altro criterio che Aristotele pone per distinguere forme di governo come democrazia e oligarchia, che non dipende solo dalla quantità degli uomini presenti nel governo, ma anche e soprattutto dal loro status economico-sociale. Nelle oligarchie, infatti, governano i pochi, che compongono la parte ricca della popolazione, mentre nelle democrazie a governare è la massa, la parte più povera della città: “ciò per cui la democrazia e l’oligarchia differiscono l’una dall’altra sono la povertà e la ricchezza” (Pol. III, 8, 1279 b 40 – 1280 a 1): il criterio discriminante per l’attribuzione dei ruoli di governo nelle oligarchie è la ricchezza, mentre nelle democrazie è la libertà. Entrambe queste forme di governo sono degenerate in quanto perseguono un tipo di giustizia parziale: i ricchi governano nell’interesse di preservare la loro

26 Cfr. G. Bien, Die Grundlengung der politischen Philosophie bei Aristoteles, Freiburg, Verlag

Karl Alber, 1973, trad. it. a cura di M. L. Violante, La filosofia politica di Aristotele, Il Mulino, Bologna, 1985, pp. 307-308.

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ricchezza, i poveri invece per cercare di mantenere la propria libertà; la comunità, invece, non si istituisce allo scopo di garantire i beni materiali utili per la sopravvivenza dei cittadini, ma per permettere a tutti di vivere bene (Pol. III, 9, 1279 a 31-32). Il giusto criterio a cui la distribuzione delle cariche politiche dovrebbe fare riferimento è la virtù politica, che rappresenta il vero contributo che ognuno può dare alla realizzazione del bene comune (Pol. III, 9, 1280 b 6-7). Tuttavia Aristotele crede che il governo dei molti sia migliore rispetto a quello dei pochi, innanzitutto per le ragioni esposte nell’argomento comunemente noto come la teoria della somma: i più, pur non essendo tutti perfettamente buoni, possono contribuire alla virtù e saggezza totale, formata dalla somma delle virtù particolari di ogni uomo, che sarà maggiore rispetto a quella dei pochi; in tal modo la moltitudine è considerata come un soggetto dalle capacità potenziate (Pol. III, 11, 1281 a 42- 1281b 10).

Il secondo motivo, di ordine pratico, riguarda la stabilità della comunità, considerata un bene fondamentale. L’esclusione dei molti dai ruoli di comando è riconosciuta come causa di una maggiore instabilità, in quanto porta in sé la possibilità dell’insurrezione della maggior parte della popolazione estranea alla gestione del potere (Pol. III, 12, 1281 b 25-29).

Il terzo argomento rappresenta anche una critica alle tesi sostenute da Socrate nel

Protagora di Platone: come spiega Aristotele, è chi beneficia del sapere e non

colui che lo detiene, l’esecutore, come in Platone, il miglior giudice di una tecnica (Pol. III, 11, 1282 a 16-24).

Tuttavia Aristotele pone dei limiti a qualunque autorità: chiunque sia il detentore del potere politico dovrà sottostare all’autorità delle leggi, che rappresentano l’istanza ultima e sovrana. Le leggi sono adattate alla costituzione vigente: tanto

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