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La crisi degli anni settanta e l’affermazione del modello di sviluppo neoliberale

Il neoliberalismo in pratica

3.1. La crisi degli anni settanta e l’affermazione del modello di sviluppo neoliberale

Dopo aver analizzato il neoliberalismo nella sua dimensione teorica e il contesto storico all’interno del quale i pensatori neoliberali hanno sviluppa- to le loro teorie (vale a dire un contesto in cui il ruolo dello Stato nella so- cietà e nell’economia assume un’importanza preponderante, seppur secon- do varie modalità e forme), in questo capitolo, per concludere, parleremo delle caratteristiche che il neoliberalismo ha assunto nel concreto e delle modalità attraverso le quali è stato implementato.

All’inizio degli anni settanta due avvenimenti dalle conseguenze traumati- che sconvolsero il corso dell’economia mondiale. Nell’agosto del 1971 gli Stati Uniti decidono di sospendere la convertibilità del dollaro in oro: con- vertibilità che costituiva il principale pilastro del sistema monetario costrui- to con gli accordi di Bretton Woods del 1944. La scelta del governo statu- nitense segnò di fatto l’inizio di una lunga fase di instabilità e di disordine monetario internazionale, con continue oscillazioni nei prezzi delle materie

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prime e nei cambi tra le monete non più ancorate a un sistema di converti- bilità fisso. Ancora più sconvolgente fu la decisione presa dai paesi dell’OPEC nel novembre 1973, in seguito alla guerra arabo-israeliana, di quadruplicare il prezzo della materia prima. Questo improvviso aumento fu l’inizio di una progressiva ascesa delle quotazioni del greggio che, dopo la rivoluzione iraniana del 1979, registrarono un altro forte rialzo: così, alla fine degli anni settanta, il prezzo di un barile di petrolio era oltre dieci volte superiore rispetto all’inizio del decennio. I due shock petroliferi colpirono in varia misura tutti i paesi industrializzati, e costituirono il fattore scate- nante di una grave crisi economica sulle cui cause profonde e sulla cui na- tura si è molto discusso.171 Tale crisi si concretizzò prevalentemente attra- verso l’interazione di due fattori: un’alta inflazione e una netta diminuzione della crescita economica che portò vari paesi alla stagnazione. Accanto a questo fenomeno fino ad allora inedito, che prese il nome di stagflazione (stagnazione+inflazione), si accostò altresì un’elevata crescita della disoc- cupazione in tutti i maggiori paesi OCSE.172 La stagflazione che colpì

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A riguardo, si veda Baldissara L. (a cura di) (2001), Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni

settanta e ottanta, Carocci, Roma; in particolare l’introduzione del curatore, e i saggi di Mayer

S. C., Bellofiore R., Preti R.

172Come mostra Cornwall J., se nel periodo 1966-1970 il tasso d’inflazione nei sette maggiori

paesi OCSE (Canada, Francia, Italia, Giappone, Regno Unito, USA, Germania Occidentale) an- dava da un minimo del 2,4% (Germania) a un massimo del 5,4% (Giappone), durante il succes- sivo decennio essa aumentò sensibilmente in tutti i suddetti paesi. Fra il 1975 e il 1979, soltanto la Germania aveva un’inflazione inferiore al 5%, e in paesi quali l’Italia e il Regno Unito essa andava oltre il 15%. Contemporaneamente all’ascesa dei prezzi, aumentò in maniera netta anche la disoccupazione. Nel 1979, fra i sette paesi considerati, il Canada registrava il tasso più eleva- to (7,5%), seguito da Italia (7,4%), Regno Unito (7,0%) e USA (7,0%). Cfr. Cronwall J. (a cura di) (1985), op. cit., pp. 12-13.

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l’Occidente industrializzato negli anni settanta colse i governi impreparati rispetto a quali dovessero essere le strategie più efficaci da adottare per af- frontarla: gli sforzi di controllare l’inflazione con un’azione concertata o con accordi neocorporativi tra management e sindacati sotto la supervisione dello Stato (negli Stati Uniti, Gran Bretagna, Svezia), non portarono a risul- tati concreti, e le indicizzazioni dei salari adottate in alcuni paesi (nei Paesi Bassi e in Italia ad esempio) non fecero altro che incrementare la pressione inflazionistica.173Alla fine del decennio, la convinzione di matrice keyne- siana che il sostegno della domanda aggregata da parte dello Stato (attra- verso bassi tassi d’interesse, spesa pubblica per stimolare l’occupazione e politiche di welfare) avrebbe potuto produrre una crescita permanente dell’occupazione, senza che l’inflazione costituisse un problema da affron- tare, era messa radicalmente in discussione dai fatti.174

Per quanto concerne la diminuzione della crescita economica (misurata come tasso di incremen- to del Pil) negli anni settanta, Eichengreen mostra come essa, a partire in particolare dal 1973 (e calcolata in un macro-periodo che arriva fino al 2000) sia nettamente diminuita, in particolare nei paesi europei, rispetto alla media dei ventitré anni precedenti (periodo 1950-1973). In Euro- pa occidentale, si è passati da una crescita media annua del 4,0% a una media dell’1,8%, mentre nell’Europa periferica dal 5,1% al 2,5%. Cfr. Eichengreen B., op. cit., p.15.

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Cfr. Eichengreen B., op.cit., pp. 203-204.

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Di fatto, la stagflazione produsse una situazione che confutava uno dei maggiori paradigmi keynesiani, la cosiddetta Curva di Phillips, la quale mostrava sostanzialmente una correlazione inversa tra inflazione (dei salari nello specifico) e disoccupazione. Partendo dalla Curva, che venne introdotta dall’economista neozelandese William Phillips nel 1958, e la cui validità venne confermata attraverso un importante studio da parte di Samuelson e Solow nel 1960, l’inflazione non veniva concepita di per sé come un problema, in quanto il suo aumentare era correlato a una diminuzione della disoccupazione, e ciò legittimava di fatto i governi a intra- prendere politiche finalizzate al perseguimento del pieno impiego (anche con spesa in deficit), poiché, per l’appunto, anche se tali politiche avessero prodotto un aumento dell’inflazione, ciò sarebbe stato fisiologico, in quanto avrebbero portato altresì a una diminuzione della quota dei disoccupati. In sostanza, la curva di Phillips sosteneva che nella società era possibile una scelta fra una ragionevole piena occupazione, ma a prezzi crescenti, o prezzi ragionevolmente stabili

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Più in generale, soprattutto nel caso dell’Europa occidentale (ma anche de- gli U.S.A), la crisi degli anni settanta determinò un profondo ripensamento del modello di sviluppo sociale, politico ed economico che si era affermato a partire dal secondo dopoguerra, e del ruolo dello Stato all’interno di esso: se durante l’Età dell’oro, infatti, si era via via affermata un’idea di Stato in- teso come promotore del benessere sociale ed economico dei cittadini, at- traverso l’adozione di politiche finalizzate al perseguimento della piena oc- cupazione, la costruzione del welfare state e l’implementazione di politiche neocorporative, l’avvento della stagflazione cambiò completamente le cose. Una nuova visione economica, promossa dal già citato economista Milton Friedman, e che prese il nome di monetarismo,175 iniziò a mietere crescenti

ma con una certa disoccupazione. I governi avevano cioè la possibilità di ridurre la disoccupa- zione e accrescere il PIL reale, se accettavano un più alto tasso di inflazione. Così, a partire da- gli anni sessanta, i teorici keynesiani assunsero la teoria di Phillips come modalità d’intervento per raggiungere l’obiettivo della piena occupazione: un livello accettabile di inflazione poteva consentire lo sviluppo dell’occupazione e del reddito. L’avvento della stagflazione, tuttavia, mi- se per la prima volta in primo piano l’inflazione come problema da affrontare e, a parte mettere in discussione la validità della curva, di fatto delegittimò le politiche di stimolo della domanda keynesiane, in quanto esse determinavano ora soltanto un aumento della pressione inflazionisti- ca e non facevano più sì di diminuire la disoccupazione. Cfr. Jones S. D. (2012), Masters of the

universe. Hayek, Friedman and the birth of neoliberal politics, Princeton University Press,

Princeton, pp 182-189; si veda altresì

www.econlib.org/library/Enc/PhillipsCurve.html#IfHendersonCEE2-126_figure_036

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Alla base del Monetarismo c’è l’importanza attribuita alla quantità di moneta come elemento regolatore dell’attività economica. Secondo i monetaristi, è l’ammontare di moneta resa dispo- nibile dalla Banca centrale a determinare, almeno nel lungo periodo, il livello dei prezzi e della produzione. Regolando il quantitativo di moneta in circolazione, soprattutto attraverso la mano- vra del tasso di sconto (il tasso d’interesse richiesto dalla Banca centrale alle altre banche), le autorità pubbliche di uno Stato possono dunque intervenire efficacemente sull’andamento gene- rale dell’economia, e in particolare sull’andamento dei prezzi. Secondo i monetaristi, l’intervento sulla moneta mirato a tenere sotto controllo i prezzi non è solo il più efficace, ma anche l’unico compatibile con politiche che riducano al minimo l’ingerenza dello Stato nell’economia, favorendo di contro l’efficienza del libero mercato. La concezione monetarista si contrappone dunque frontalmente alle teorie keynesiane, che invece prevedono interventi mirati dello Stato per stimolare la domanda aggregata e ridurre la disoccupazione. Si può dire, in ter- mini generali, che il monetarismo è naturalmente compatibile con una politica economica che si focalizza sul ruolo dell’offerta nello stimolare la crescita economica, mentre il keynesismo si

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consensi, ottenendo la consacrazione anche grazie al Nobel conferito a Friedman stesso nel 1976. Secondo tale visione, il ruolo precipuo dello Sta- to era il seguente: il mantenimento della stabilità dei prezzi attraverso il contenimento dell’offerta di moneta. In base a ciò, dunque, lo Stato passava dall’essere un soggetto attivamente coinvolto nella definizione del benesse- re dei cittadini e dell’iniziativa economica, all’essere inteso come un’entità essenzialmente neutrale, e il cui principale obiettivo diveniva quello di creare quella stabilità monetaria tale da consentire ai mercati di interagire senza vincoli e condizionamenti esterni. Risulta chiaro che, in una condi- zione del genere, le precedenti prerogative proprie del potere pubblico ven- gono decisamente ridimensionate. Infatti, il controllo dell’inflazione (che avviene in primis attraverso politiche monetarie restrittive e il controllo ri- gido della spesa pubblica) come obiettivo primario da parte dello Stato, inevitabilmente porta quest’ultimo a dover subordinare al perseguimento di esso qualsiasi altro proposito che fino a quel momento era stato conside- rato parte dell’azione pubblica: l’obiettivo della piena occupazione, ad esempio, ma anche il mantenimento dello stesso welfare state nella sua in- tegrità, nella misura in cui il finanziamento di quest’ultimo va a confliggere con la stabilità dei prezzi. Questo cambiamento di priorità, tuttavia, non porta ad avere uno Stato “debole”, quanto piuttosto un potere pubblico che

focalizza maggiormente sull’importanza della domanda aggregata. Cfr. Jahan S., Papageorgiou (2014) “What is monetarism?”, Finance & Development, March 2014. Vol. 51, No 1, pp. 38-39; consultabile in http://www.imf.org/external/pubs/ft/fandd/2014/03/basics.htm;

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affranca molte delle sue prerogative dalle richieste e le esigenze dei vari gruppi sociali, in primis quelli più fragili. In altre parole, si giunge a uno Stato che sotto molti aspetti si affranca dalla democrazia, trovando la sua fonte di legittimazione nel mercato.176

Tornando alla stagflazione , essa produsse dunque una situazione in cui le politiche keynesiane sembravano aver perso completamente la loro effica- cia, così il monetarismo venne via via affermandosi come dottrina econo- mica dominante.177

Politiche di stampo monetarista vennero attuate a partire dalla fine degli anni settanta nel Regno Unito della Thatcher, negli Stati Uniti guidati da Reagan, e altresì in altri paesi occidentali, ed esse costituiscono la prima

176Il richiamo, a riguardo, alla teoria dello Stato di Hayek è più che evidente (si veda paragrafo

1.5 del presente elaborato. Sull’idea dello Stato neoliberale come stato essenzialmente anti- democratico vedi altresì Castronovo V. (a cura di) (2002), Storia dell’economia mondiale 6:

nuovi equilibri in un mercato globale, Laterza Roma-Bari, pp. 247-249.

177Il problema essenziale degli schemi teorici keynesiani era che essi non contemplavano

un’adeguata teoria economica sull’inflazione (che era un problema impellente allora da affron- tare) e su come combatterla, mentre il monetarismo sembrava essere propriamente costruito a tale scopo. Secondo la corrente di pensiero monetarista, l’inflazione è eminentemente un feno- meno monetario, per cui, se si vuole ridurre i prezzi, è necessario ridurre l’offerta di moneta. Più in generale, un governo può attuare un controllo ottimale dei prezzi esclusivamente attraverso la politica monetaria. Per quanto riguarda l’inflazione degli anni settanta, i monetaristi affermava- no che essa era stata causata dall’accelerazione dei tassi di crescita dell’offerta di moneta, per cui l’unico modo che avevano i governi di agire efficacemente per arginare tale problema, era di praticare politiche monetarie restrittive fino a raggiungere il tasso d’inflazione desiderato. In un contesto economico in cui i prezzi fossero stati stabili, i mercati avrebbero fatto sì di autorego- larsi e di raggiungere una condizione di equilibrio. In un contesto tale, altresì, anche la disoccu- pazione sarebbe giunta al suo “tasso naturale”, senza bisogno che i governi si affannassero a manovrare la domanda per perseguire la piena occupazione. La disoccupazione, infatti, nell’ottica monetarista non riflette mai un’insufficienza di domanda aggregata o di offerta di la- voro. Essa è, invece, “strutturale”, cioè dovuta a imperfezioni di mercato quali l’esistenza dei sindacati o le norme sul salario minimo, oppure “volontaria” quando gli individui interessati la- sciano il proprio posto di lavoro per porsi alla ricerca di un altro. Di conseguenza, qualora la di- soccupazione costituisca un problema, la soluzione non è adottare politiche espansive che agi- scono sulla domanda ma, tutt’al più, deregolamentare il mercato del lavoro e diminuire i poteri dei sindacati. Cfr. Cornwall J., op.cit., pp. 17-19.

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grande componente del nuovo modello di sviluppo neoliberale che andava affermandosi. Accanto al monetarismo, la trasformazione del ruolo dello Stato da soggetto “attivo” nella società e nell’economia a mero creatore e garante dei meccanismi di libero mercato, avvenne attraverso una serie di altri cambiamenti che comprendono: privatizzazioni, liberalizzazioni, dere- golamentazioni dei mercati (finanziari, del lavoro) e altri provvedimenti aventi lo scopo di rendere le economie dei vari paesi sempre più interdi- pendenti e “aperte” ai mercati internazionali. Altresì, l’arretramento dello Stato a favore del mercato venne consolidato dall’affermarsi di un’altra dottrina economica, la cosiddetta Supply-side economics, che si pose in net- ta antitesi rispetto alla filosofia economica keynesiana, e la quale venne implementata sia dalla Thatcher che da Reagan, come vedremo più avanti.

Il nuovo modello di sviluppo neoliberale, caratterizzato da uno Stato la cui azione è legittimata dal mantenimento della stabilità dei prezzi (e la quale si affranca, dunque, almeno per quanto riguarda la politica economica, dal- le rivendicazioni democratiche), e dal creare in generale le condizioni af- finché le forze private all’interno dei mercati possano sprigionarsi al mas- simo (attraverso la riduzione e la semplificazione delle regole dei mercati finanziari e del lavoro, e il ridimensionamento della proprietà pubblica), in Europa occidentale tra gli anni ottanta e novanta mise seriamente in di- scussione il vecchio modello di sviluppo nato dal compromesso sociale

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nell’immediato secondo dopoguerra (e descritto nel precedente capitolo), mentre in America Latina sostituì l’Import substitution industrialization at- traverso l’applicazione delle politiche del Washington Consensus a partire dai primi anni novanta. Altresì, in seguito al crollo dell’Urss, nel 1991 (e, dunque, con il definitivo venir meno del socialismo di Stato come alterna- tiva anche solo teoricamente percorribile), il modello di sviluppo neolibera- le è giunto ad assumere dimensioni sempre più globali. Persino la Cina, al- tro grande bastione del socialismo accanto all’Urss nel secondo dopoguer- ra, è stata influenzata, a partire dal regime di Deng Xiaoping, dal neolibera- lismo, incamerandone alcuni aspetti peculiari.178

Detto tutto ciò, tuttavia, occorre sottolineare che prima di diffondersi a li- vello globale, il neoliberalismo trovò un’officina ideale per la sua speri- mentazione nel regime cileno di Augusto Pinochet, e ciò grazie all’ausilio in particolare della Scuola di Chicago e di Milton Friedman, che fornirono al dittatore, come già abbiamo accennato, molti dei suoi economic advisors (i Chicago boys). Il Neoliberalismo in pratica (titolo e argomento di questo capitolo),dunque, va inteso come modello di sviluppo sociale, politico ed economico, secondo le linee appena tracciate.

Proseguiremo, ora, analizzando brevemente tre casi emblematici di Stati che sono stati fortemente influenzati dal modello neoliberale, ossia il Cile,

178Per il caso cinese, vedi Harvey D.(2005), A brief history of neoliberalism, Oxford University

Press, Oxford, UK ,in particolare il capitolo Neoliberalism with chinese characteristics (pp. 120-151).

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gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, e poi faremo dei brevi accenni al Wa- shington Consensus (in quanto espressione del modello neoliberale stesso) e alla sua applicazione in America Latina.