• Non ci sono risultati.

La direttiva rimpatri, disciplinando l'istituto del trattenimento dei migranti ai fini della loro espulsione, si è inserita e ha avuto un importante ruolo nel processo di criminalizzazione dell'immigrazione. Pur essendole stata riconosciuta una funzione di limite al potere degli Stati membri di qualificare le violazioni della normativa in tema di immigrazione come illeciti penali45, e nonostante il dichiarato intento

di “stabilire garanzie giuridiche minime comuni sulle decisioni connesse al rimpatrio per l'efficace protezione degli interessi delle persone interessate”, la direttiva presenta una serie di criticità per le quali è stata duramente contestata, anche in relazione alle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo46.

In generale, si è riconosciuto alla direttiva un impatto minimo rispetto allo scopo cui tendeva di uniformare la politica di immigrazione degli Stati membri: abbiamo visto come molte disposizioni fossero infatti formulate in termini di opzione, lasciando gli Stati sostanzialmente liberi di adottarle o meno, o di scegliere tra una pluralità di soluzioni alternative.

L'art. 4 riconosceva agli Stati la facoltà di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli alle persone cui si applicava la direttiva, purché compatibili con quest'ultima. Tale clausola, se da una lato avrebbe potuto comportare effetti positivi per quegli Stati con vincoli costituzionali o internazionali di rispetto dei diritti umani e del diritto di asilo più stringenti di quelli previsti dalla direttiva, dall'altro dimostrava che lo scopo della normativa in tale materia non era quello di elevare il livello dei diritti garantiti ai cittadini di Paesi terzi, ma quello di prevedere un “corpus orizzontale di norme” a prescindere dal

45 Abbiamo già visto come la Corte di giustizia, in particolare nelle sentenze El Dridi e Achughbabian, cit., abbia sottolineato che gli Stati membri non sono pienamente liberi nel momento in cui adottano la normativa nazionale in materia penale, poiché devono sottostare agli obblighi previsti dalla legislazione dell'Unione europea e, in particolare, dalla direttiva rimpatri. Il diritto penale nazionale deve essere conforme alle finalità e alle previsioni della direttiva, così come ai diritti fondamentali. Nello specifico, la Corte ha riconosciuto che la qualificazione in termini di illecito penale della condotta di ingresso e soggiorno irregolari sul territorio dello Stato non può non essere connessa all'obiettivo del rimpatrio del cittadino di un Paese terzo interessato, perciò verrebbe necessariamente in considerazione la normativa europea. In questo modo la Corte è riuscita a usare il diritto dell'Unione, e in particolare la direttiva rimpatri, come strumento per proteggere i cittadini di Paesi terzi da un'eccessiva criminalizzazione a livello nazionale.

46 Tra le iniziative di contrasto all'adozione della direttiva, un appello al Parlamento europeo firmato da venticinque intellettuali europei in cui si dichiarava, tra l'altro, che “questa direttiva affonda gli standard europei e internazionali di tutela dei diritti umani, peggiorando la condizione di accoglienza dei migranti”.

fatto che fosse più o meno favorevole rispetto a quello già in vigore negli Stati membri. Sarebbe stato possibile dunque che lo standard dei diritti concordato a livello comunitario fosse inferiore rispetto a quello garantito dai singoli Stati membri47. La clausola di salvaguardia

prevista all'art. 4, par. 3, determinava l'emersione di una cornice di norme delimitata da un lato, dalla direttiva stessa, e dall'altro dalla normativa nazionale che avesse garantito un trattamento più favorevole; il ventaglio delle disposizioni astrattamente compatibili con la direttiva era dunque estremamente vario e tale da rendere scarsa la sua efficacia armonizzatrice. La direttiva lasciava inoltre impregiudicate le disposizioni più favorevoli previste dall'acquis comunitario in materia di immigrazione e di asilo, nonché quelle previste in forza di accordi bilaterali o multilaterali vincolanti sia la Comunità sia gli Stati membri; in questo modo sarebbero stati mantenuti in vigore gli accordi bilaterali di riammissione conclusi dagli Stati membri al fine di consentire l’effettiva esecuzione dell’allontanamento degli stranieri espulsi.

Ripercorrendo il testo della direttiva, innanzitutto potevano destare qualche perplessità le due cause di esclusione previste all'art. 2, par. 2, lett. a) e b). La prima, in quanto avrebbe permesso l'esclusione dall'applicazione della direttiva ai casi frontalieri, i quali rappresentavano, anche per il nostro Paese, una delle ipotesi più problematiche di allontanamento48. La seconda, in quanto avrebbe

potuto comportare una limitazione considerevole dell'ambito di applicazione della direttiva se interpretata in modo da comprendere, tra le sanzioni penali, anche quelle conseguenti al reato di ingresso e soggiorno irregolare49.

47 Favilli. La direttiva rimpatri ovvero la mancata armonizzazione dell'espulsione dei cittadini di Paesi terzi, cit.

48 L'allontanamento dello straniero avviene in Italia attraverso due provvedimenti, il respingimento alla frontiera e l'espulsione nelle sue diverse forme. Proprio in relazione al provvedimento di respingimento emergono le maggiori criticità, dovute alla limitatezza e genericità della sua disciplina. Nonostante siano previste, nel regolamento di attuazione al testo unico, D.P.R. 394/1999, alcune garanzie formali per l'adozione dello stesso, quest'ultimo presenta gravi profili di incertezza legati soprattutto alla discrezionalità estremamente ampia rimessa al Questore nel disporre il c.d. “respingimento differito” una volta rintracciato lo straniero sul territorio. L'esclusione di questi casi dall'ambito di applicazione della direttiva avrebbe dunque comportato una notevole mancanza, solo in parte attenuata dalla necessità di garantire in ogni caso un trattamento e un livello di protezione minimi e il rispetto del principio di non refoulement, ai sensi dell'art. 4, par. 4 della direttiva.

49 Nel precedente paragrafo si è già provveduto a richiamare la giurisprudenza della Corte di giustizia che, nel caso Achughbabian, aveva escluso la possibilità per gli Stati di non applicare la direttiva ai cittadini di Paesi terzi condannati a pena detentiva per aver commesso reato di ingresso e soggiorno irregolare. Un'interpretazione diversa avrebbe infatti violato il principio generale dell'effetto

Un ulteriore elemento critico della direttiva si ritrovava nella disciplina relativa al rimpatrio del cittadino di un Paese terzo il cui soggiorno nel territorio degli Stati membri fosse irregolare. In particolare, la definizione di rimpatrio adottata dalla direttiva al suo art. 3, punto 3), era talmente ampia da comprendere la possibilità di inviare lo straniero anche verso il Paese di transito, in base ad accordi stipulati tra gli Stati coinvolti al fine di superare le frequenti difficoltà incontrate nell'esecuzione delle procedure di rimpatrio, spesso dovute alla mancata cooperazione dei Paesi terzi interessati. Tale possibilità destava preoccupazioni in quanto era prevista a prescindere dalla volontà della persona soggetta a rimpatrio. Inoltre avrebbe potuto comportare il rischio che le persone interessate, una volta riportate nel Paese di transito, fossero trattate in modo non conforme al rispetto dei diritti fondamentali50.

Una gravissima lacuna nella disciplina introdotta dalla direttiva 115 era rappresentata dalla mancata regolamentazione dello status dei cittadini di Paesi terzi irregolari per i quali non fosse stato possibile eseguire la procedura di rimpatrio. Secondo quanto previsto dalla direttiva, gli Stati avrebbero dovuto provvedere al rimpatrio dello straniero che fosse presente sul loro territorio in posizione irregolare, attraverso la concessione di un termine per la partenza volontaria o con l'adozione di misure coercitive, tra le quali, soltanto come estrema ratio e in presenza delle condizioni previste all'art. 15, il trattenimento ai fini dell'allontanamento. In alternativa, gli Stati avrebbero potuto porre fine

utile, rendendo residuale o addirittura escludendo l'ambito di applicazione della direttiva, in questo modo impedendo il raggiungimento dello scopo di armonizzare le legislazioni nazionali in materia di rimpatrio.

50 Dagli anni duemila, i Paesi della sponda orientale e meridionale del Mediterraneo, sono diventati una delle principali zone di transito, a partire dal Marocco, in quanto più vicino geograficamente all’Europa. Successivamente, l’Algeria, la Tunisia, la Libia e attualmente la Mauritania, sono diventati i principali luoghi d’imbarco per i migranti di origine sub-sahariana. Il Libano, l’Egitto, la Turchia e la Siria accolgono, invece, soprattutto quelli provenienti dal Corno d’Africa, dall’Asia centrale e dalla stessa area medio-orientale. Secondo i profili tracciati dal Global Detention Project, tutti i Paesi di transito sopra richiamati presentano una situazione a dir poco preoccupante: il Marocco è diventato un “cheap and natural detention center”, in Tunisia gli stranieri, soprattutto quando provenienti dall'Africa sub-sahariana, si trovano di fronte a un diffuso razzismo; in più il governo continua a mantenere il segreto sulle strutture destinate alla detenzione dei migranti e non fornisce dati ufficiali sul numero di persone detenute o espulse; la situazione di guerra civile in Libia ha fatto sì che immigrati, richiedenti asilo e rifugiati si trovassero sistematicamente esposti a una “arbitrary and indefinite detention”; la Mauritania ha attivato in Nouadhibou un centro destinato alla detenzione di immigrati, chiamato con l'eloquente nome di “Guantanamito”, che è stato duramente criticato per il suo stato; la risposta dell'Egitto alle pressioni migratorie è stata caratterizzata da violenza e arbitrarietà; la Turchia infine, è stata ripetutamente criticata per le condizioni di detenzione scioccanti e la politica di asilo restrittiva.

al soggiorno irregolare del cittadino di un Paese terzo, regolarizzando la sua posizione sul territorio, potendo in qualsiasi momento rilasciare un'autorizzazione al soggiorno, ai sensi dell'art. 6, par. 4. Di conseguenza, la direttiva formalmente escludeva che potessero persistere casi di persone inespellibili e, allo stesso tempo, irregolari. Il problema era che non dava alcuna indicazione su quale fosse la strada da percorrere: se gli Stati cioè avessero dovuto perseguire l'obiettivo dell'allontanamento, eventualmente imponendo misure contro il rischio di fuga, ma comunque nel rispetto dei termini massimi di trattenimento previsti dalla direttiva come inderogabili, ovvero se gli Stati avessero dovuto regolarizzare la posizione del cittadino interessato. La Commissione aveva riconosciuto l'esistenza del problema e si era impegnata a proporre eventuali azioni risolutive51; nel frattempo

rilevava che molti Stati membri avevano previsto strumenti affinché la persona colpita da decisione di rimpatrio o provvedimento di allontanamento potesse avviare una procedura di regolarizzazione, a condizione che soddisfacesse determinati requisiti, come aver soggiornato per un periodo minimo, aver cooperato e non aver creato problemi di ordine pubblico52.

Per quanto riguarda le garanzie procedurali previste per le decisioni di rimpatrio, di divieto di ingresso e di allontanamento, l'art. 12 della direttiva, si limitava a richiederne la forma scritta, la motivazione in fatto e in diritto e la necessità che contenessero informazioni sui mezzi di ricorso disponibili. L'art. 12, par. 1, procedeva però riconoscendo

51 Comunicazione al Parlamento europeo e al Consiglio del 17 giugno 2013, COM(2013) 422 final. Nella successiva comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo sulla politica di rimpatrio dell'Unione europea del 28 marzo 2014, COM(2014) 199 final, emergeva che “per quanto riguarda il rimpatrio delle persone non autorizzate a soggiornare nell'UE, le statistiche rivelano un divario notevole tra il numero di destinatari di una decisione di rimpatrio (all'incirca 484.000 nel 2012, 491.000 nel 2011 e 540.000 nel 2010) e quello di chi ha conseguentemente lasciato l'UE (all'incirca 178.000 nel 2012, 167.000 nel 2011 e 199.000 nel 2010)”.

52 Nel momento in cui non fosse stato possibile eseguire una decisione di rimpatrio nei confronti di un cittadino di un Paese terzo, si sarebbe verificato un impasse di difficile soluzione. Ne è una conferma la disposizione contenuta nel testo unico sull'immigrazione all'art. 14, comma 5 bis: si prevede che il Questore dia l'ordine allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro il termine di sette giorni “qualora non sia stato possibile trattenerlo in un Centro di identificazione ed espulsione, ovvero la permanenza presso tale struttura non ne abbia consentito l'allontanamento dal territorio nazionale, ovvero dalle circostanze concrete non emerga più alcuna prospettiva ragionevole che l'allontanamento possa essere eseguito e che lo straniero possa essere riaccolto dallo Stato di origine o di provenienza” e si sanziona la disobbedienza a tale comando con la multa. Sulla probabilità che all'ordine del Questore segua una partenza volontaria è inutile soffermarsi; la possibilità poi che la multa sia adempiuta appare più unica che rara, profilandosi per lo straniero la concreta occasione di finire in carcere, esito tutt'altro che conforme all'obiettivo dell'espulsione.

che “Le informazioni sui motivi in fatto possono essere ridotte laddove la legislazione nazionale consenta che il diritto di informazione sia limitato, in particolare per salvaguardare la sicurezza nazionale, la difesa, la pubblica sicurezza e per la prevenzione, le indagini, l'accertamento e il perseguimento di reati”. Agli Stati si imponeva inoltre di provvedere alla traduzione scritta od orale delle decisioni connesse al rimpatrio in una lingua comprensibile per l'interessato, “o che si può ragionevolmente supporre tale”, condizionando tale diritto alla richiesta da parte dell'interessato. Ma tale norma, a discrezione degli Stati membri, poteva non trovare applicazione nei confronti dei cittadini di Paesi terzi entrati in modo irregolare sul territorio di uno Stato i quali non avessero successivamente ottenuto un'autorizzazione o un diritto di soggiorno nello stesso. Per questi ultimi le decisioni connesse al rimpatrio sarebbero state adottate per mezzo di un modello uniforme previsto dalla legislazione nazionale, i cui elementi principali sarebbero stati esposti in schede informative generalizzate disponibili in almeno cinque lingue tra quelle più frequentemente utilizzate o comprese dagli immigrati presenti sul territorio. La disposizione contrastava con la dichiarazione di principio contenuta nel considerando 6, secondo cui “le decisioni ai sensi della presente direttiva dovrebbero essere adottate caso per caso e tenendo conto di criteri obiettivi, non limitandosi quindi a prendere in considerazione il semplice fatto del soggiorno irregolare”, rischiando di standardizzare le decisioni di rimpatrio53. Quanto ai mezzi di ricorso, l'art. 13

prevedeva che al cittadino di un Paese terzo interessato fossero concessi contro le decisioni di rimpatrio e, ove emesse, le decisioni di divieto d'ingresso e di allontanamento, mezzi di ricorso effettivo dinanzi a un'autorità giudiziaria o amministrativa o ad altro organo competente, purché composto da membri imparziali che potessero offrire garanzie di indipendenza. Tali organi, cui era riconosciuta la facoltà di riesaminare le decisioni di rimpatrio, avrebbero potuto anche sospenderne l’esecuzione. Inoltre, si riconosceva alla persona interessata al ricorso la facoltà di farsi consigliare e rappresentare da un legale e, se necessario, di avvalersi di un'assistenza linguistica. A tal proposito, gli Stati avrebbero dovuto provvedere affinché fosse garantita, su richiesta, la necessaria assistenza e/o rappresentanza legale gratuita ai sensi della pertinente legislazione o regolamentazione nazionale in materia. Infine, erano state previste alcune garanzie in relazione ai cittadini di Paesi terzi durante il periodo per la partenza volontaria concesso a norma dell'art. 7 e durante i periodi per i quali l'allontanamento fosse stato differito ai sensi dell'art. 9, in modo che fosse mantenuta l'unità del nucleo familiare con i membri della famiglia presenti sul territorio, che fossero assicurate le prestazioni

53 Favilli, La direttiva rimpatri ovvero la mancata armonizzazione dell'espulsione dei cittadini di Paesi terzi, cit.

sanitarie d'urgenza e il trattamento essenziale delle malattie, che fosse garantito l'accesso al sistema educativo di base per i minori in base alla durata del soggiorno, e che fossero prese in considerazione le esigenze particolari delle persone vulnerabili.

Il punto più controverso della direttiva rimpatri era sicuramente rappresentato dalle disposizioni dedicate all'istituto del trattenimento ai fini dell'allontanamento, peraltro applicabile anche ai minori e alle famiglie, in forza dell'art. 17. Tale modalità di esecuzione della decisione di rimpatrio veniva configurata come residuale, dovendosi da un lato verificare l'impossibilità di applicare misure meno coercitive e, dall'altro, attestare la presenza dei presupposti giustificativi, quali il rischio di fuga o il comportamento dello straniero atto a evitare od ostacolare la preparazione del rimpatrio o dell'allontanamento54. Il

trattenimento ai fini dell'allontanamento rientra ovviamente tra le misure restrittive della libertà personale e, come anticipato nel precedente paragrafo, veniva assoggettato a specifiche garanzie procedurali, che però si dimostravano insufficienti e inadeguate. Il riesame da parte dell'autorità giudiziaria del provvedimento che avesse disposto il trattenimento non era necessariamente automatico, in quanto la direttiva lasciava agli Stati la scelta di prevederlo ex officio o di garantire agli interessati il diritto di attivarsi per richiederlo; inoltre non era previsto alcun obbligo affinché il cittadino di un Paese terzo interessato fosse ascoltato di persona dal giudice competente. Contrariamente a quanto stabilito dalla c.d. “direttiva accoglienza” in materia di trattenimento in pendenza delle procedure di asilo55, non si

obbligavano gli Stati ad assicurare l'accesso gratuito alla rappresentanza e all'assistenza legali; infine, nel prevedere che in caso di provvedimenti che avessero disposto il trattenimento per periodi prolungati, sarebbero stati necessari controlli giurisdizionali periodici,

54 La direttiva non obbligava effettivamente gli Stati a stimare la disponibilità e fattibilità nel caso concreto di misure non custodiali e ciò si riflette nella formulazione delle disposizioni relative al trattenimento negli ordinamenti degli Stati membri, che presenta notevoli divergenze. In Austria per esempio, in base all'art. 77 del Fremdenpolizeigesetz del 2005, l'autorità può evitare il trattenimento ai fini dell'allontanamento se ritenga che lo stesso obiettivo possa essere raggiunto utilizzando misure meno coercitive. In Spagna, l'art. 62 della Ley Orgánica 4/2000, affida al giudice la valutazione della necessità di internamiento sulla base del principio di proporzionalità, e tenendo in particolare considerazione il rischio di fuga quando manchi il domicilio o la documentazione identificativa, quando la persona interessata abbia posto o ponga in essere atti tendenti a evitare od ostacolare l'espulsione, o quando abbia precedenti penali o procedimenti pendenti. In Italia, in base all'art. 14 del testo unico sull'immigrazione, il trattenimento nei Centri di identificazione ed espulsione è di fatto la modalità generalizzata di esecuzione dell'allontanamento, potendo venire in considerazione anche in caso di difficoltà nell'esecuzione delle operazioni di rimpatrio, la quale dovrebbe invece rilevare solo per le eventuali proroghe del trattenimento.

la disposizione non precisava cosa doveva intendersi per “periodi di tempo prolungati”: il dubbio era se il riferimento temporale dovesse essere inteso in relazione alla proroga massima consentita di dodici mesi, ovvero a un minor tempo che gli Stati avrebbero dovuto fissare. La direttiva non esitava a sottolineare la necessità che il trattenimento avvenisse per il tempo strettamente necessario ad assicurare che l'allontanamento trovasse esecuzione e finché sussistessero le condizioni che lo avevano legittimato, ma nello stabilire il termine ultimo per la sua estensione, previsto in sei mesi, aveva introdotto anche la possibilità di autorizzare delle proroghe per ulteriori dodici mesi, arrivando a un totale di ben diciotto mesi. Alla base della decisione di prorogare il periodo di trattenimento, vi era il rischio che l'operazione di allontanamento durasse più a lungo a causa della mancata cooperazione da parte della persona interessata, ovvero a causa di ritardi nell'ottenimento della necessaria documentazione da Paesi terzi. Nel primo caso la disposizione poteva rivelare una funzione punitiva: le autorità avrebbero potuto fare leva sulla possibilità di estendere il periodo di trattenimento per rimproverare al cittadino di Paese terzo interessato il suo presunto comportamento non collaborativo, e per spingerlo alla collaborazione56. Per di più la

direttiva non stabiliva cosa dovesse intendersi per “mancata cooperazione”, lasciando che fossero gli Stati o le autorità nazionali a stabilirlo. Nel secondo caso poi, la proroga della detenzione si faceva dipendere da fattori totalmente estranei alla volontà del cittadino interessato, e su di esso venivano quindi a gravare i ritardi e le inottemperanze delle istituzioni incaricate di fornire la documentazione.

Quanto alle condizioni di trattenimento, abbiamo già visto come la direttiva non abbia provveduto a fornire una disciplina esauriente, lasciando moltissimi spazi di autonomia alla legislazione degli Stati membri. È vero che imponeva agli Stati di destinare i migranti soggetti a trattenimento in strutture apposite, ma taceva sulle condizioni che in tali strutture avrebbero dovuto essere garantite. In pratica non era, e non è raro per gli Stati membri, di sottoporre i cittadini di Paesi terzi