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L’organizzazione della città felice

III. Il regime costituzionale migliore

4. La “città delle nostre preghiere”

4.2. L’organizzazione della città felice

I capitoli centrali del VII libro (4-13) sono dedicati alla trattazione dell’organizzazione pratica della città ideale. Tutte le caratteristiche analizzate rappresentano i parametri ideali per la realizzazione della città felice, molte di queste tematiche fanno riferimento a degli aspetti materiali ed economici della città che non sono ancora stati affrontati, quali: la popolazione, il clima e la posizione territoriale, l’economia mercantile, il potere navale, la suddivisione tra il pubblico e il privato e infine l’urbanistica e la sicurezza militare della città. Questi stessi temi che precedono quello centrale, di cui si occuperà tutto l’VIII libro, ovvero l’educazione, fanno riferimento alla figura del legislatore con cui è istituito un paragone con l’artigiano.

Bisogna dare per scontate una serie di condizioni auspicabili, ma in nessun caso impossibili; intendo, per esempio, la consistenza della popolazione e del territorio. Del resto, questo vale anche per gli artefici: come il tessitore e il costruttore di navi hanno bisogno di un materiale idoneo alla loro impresa (e quanto più la materia prima è ben preparata alla lavorazione, tanto più il prodotto di questa risulterà bello), così anche l’uomo politico e il legislatore hanno bisogno di un materiale idoneo opportunatamente predisposto. (Pol. VII, 4, 1325 b 38-1326 a 5)

Ecco perché Aristotele chiama la comunità di cui sta parlando la città delle nostre

preghiere: si può solo sperare che i materiali preesistenti siano ottimi, ma nessuno

sa, ad esempio, che il clima influenza il carattere degli abitanti, ma se questo è sfavorevole il legislatore può fare ben poco per cambiare le cose. Tuttavia vi è sicuramente una differenza tra l’artigiano e l’uomo politico: mentre infatti il primo non ha assolutamente nessun controllo sul materiale che tratta, il secondo, in virtù del suo esercitare un potere, può avere un controllo maggiore sul materiale (in questo caso la popolazione) di cui si occupa, ad esempio guidando i cittadini verso la virtù.

Le prime caratteristiche della città felice ad essere analizzate sono proprio la popolazione e il suo territorio (Pol. VII,4,1326 a 5-8). Si nota fin da subito che il parametro che Aristotele usa per definire in ogni suo aspetto la città è quello della

medietà, intesa come la giusta proporzione che garantisce l’equità in ogni aspetto.

La popolazione, infatti, dev’essere formata da un numero consistente di cittadini in senso stretto, cioè uomini capaci di portare le armi (ovvero i cittadini che nel IV libro aveva lodato nella sua costituzione media), e da un numero meno cospicuo di meteci, schiavi o lavoratori manuali, per un totale di un numero di abitanti atta a garantire l’autosufficienza della città, ma che comunque consenta ad ogni cittadino di conoscersi in modo da poter eleggere le persone più adatte per le varie cariche e per poter emettere sentenze giuste nei confronti dei cittadini che vengono processati (Pol. VII, 4, 1326 a 10-25).

Il carattere della popolazione è poi influenzato anche dalla posizione territoriale. Il territorio, che per ragioni di sicurezza e di maggiore controllabilità non deve mai essere eccessivamente grande (Pol. VII, 1327 a 1-3), deve trovarsi in un posizione intermedia tra il mare e la montagna (Pol. VII, 5, 1327 a 1-3). Ciò non è giustificato da Aristotele solo in vista di un tornaconto economico (le città posizionate a una giusta distanza dal mare permettono da una parte una fiorente

attività commerciale marittima, e dall’altra garantiscono una certa sicurezza assicurando alla città la necessaria difesa per difendersi dalle navi nemiche) (Pol. VII, 5, 1327 a 5-10), ma anche perché il clima presente influenza la natura dei cittadini:

I popoli dei luoghi freddi e dell’Europa sono pieni di coraggio, ma difettano di intelligenza e cognizioni tecniche: perciò vivono sostanzialmente liberi, ma sono privi di un’organizzazione politica e incapaci di imporsi sui i vicini. Gli Asiatici, invece, sono di animo intelligente e abili nelle arti, ma non hanno coraggio, per cui conducono un’esistenza servile, da succubi. La stirpe dei Greci, come occupa le regioni intermedie, così assume le qualità degli uni e degli altri. Ha coraggio e intelligenza, gode della libertà e delle migliori istituzioni politiche, e potrebbe imporre il suo imperio su tutti, se godesse di unità politica. (Pol. VII, 7, 1327 b 21-30)

Aristotele, subito dopo aver chiarito le caratteristiche ideali degli abitanti della città, prendendo come prototipo di popolo ideale i Greci, analizza le parti che compongono la comunità. Tutti i cittadini che compongono le varie parti sono indispensabili per la città in quanto il loro non è mai un associarsi a caso, ma sempre in vista dell’autonomia che rappresenta per essa un bene indispensabile; partendo da tale presupposto l’elenco inizia con i beni necessari per la sopravvivenza, che sono il cibo, gli strumenti prodotti dagli artigiani e le armi (Pol. VIII, 8, 1328 b 5-11), e si conclude con le parti istituite in vista del vivere

bene: il sacerdozio, cui è assegnato l’ambito del culto, e l’istituzione più

importante di tutte, quella dei “magistrati che giudichino su ciò che è indispensabile e ciò che è giovevole” (Pol. VII, 8, 1328 b 22-23).

Più complicato risulta, invece, capire il criterio che Aristotele segue per la distribuzione delle varie cariche. Aristotele analizza, in questo senso, il modo in

cui le varie parti sono distribuite all’interno dei regimi democratici, dove chiunque può svolgere qualsiasi compito, e nelle oligarchie, in cui invece vengono autorizzati a prendere decisioni solo coloro che producono ricchezza (Pol. VII, 9, 1328 b 31-33). In virtù di quanto si scrive nel libro III e IV Aristotele sembra interessato, anche se in questa sede non lo dice esplicitamente, a prediligere le vie di mezzo, limitando di fatto alcune cariche solo a una parte della popolazione. Il criterio di limitazione di Aristotele si differenzia tuttavia che tuttavia da quello oligarchico in quanto il discriminante usato non è la ricchezza: chi impiega la maggior parte del suo tempo in attività lavorative, come artigiani, operai e agricoltori, non viene escluso dal governo perché povero, ma in quanto manchevole del tempo necessario per sviluppare l’intelligenza politica o il coraggio, che rappresentano virtù indispensabili per l’attività politica. Il sistema aristotelico è concentrato su un modello meritocratico (vicino a quello dell’aristocrazia) che lo differenzia da qualunque costituzione degenerata (anche perché, ad esempio in un’oligarchia, un artigiano poteva raggiungere un livello di ricchezza tale da garantirgli l’accesso alle cariche politiche). All’interno della città ideale l’areté (l’eccellenza di matrice aristocratica) diventa il metro di giudizio per indicare se qualcuno è degno di essere eletto a una carica; tutti coloro la cui attenzione è limitata all’essenziale produzione di beni materiali non sono degni di essere scelti in sé stessi, poiché manca loro “la preparazione per deliberare in modo corretto riguardo a obiettivi di intrinseco valore”41

. Ad essere scelti per ricoprire le cariche che richiedono virtù, ovvero il comando militare, la magistratura e il sacerdozio, sono solo coloro che, liberi da attività lavorative,

possono dedicarsi allo sviluppo virtuoso della propria virtù. Tale limitazione può essere considerata l’aspetto “aristocratico” del sistema aristotelico, mentre quello “democratico” risiede nella possibilità che tutti i cittadini partecipino all’assemblea e che tendenzialmente tutti i cittadini abbiano accesso alle cariche

definite a turno. Infatti da giovani, nel pieno della loro forza fisica, sono impiegati

nella difesa della città, una volta cresciuti e dunque sviluppate in toto le loro facoltà mentali, sono adatti a ricoprire le cariche decisionali, e infine da anziani si occupano delle attività sacerdotali impegnandosi anche nel finanziamento delle liturgie (Pol. VII, 9, 1329 a 13-18). In tal modo le cariche saranno suddivise in maniera assolutamente equa:

(affidando) l’una e l’altra funzione ai medesimi individui, ma non nello stesso momento, bensì in accordo con la natura che concede vigore ai più giovani e senno ai più anziani. In tal senso, è utile e giusto ripartire le responsabilità nel modo suddetto, in quanto è una divisione fatta secondo il merito”. (Pol. VII, 9, 1329 a 15-18)

La distinzione fondamentale fra il modello aristotelico e quello platonico si può notare proprio su questo punto: per chi detiene il potere nella città ideale descritta da Aristotele indispensabile è che possegga della ricchezza e dunque delle proprietà (Pol. VII, 9, 1329 a 18), non solo perché questo permette la scholè per potersi dedicare alla virtù, ma anche in quanto la città richiede dei finanziatori che facciano fronte alle sue necessità (come ad esempio i sacerdoti che dovranno finanziare le liturgie) (Pol. VII, 9, 1329 a 19-26). Notiamo dunque che in Aristotele l’attività di “legiferare e di finanziare non sono in alcun modo

separati”42

. La difesa della proprietà privata non è sinonimo di una totale libertà di gestione del proprio patrimonio, infatti potrà capitare che i cittadini più abbienti debbano mettere a disposizione le loro risorse per finanziare gli abitanti più bisognosi della città, attraverso ad esempio l’istituzione dei pasti in comune. Tale istituzione, che Aristotele tratta nel decimo capitolo, prevede che nessuno venga escluso, neanche i più poveri, che non possono pagare la quota di partecipazione (Pol. VII, 10, 1330 a 5-8). È bene, però, non ridurre i pasti in comune a un semplice mezzo tramite il quale gli individui meno abbienti plachino la loro fame, ma cercare di inserirli in una prospettiva più generale: il fine è sempre il benessere dell’intera comunità, far sì che anche la parte più povera della città sia fornita dei suoi bisogni primari la mette in condizione di fare la propria parte all’interno della società e quindi di realizzare quei beni che servono per il benessere della comunità43. Una volta chiarito questo aspetto può esserne sottolineato anche un altro: dopo aver criticato Platone, per aver richiesto un’unità eccessiva alla città, Aristotele propone i suoi sistemi per aumentare lo spirito di concordia e d’amicizia tra i cittadini. Il metodo più importante rimane senza dubbio l’educazione, ma anche i pasti comuni sono visti come un buon mezzo per raggiungere questo scopo. La città ideale, proprio in vista del bene per cui si costituisce, necessita del sentimento di fraternità tra i membri che la compongono.