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III. Il regime costituzionale migliore

4. La “città delle nostre preghiere”

4.1. La vita felice

Gli ultimi due libri della Politica, il VII e l’VIII, riprendono un tema che Aristotele sembrava aver già trattato nei libri III e IV, ovvero il modello di costituzione migliore. In realtà, la città che viene descritta nei libri conclusivi non corrisponde a nessuna delle forme elencate nel libro III, ovvero non a una costituzione che può sorgere in condizioni normali, ma a una comunità che il legislatore delinea “secondo le nostre preghiere”, e richiede quindi condizioni ottimali. L’impressione che si ha è che Aristotele si dedichi alla trattazione di una città ideale, quasi utopica, ma in realtà non si allontana dalla critica anti-platonista sostenuta nel II libro: il suo intento non è neanche qui quello di descrivere una città irrealizzabile, poiché nella sua prospettiva non ha senso discutere di qualcosa che non può essere realizzato. Si potrebbe considerare piuttosto tale discussione come quella su una città felice, mediante un parallelismo con la vita felicità individuale utile alla comprensione della sua realizzazione: tale città ha lo stesso grado di realtà che la felicità ha per l’uomo, la quale non viene mai vista come

un’utopia, ma semplicemente come un fine a cui ognuno dovrebbe tendere nei limiti del possibile32. A supporto di questa interpretazione sta il fatto che Aristotele in questi libri non si riferisce semplicemente all’ordinamento delle istituzioni politiche, ma piuttosto alla descrizione della vita virtuosa dei cittadini e al modo in cui la politica può influenzare e garantire tale eccellenza.

Per raggiungere il suo scopo all’inizio del libro VII, nei paragrafi 1-3, Aristotele sembra mettere in dubbio qualcosa che aveva già discusso nel primo libro, ovvero “se la vita più desiderabile della collettività sia, o non sia, la stessa di quella che è più desiderabile da ciascuno preso individualmente” (Pol. VII, 1323 a 21-23)33

. Qual è il tipo di vita più desiderabile? Questo è il quesito di partenza per la discussione intorno alla costituzione migliore.

Il primo passo in cui si articola la risposta consiste nello stabilire quali sono i beni che appartengono all’uomo. Aristotele afferma che per essere felici dobbiamo possedere tre tipi di beni: esteriori, del corpo e dell’anima. Naturalmente i beni più importanti sono quelli dell’anima, in quanto:

Diamo quindi per assodato che a ciascuno uomo tocchi tanta felicità quanta è la sua virtù, la sua saggezza e il suo agire conformemente ad esse; ci conforta la testimonianza della divinità, che è felice e beata non perché abbia un qualche bene esteriore, ma per sé stessa e per quello che essa è, data la sua natura; per la medesima ragione, la fortuna e la felicità non possono che essere cose diverse, perché i beni che vengono all’anima dall’esterno dipendono dal caso o dalla fortuna, mentre nessuno è giusto o temperante per un colpo di fortuna o per un caso fortuito. (Pol. 1323 b 21-29)

32 Cfr. E. Berti, Il pensiero politico di Aristotele, cit., pp. 83-84.

33 Le traduzioni utilizzate per Politica, Libro VII, sono quelle di R. Radice e T. Gargiulo, in

I beni del corpo e materiali devono essere posseduti nella giusta quantità per permettere a ogni uomo una vita virtuosa e felice, mentre non c’è limite ai beni dell’anima. Il nesso tra i beni e la felicità è utile ad Aristotele per delineare le modalità tramite le quali è possibile acquisire la felicità rappresentata dal giusto possesso di virtù a cui deve conformarsi l’azione; il modello di esistenza che inizialmente propone è quello di una vita attiva. A riprova della sua tesi Aristotele pone un parallelismo fra la vita umana e quella divina: il dio vive felice e beato in virtù della sua natura e non per il possesso di un bene esteriore. In questi passi riecheggiano le direttive che un buon legislatore, come ad esempio Solone, dovrebbe dare ai suoi concittadini: il desiderio smisurato di ricchezze potrebbe minare l’equilibrio della città34

.

Fin qui il discorso aristotelico si muove nel campo delle virtù etiche e di una vita essenzialmente pratica, strettamente collegata all’interazione sociale (Pol. VII, 1, 1323 b 40- 1324 a 2). Subito dopo Aristotele mira a risolvere un dibattito a lui contemporaneo: il rapporto tra la vita politica e il comando (Pol. VII, 2, 1324 b 1- 4). Nonostante il tema fosse già stato affrontato nel corso del primo libro, in cui la discussione sui diversi tipi di governo presenti nella famiglia escludevano dalla politica un governo di tipo dispotico, Aristotele torna qui a sottolinearne le differenze, spinto probabilmente dal desiderio di confutare alcune tesi antagonistiche, frutto della politica imperialistica ateniese del V secolo, che spesso ha visto protagonisti leader non restii all’uso della forza per soggiogare sia la popolazione interna che quelle limitrofe. Come sappiamo ritengono legittimo l’uso della forza per il comando politico i personaggi di Callicle e Trasimaco,

34 Cfr. S. Gastaldi, Bios Hairetotatos – Generi di vita e felicità in Aristotele, Bibliopolis, Napoli,

delineati rispettivamente nel Gorgia e nel I libro della Repubblica di Platone. Il primo passo che, dunque, Aristotele compie per la difesa della vita politica consiste nel chiarire subito che il potere politico non è mai il comando sulla popolazione o su quella limitrofa, l’uso della forza non è mai conforme alla legge, neanche quando si esercita secondo giustizia (Pol. VII, 2, 1324 b 25-27). Le decisioni militari, che talvolta possono essere necessarie, non sono il fine della politica: la libertà delle città greche non consiste nel potere di dichiararsi guerra le une con le altre, ma nel saper vivere autonomamente in un rapporto di philía reciproca.

Una volta definite tali questioni preliminari, Aristotele argomenta su quale sia il tipo di vita da preferire: se quella dedita alla politica o quella contemplativa. Questo tema ha innescato un dibattito che continua ancora oggi, data la difficoltà di definire, anche in base alla concezione espressa da Aristotele nell’Etica

Nicomachea, qual è il tipo di vita che il filosofo ritenga più adatta a un’esistenza

felice.

Innanzitutto è bene non dimenticare il contesto in cui il tema viene affrontato: la

Politica è dedicata alla studio del miglior sistema politico, il suo intento non è

quindi di stabilire quale sia la vita migliore per l’individuo, tema che è trattato in maniera più esaustiva negli scritti etici. Tutta la successiva trattazione dev’essere letta alla luce di quanto Aristotele afferma poco dopo l’inizio del libro:

Ora però dobbiamo prendere in esame due questioni. Ecco la prima: qual è la vita preferibile, quella che implica la partecipazione e il coinvolgimento nella politica cittadina, oppure quella che predilige la condizione dello straniero, ed è sciolta da ogni vincolo di comunanza politica? E poi: qual è la costituzione migliore e con il miglior ordinamento della città, sia nel caso in cui tutti

partecipino al governo, sia nel caso in cui vi partecipino la maggioranza, ad esclusione di alcuni? Dal momento che il secondo- e non l’indagine su ciò che è preferibile per gli individui- è il compito specifico della speculazione e della dottrina politica, questa è la ricerca che ci siamo proposti di fare ora, perché rientra nel nostro tema, mentre l’altra appare irrilevante. (Pol. VII, 2, 1324 a 14- 22)

La politica, proprio per i temi centrali che tratta, non si addentra dunque nelle questioni relative alla vita contemplativa.35

Una volta chiarite queste premesse, un problema centrale che si pone nella

Politica è conciliare ciò che viene sostenuto nel VII libro con la teoria contenuta

nel X libro della Etica Nicomachea. Nel secondo capitolo del VII libro, infatti, Aristotele si chiede quale sia il modello di vita più desiderabile: se quello dell’uomo libero da impegni sociali, e quindi in possesso del tempo e della tranquillità da poter dedicare alla contemplazione, o quello dell’uomo attivo all’interno della società politica. In altre parole va stabilito se la felicità del singolo derivi o meno dal suo compiere azioni virtuose all’interno della società. Nonostante la risposta affermativa che si potrebbe dare leggendo il primo libro della Politica (Pol. I,2, 1252 b 28-30), da una lettura attenta di E. N. X, 7 sembra risultare che Aristotele sostenga una tesi opposta: qui, chiaramente, il filosofo afferma che il tipo di vita più felice, e di conseguenza più desiderabile, è quella dedita alla contemplazione, la quale coincide con l’attività conoscitiva e in particolar modo quella cosmologico-teologica, propria della figura del filosofo. Per comprendere compiutamente tale affermazione è bene ricordare ciò che Aristotele afferma nel capitolo precedente:

Diciamo quindi che la felicità non è un stato abituale, dato che, altrimenti, potrebbe appartenere anche a uno che dorme per tutta la vita, e vive come un vegetale, e anche a chi sopporta le peggiori sventure. E allora, se ciò ci sembra inammissibile, tanto più si dovrà far coincidere la felicità con un certo tipo di attività, come abbiamo detto in precedenza; e se tra le attività ve ne sono di necessarie, che sono scelte per altro, e altre sono scelte per se stesse, chiaramente la felicità deve essere posta tra le attività che sono scelte per sé e non tra quelle scelte per altro, dato che non ha bisogno di nulla, ma è autosufficiente. (E. N. X, 6 1176 a 32 – 1177 b 5)

Il perno della concezione aristotelica è l’autosufficienza del filosofo: la contemplazione, come spiegato di seguito, è l’attività più pura, e rimanendo pur sempre un’azione è un’attività scelta di per sé, che non ha assolutamente bisogno di altro poiché “ciò che chiamiamo autosufficienza verrà ad essere legato soprattutto all’attività teoretica” (E.N. 1177 a 29-30).

Si instaura, dunque, in queste pagine, un’evidente gerarchia di valore delle due forme di vita, che subordina quella pratico - politica a quella filosofica. Nonostante tale gerarchizzazione, le due forme di vita mantengono la loro autonomia e dignità. I livelli di sapere che scaturiscono dai due modelli di vita, rispettivamente la ragionevolezza pratica e il sapere teoretico, come abbiamo già sottolineato nel capitolo precedente, non solo hanno oggetti di conoscenza diversi, ma si muovono su un perno epistemico differente: la sophía sta ai vertici del sapere, riguardando ciò che è stabile e necessario, e ignora la mutevolezza del mondo umano di cui si occupa il sapere pratico36. Aristotele sottolinea che nel mondo non esiste semplicemente l’uomo e che ogni ambito di esistenza richiede

uno studio diverso. Tutto ciò viene confermato anche dallo stato di beatitudine, che il filosofo raggiunge non in quanto uomo,

ma in quanto si trova in lui qualcosa di divino: di quanto tale elemento divino di distingue dal composto, di tanto anche la sua attività differisce da quella secondo l’altra specie di virtù. Se quindi l’intelletto è cosa divina rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. (E. N. 1177 b 28-31)

Le virtù etiche, invece, e le caratteristiche della natura umana sono propriamente e

solamente umane. Il trattato della Politica si occupa di indagare la vita degli

uomini associati nella comunità, di tutti gli uomini e non solo di una cerchia ristretta, mentre la vita contemplativa non è adatta a chiunque. Chi si dedica alla conoscenza di cose non umane, ma divine, finisce per amputare una parte della sua umanità: l’incremento della sua conoscenza divina costa al filosofo teoretico l’esilio dal potere politico e dalla città, per dedicarsi alla sua attività teoretica all’interno della scuola37

.

Ecco perché, tra le righe della Politica, Aristotele conclude che hanno ragione e torto un po’ entrambe le parti che sostengono i due diversi modelli di vita, poiché in tale contesto non può riferirsi semplicemente a un modello di vita adatto a pochi. L’ordinamento politico deve in qualche modo assicurare a tutti i cittadini la possibilità di scegliere il modello di vita meglio volto a garantire la realizzazione del proprio benessere. La scienza politica si occupa di qualcosa di umano, ed è proprio nella prospettiva umana, non eterna e necessaria come quella teologica, ma contingente e vulnerabile, che l’attività politica riacquisisce tutta la sua dignità

37 Cfr. Ivi, p. 209.

e importanza; certo essa ha che fare con beni che sono all’opposto dell’autosufficienza e dell’essere necessario, perché del tutto inseriti nella contingenza dell’attività umana, ma questo non sembra scalfire la loro importanza.

A questo proposito Martha Nussbaum parla di beni di relazione38 intendendo dire

che è necessario, ad esempio, avere a che a fare con persone da trattare giustamente, per mettere in pratica la virtù etica della giustizia (anche se questo riguarda solo la loro messa in pratica, non bisogna dimenticare che, anche in assenza della “relazione”, la virtù del coraggio rimane, in quanto appartenente alla persona). L’importanza dell’attività politica per ogni uomo sta nel fatto che “la partecipazione e la buona attività in una comunità politica, in generale, hanno un necessario ruolo strumentale nello sviluppo del buon carattere. L’abitudine, sviluppata sia all’interno della famiglia sia nel contesto di un programma di educazione pubblica, è il fattore decisivo per acquisire la bontà”39

.

Il compito della Politica riguarda l’individuazione delle direttive a cui conformare la forma complessiva della città e la vita dei cittadini, ai fini del raggiungimento della felicità da parte dell’intera comunità, mentre la scelta della vita contemplativa non mira di fatto a cambiare l’assetto della collettività e dunque non merita, in questa sede, di essere discussa.

Non si può non cogliere in queste pagine il distacco di Aristotele dal nesso fondamentale che in Platone lega il filosofo al ruolo del comando. Nella città migliore descritta da Aristotele, infatti, non solo non trova posto il filosofo

38 Cfr. M. Nussbaum, The Fragility of Goodness. Luck and Ethics in Greek Tragedy and

Philosophy, Cambridge, Cambridge University Press, 1986, trad. it. a cura di M. Scattola, La fragilità del bene, Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 623-671.

teoretico, ma il ruolo del governo non è esclusivamente riservato a chi è dotato di un sapere politico solo a livello teorico. Lo scienza politica ha come fine il bene della città, ma anche un carattere normativo, volto a legiferare su come praticamente tale bene può essere raggiunto. La virtù che appartiene al buon politico è la phrónesis, che è un’eccellenza di quella la parte dell’anima “calcolatrice” che permette di saper ben amministrare sia la casa che la città. Il prototipo di tal tipo di virtù è Pericle, il quale non è un filosofo ma un politico il cui unico scopo è quello di impartire i giusti ordini per assicurare la buona condotta dei cittadini (E. N. VI, 5, 1140 b 7-10). Questa è la fondamentale differenza tra il politico, e il filosofo teoretico: quest’ultimo non impartisce ordini, non ha bisogno di farlo, in quanto è simile alla divinità nella autosufficienza e dunque non manca di nulla.

Qual è allora il legame tra il filosofo pratico e il politico? La risposta a tale domanda viene data da Aristotele nelle ultime pagine dell’Etica Nicomachea (X, 10) in cui il discorso etico viene posto in continuità con l’inizio della Politica. Aristotele osserva qui l’incapacità della massa di essere condotta, attraverso i bei discorsi tipici della filosofia, all’eccellenza morale.

Infatti la natura della massa non la porta ad obbedire alla vergogna, ma alla paura, e a tenersi lontana dalle azioni malvagie non perché siano turpi, ma per non essere punita. ( E. N. X, 10, 1179 b 10-13)

La maggioranza della popolazione, non predisposta naturalmente a diventare virtuosa con l’ascolto dei bei discorsi, non potrà essere indirizzata nel suo comportamento se non dalla paura della trasgressione della legge. Il compito del buon legislatore sarà dunque quello di “richiamare i cittadini alla virtù e al bello”

(E. N. X 10, 1180 7). A sua volta però il legislatore (e qui si instaura il rapporto tra il filosofo pratico e l’uomo politico), dovrà anche egli possedere una buona educazione, ricevuta fin da bambino, e la giusta preparazione alla vita politica (E.

N. X, 10, 1179 b 31-33). Tale preparazione non può che essergli fornita da colui

che è esperto di tale campo, che ha esaminato tale disciplina non solo dal punto di vista particolare, ma anche da quello universale. Costui sarà lo scienziato politico il cui compito non è tanto quello di portare avanti un sapere alternativo a quello della politica, quanto piuttosto di organizzare i dati raccolti dalle esperienze particolari, in modo da indirizzare ogni città verso il modello migliore. Dunque, anche se non direttamente partecipe, il filosofo pratico svolgerà un ruolo da maestro fondamentale per la formazione del buon legislatore: il suo compito non sarà solo quello di indirizzarlo verso la giustizia, ma anche di mostrargli tutti i mezzi necessari per la sua realizzazione pratica40.

Il ruolo centrale del buon legislatore nell’esortare i cittadini alla virtù si evince anche dai capitoli conclusivi del VII libro, dove Aristotele, prima di ricollegarsi al tema dell’educazione, ribadisce che il fine della comunità è la felicità del cittadino, che in questo contesto coincide con la felicità della comunità. Anche in queste righe Aristotele, quasi ribadendo le conclusioni a cui è giunto all’inizio del libro, conclude che la felicità consiste nell’uso perfetto delle virtù; questo stato può essere raggiunto dai cittadini sia grazie al benessere materiale, spesso soggetto alla fortuna ma di cui necessariamente la città deve godere, sia grazie alle buone direttive date dal legislatore (Pol. VII, 13, 1332 a 1-28).

40 Cfr. M. Nussbaum, Four Paradigms of Philosophical Politics, in “The Monist”, 83, 2000, trad.

it. a cura di S. Bertea, Quattro modelli di filosofia politica, in Ead., Capacità personale e

C’è pertanto da augurarsi che la città si costituisca su quei beni che dipendono dalla sorte (perché così noi la consideriamo: padrona di tali beni), ma il fatto che essa sia virtuosa non è più una questione di fortuna, ma di conoscenza e di scelte di fondo ( Pol. 13, 1332 a 29-32).