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La sicurezza soprattutto? I diritti degli stranieri tra espulsione e detenzione amministrativa.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA Dipartimento di Giurisprudenza Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

TESI DI LAUREA

LA SICUREZZA SOPRATTUTTO? QUALI DIRITTI PER GLI STRANIERI?

RELATORE

Prof. Gianluca Famiglietti

CANDIDATO Maria Sbolci

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La tesi si propone di approfondire, in chiave critica, la disciplina europea e italiana in materia di immigrazione, in particolare con riguardo agli istituti dell'espulsione amministrativa e del trattenimento degli stranieri nei Centri di identificazione ed espulsione. Dopo l'inquadramento storico del fenomeno della migrazione trattato nella parte introduttiva, si prosegue ripercorrendo le tappe principali della politica migratoria in Italia e in Europa, caratterizzata da un progressivo sviluppo di strumenti comuni di controllo e gestione dei flussi migratori, e connotata da una forte azione repressiva dell'immigrazione irregolare. Nel secondo capitolo la trattazione si concentra sulla disciplina europea del rimpatrio, dettata dalla direttiva 2008/115/CE, sul suo risultato in termini di effetti pratici e di scelte politiche, senza dimenticare di esaminarne i profili problematici. La parte centrale dell'opera è dedicata all'esposizione delle due tipologie di espulsione amministrativa, quella disposta dal Prefetto e quella ministeriale, nonché all'esame dei presupposti di applicazione del trattenimento degli stranieri nei Cie. Infine, della normativa esaminata vengono sottolineati i numerosi profili critici, spesso contrastanti con le disposizioni costituzionali e internazionali sui diritti dell'uomo, che sembrano in questa materia trovare minor tutela in ragione di un superiore irriducibile interesse alla sicurezza dello Stato.

The thesis aims to critically examine the European and Italian Migration Law, particularly referring to administrative deportation regimes and to the practice of administrative detention in so-called “Identification and Expulsion Centres”. The paper starts presenting a historical background of the migrant phenomenon and goes on recalling the fundamental milestones of European and Italian migration policy, which led to a gradual development of shared control tools of the migration flows on the European level, as well as strength the fight against illegal migration. Subsequently, the focus shifts on the EU common standards and procedures for returning illegal immigrants laid down by the return directive 2008/115/EC, on his practical results and his critical aspects. Through an examination of the two different types of administrative expulsion and of the immigration detention regime, the last two chapters highlight some essential issues of the legislation in force that doesn't seem to be in full compliance with the National and International Human Rights Law. As this paper demonstrates, when it comes to immigration detention and deportation, fundamental human rights tolerate restrictions because of a higher concern to homeland security.

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Indice generale

Introduzione...6

Capitolo 1 ...19

Evoluzione storica della politica migratoria in Europa e in Italia...19

1.1 La creazione di un mercato comune in Europa...19

1.2 La cooperazione intergovernativa in ambito Schengen...22

1.3 L'esperienza italiana...28

1.4 Verso una politica migratoria europea...39

Capitolo 2...51

Administrative detention e deportation regime, una scelta europea....51

2.1 Fortezza Europa...51

2.2 La Direttiva 2008/115/CE...58

2.3 Criticità della normativa europea...71

Capitolo 3...81

I presupposti del trattenimento degli stranieri in Italia...81

3.1 Il potere espulsivo: ampiezza e limiti...81

3.2 L'espulsione amministrativa...88

3.2.1 L'espulsione prefettizia: presupposti ed esecuzione...88

3.2.2 L'espulsione ministeriale: sicurezza e prevenzione del terrorismo...106

3.3 La detenzione degli stranieri nei CIE...119

3.3.1 Breve ricostruzione del sistema dei Cie...119

3.3.2 Le condizioni del trattenimento...126

Capitolo 4...132

La sicurezza soprattutto? Quali diritti per gli stranieri?...132

4.1 Aspetti problematici delle espulsioni amministrative...132

4.2 L'incostituzionalità dei Centri di identificazione ed espulsione ...145

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Introduzione

La storia conosce da sempre il fenomeno delle migrazioni, che nel tempo si sono manifestate nelle più varie forme: hanno riguardato singole persone, intere famiglie o gruppi più o meno estesi di popolazione, hanno interessato percorsi di diversa ampiezza territoriale e hanno trovato fondamento in esigenze di pura sopravvivenza economica, di miglioramento delle condizioni di vita, di fuga da situazioni di guerra e repressione o da circostanze ambientali sfavorevoli. Per meglio analizzare gli spostamenti di popolazione che sono intercorsi sul territorio europeo e soprattutto per coglierne aspetti comuni e diverse forme di manifestazione, è utile adottare l'approccio di molti studiosi della materia, che individuano differenti periodi storici.

La prima fase che si vuole esaminare prende le mosse dalle tre rivoluzioni, demografica, industriale e democratica, che ebbero luogo tra la metà del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento, e in cui si assistette al passaggio dal controllo statale dell'emigrazione a un deciso incoraggiamento dell'emigrazione stessa. La trasformazione demografica avvenne in Europa grazie allo sviluppo della scienza e della medicina di fine Settecento, e fu possibile anche a seguito dell'adozione da parte della popolazione europea di nuovi modelli di comportamento, che permisero di abbattere i forti tassi di mortalità registrati nell'Ancien Régime. Questo importante mutamento portò a una forte crescita della popolazione, avvertita in un primo momento soprattutto dai Paesi dell'Europa nord occidentale, ma che si spostò rapidamente, tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX secolo, anche in Europa meridionale e orientale, fortemente colpita dagli effetti della crisi agraria. Furono proprio i lavoratori agricoli, sotto i colpi della grave crisi produttiva e delle inarrestabili trasformazioni socio-economiche, ad alimentare in maggior misura i flussi migratori del tempo, trasformandoli in un fenomeno di migrazione di massa di cui la pressione demografica costituì comunque un importante fattore. I governi europei, a partire dall'Inghilterra e a eccezione della Francia1,

adottarono provvedimenti liberistici valorizzando l'emigrazione come strumento per alleviare le tensioni interne derivanti dall'aumento della popolazione e dal conflitto religioso.

In Italia, si giunse all'approvazione di una prima legge organica solo

1 La Francia, investita da un lento processo di industrializzazione, era preoccupata da una situazione di scarsità della popolazione e mantenne misure restrittive all'espatrio per tutto il XIX secolo. Alla metà dell'Ottocento era seconda solo agli Stati Uniti come Paese di immigrazione.

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nel 18882, quando nel Paese si registravano già i tassi di emigrazione

più elevati d'Europa. Nel 1901 si superò la tradizionale concezione poliziesca di controllo degli emigranti con l'emanazione della legge n. 23, che riconobbe il diritto a emigrare e introdusse misure di tutela di carattere economico e sociale nei confronti dei migranti, restando la base legislativa fino alle trasformazioni imposte dal fascismo.

Accanto al nuovo assetto demografico, che rappresentò un importante fattore di espulsione3, la trasformazione dell'economia americana si

pose come forte elemento attrattivo creando nuove opportunità di lavoro per i migranti europei; inoltre lo sviluppo tecnologico e le sue applicazioni ai sistemi di comunicazione ebbero l'effetto di ridurre la durata dei tempi di navigazione e di favorire l'incremento del trasporto marittimo, dando così la possibilità di accrescere notevolmente il traffico dei passeggeri e delle merci4. Un ruolo decisivo fu poi rivestito

dalla forte propaganda messa in atto dalle stesse società di navigazione che si occupavano del trasporto: gli espliciti riferimenti alle infinite possibilità di occupazione e all'elevato livello dei salari esistenti nei Paesi d'oltreoceano innescarono flussi di informazioni che ebbero un'influenza determinante nell'avvio delle migrazioni di massa. A livello politico va segnalata infine l'influenza che esercitarono le idee poste alla base della Rivoluzione francese del 1789, le quali trovarono espressione, per quanto ci riguarda, nel Titolo I della Costituzione francese del 1791, laddove si riconosceva ad ogni uomo, come diritto naturale e civile, la libertà “d'aller, de rester, de partir, sans pouvoir

être arrêté, ni détenu, que selon les formes déterminées par la Constitution”. In questo periodo lo sviluppo della libertà individuale,

sociale e politica fu inestricabilmente legato a sviluppi nella sfera economica. Con l'avvento di una economia di mercato in Europa, emerse il pensiero economico liberale dei teorici del laissez-faire, che esaltavano il ruolo dell'azione economica individuale e propendevano per una eliminazione del controllo statale sulla produzione e sul consumo. In questo contesto, la mobilità umana veniva considerata essenziale per il corretto funzionamento del mercato.

Alla fine dell'Ottocento, la maggior parte dei Paesi europei aveva eliminato i controlli legali che ostacolavano l'espatrio, e la migrazione

2 Legge 30 dicembre 1888 n. 5866, c.d. legge “Crispi” sull'emigrazione, poi integrata da due regolamenti risalenti al 1889 e al 1892.

3 Le cause delle migrazioni sono riconducibili all'insieme dei fattori di espulsione da un territorio, push factors, complesso insieme di situazioni demografiche, economiche, sociali, politiche e culturali strettamente legate tra di loro, e da quelli di attrazione verso un altro, pull factors, come ad esempio migliori condizioni di vita, opportunità di lavoro e domanda di manodopera, possibilità di esercizio dei diritti di libertà. Ai fattori di espulsione in un dato territorio, non sempre possono ricollegarsi fattori speculari nel territorio di approdo. Vi sono dei casi inoltre in cui esistono soltanto push factors o solo pull factors.

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volontaria verso il Nuovo Mondo cominciò a dominare le migrazioni transnazionali europee5. È operazione diffusa tra gli studiosi della

storia dell'immigrazione distinguere il fenomeno della c.d. “Grande emigrazione” tra old migration e new migration6. La prima, più

risalente, riguardò gli spostamenti dalle aree più sviluppate dell'Europa nord-occidentale verso le regioni sottosviluppate del Nuovo Mondo e delle colonie e coinvolse prevalentemente persone di provenienza urbana e di estrazione artigiana. Progressivamente, il flusso migratorio in uscita dall'Europa fu alimentato da emigranti originari dell'Europa meridionale e orientale, spesso poco scolarizzati e di estrazione rurale. Questo mutamento può essere in parte spiegato osservando come lo sviluppo industriale, l'allentamento della pressione demografica e il miglioramento dell'assistenza sociale avesse contribuito a garantire migliori condizioni di vita nei Paesi europei nord-occidentali, riducendo così l'impulso a migrare. In misura maggiore, alla base della differenziazione tra i due periodi, sta il declino del sogno colonizzatore e l'attenuarsi del miraggio dell'oro, fattori che avevano attratto in una prima fase nobili, mercanti e proprietari terrieri. Lo sviluppo delle grandi opere infrastrutturali, la costruzione delle ferrovie e la seconda rivoluzione industriale americana richiamarono una categoria di migranti radicalmente diversa, composta da lavoratori privi di qualifiche e scarsamente radicati sul territorio.

Tra il 1845 e il 1915, anni in cui convenzionalmente si delimita la grande emigrazione transoceanica, milioni di persone lasciarono l'Europa in cerca di migliori condizioni di vita e di lavoro; tra questi, il 40% proveniente dalla Gran Bretagna, il 13% dalla Germania e, a seguire, con percentuali comprese tra il 7 e il 4%, dall'Austria-Ungheria, dalla Spagna, dalla Russia e dai Paesi scandinavi. In questa graduatoria, l'Italia si posizionò seconda, con una percentuale intorno al 16%; relativa a emigranti per la maggior parte provenienti dal Mezzogiorno. Nel complesso il fenomeno coinvolse 13 milioni e mezzo di nostri concittadini7.

Nello stesso periodo, seppure con numeri inferiori, spostamenti di popolazioni si registrarono all'interno del territorio europeo, dalle zone

5 Collinson, Sarah. Le migrazioni internazionali e l'Europa, Bologna : Il mulino, 1994.

6 Corti, Storia delle migrazioni internazionali, cit.; Kaczynski, Grzegorz J.. Processo migratorio e dinamiche identitarie, Milano, Franco Angeli, 2008. 7 Ambrosini, Maurizio. Sociologia delle migrazioni, Bologna : Il mulino, 2005.

La Francia rimase estranea a questo movimento migratorio imponente, per ragioni di carattere storico e sociali, quali il connaturato basso tasso di natalità e una scarsa propensione migratoria, fattori che ne determinarono l'evoluzione fino ai giorni nostri in uno dei più importanti Paesi di accoglienza d'Europa. Secondo i dati del Global Detention Project, nel 2015 la presenza di immigrati in Francia raggiungeva il 12,1% della popolazione, corrispondente a circa sette milioni e mezzo di persone.

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più arretrate economicamente verso i Paesi già investiti da processi di sviluppo; mete principali di questi movimenti furono la Francia e la Svizzera, mentre l'Italia fu il Paese a più elevato tasso migratorio. Il secondo periodo rilevante è collocato a cavallo delle due guerre, anni in cui si giunse, per il verificarsi di una serie di avvenimenti di carattere economico, sociale e politico, a un brusco arresto dei movimenti migratori, soprattutto transoceanici.

In primo luogo, l'affermazione degli Stati-nazione ebbe come principale effetto quello di dare impulso alla costruzione di un sistema difensivo di carattere militare, alla corsa coloniale e all'elevazione di barriere protezionistiche, e, secondariamente, incise profondamente sugli andamenti dei mercati del lavoro interni e internazionali. L'intervento economico e sociale dello Stato a favore dei propri sudditi si fece sempre più penetrante e determinò una differenziazione tra i diritti di questi ultimi e quelli riservati agli stranieri, con conseguente dilagare di sentimenti discriminatori e di xenofobia. La politica nazionalistica dei vari Stati negli anni di guerra, si tradusse a livello internazionale nella stipulazione di accordi e trattati che costituirono strumenti di difesa e di controllo dei movimenti migratori. Nonostante l'aumento dei controlli e le difficoltà della guerra avessero provocato una diminuzione generale dei flussi migratori, in questo periodo continuarono a registrarsi significativi spostamenti: quanti si trovavano all'estero dovettero decidere se tornare in patria per arruolarsi o restare nello Stato di residenza in via definitiva; molti lavoratori stranieri in territori nemici furono espulsi, tanti altri furono costretti a fuggire a causa dei sempre più numerosi episodi di razzismo cui venivano sottoposti; ulteriori migrazioni, spesso nella forma di vere e proprie deportazioni, risposero ai nuovi bisogni di manodopera necessaria all'economia di guerra degli Stati europei. Al termine del primo conflitto mondiale, l'applicazione delle trattative di pace determinò nuovi movimenti: solo in Europa circa 5 milioni di persone furono costrette ad abbandonare i propri territori8.

Dal punto di vista della politica migratoria, dopo circa un trentennio di liberismo legislativo e di circolazione quasi illimitata di manodopera nei mercati del lavoro internazionali, vari Paesi di immigrazione, a partire dagli Stati Uniti, adottarono misure restrittive per limitare l'ingresso dei lavoratori stranieri, nei confronti dei quali andava crescendo un sentimento di diffidenza e di ostilità. Il Paese che negli ultimi anni era stato la principale sede di destinazione dei flussi migratori internazionali, introdusse con il c.d. “Emergency quota Act” del 1921, il sistema delle quote numeriche9. Si trattava di 8 Ambrosini. Sociologia delle migrazioni, cit.

9 In un primo momento, le quote furono stabilite nella misura del 3% della popolazione di ciascun gruppo presente nello Stato americano al 1910, in seguito, con il c.d. “Johnson-Reed Act” del 1924, furono portate al 2% prendendo come

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provvedimenti emanati in parte come risposta alle nuove esigenze del sistema produttivo e soprattutto in linea con l'ondata di razzismo diffusosi nella società americana; tali misure favorivano infatti le nazionalità di più antica immigrazione sul territorio statunitense e quindi più gradite per la loro affinità etnico-culturale e per il loro maggior grado di integrazione. Negli anni venti si registrarono partenze al di sotto delle 2-300.000 unità; in seguito, anche a causa della profonda depressione che colpì l'economia internazionale negli anni trenta, si scese ulteriormente al di sotto delle 100.000 partenze10.

Il panorama internazionale dei movimenti migratori fu scosso, nello stesso periodo, dall'avvento dei regimi totalitari in Italia e in Germania e dalla vittoria franchista in Spagna. Già dai primi anni trenta numerosi dissidenti politici scelsero l'esilio per fuggire alla repressione, e a questi si aggiunsero, soprattutto nel caso della Germania nazista, le migliaia di persone costrette a scappare a seguito della persecuzione posta in essere dal regime contro i gruppi etnici di appartenenza. Furono 300.000 gli ebrei che lasciarono la Germania nel periodo compreso tra il 1933, anno della ascesa al potere di Hitler, e il 1939, anno in cui scoppiò la guerra e in cui fu portata a compimento l'idea folle del regime con lo sterminio programmato di circa 6 milioni di ebrei, di numerosi prigionieri politici e oppositori, e di un numero di zingari compreso tra 200.000 e 400.000.

Alla fine della guerra vi erano approssimativamente 14 milioni di profughi che dovevano essere rimpatriati, circostanza che fece emergere come il problema dei rifugiati non potesse essere risolto che a livello internazionale e in un'ottica tutt'altro che emergenziale. Nel 1946 fu istituita dalle Nazioni Unite l'Organizzazione internazionale per i rifugiati11; tre anni più tardi, l'Assemblea Generale delle Nazioni

Unite adottò una risoluzione in cui si prevedeva l'istituzione dell'ufficio dell'Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati12, il cui statuto

venne adottato nel 1950 e conteneva una definizione universale di rifugiato13 nonché l'obbligo di cercare “soluzioni permanenti” ai

problemi dei rifugiati. Nel 1951 fu approvata a Ginevra la

riferimento il censimento del 1890.

10 Willcox, Walter F.. Migration According to International Statistics: Intercontinental Movements, in International Migration, Volume I: Statistics, Walter F. Willcox, National Bureau of Economic Research, 1929.

11 International Refugee Organization, IRO. Nel 1952 cessarono le funzioni dell'organizzazione e a quest'ultima si sostituì l'operato dell'Alto Commissario per i Rifugiati.

12 United Nation High Commissioner for Refugees, UNHCR

13 Il mandato dell'Alto Commissario si estende a tutte le persone che si trovino fuori del Paese di loro nazionalità o di abituale residenza e non possano o non vogliano reclamare la protezione di tale Paese o ritornarvi per il fondato timore di essere perseguitati per ragione di razza, di religione, di nazionalità o di opinioni politiche.

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Convenzione sullo status di rifugiato14, che imponeva agli Stati

firmatari standard minimi di protezione, primo tra tutti il principio di

non refoulement, previsto all'art. 3315.

Subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale si sviluppò, a livello internazionale, un nuovo ciclo di flussi migratori, grazie al rilancio dell'economia di cui beneficiarono i Paesi occidentali, e all'affermazione di nuove politiche di matrice liberistica in materia di migrazione. Già dal 1945 ripresero le partenze dall'Europa. Soprattutto dall'Italia e dalla Germania, i due Paesi che scontavano la sconfitta in guerra con gravi danni economici e profonde crisi sociali aggravate dall'ingente tasso di disoccupazione, partirono migliaia di persone, in direzione delle tradizionali mete transoceaniche. L'ondata di due milioni e mezzo di immigrati che si registrò negli Stati Uniti tra il 1950 e il 1959, riguardò per il 56% europei; tra questi, al primo e al quinto posto di provenienza tedesca e italiana, rispettivamente16.

Nel periodo postbellico il fenomeno migratorio crebbe in modo considerevole all'interno della stessa Europa: l'immediata necessità di ricostruire le città distrutte dai bombardamenti generò movimenti migratori alimentati soprattutto da lavoratori del settore edile. In un primo momento in realtà, i Paesi vincitori avevano fatto ricorso ai prigionieri di guerra e alla manodopera proveniente dai propri imperi coloniali17, ma nonostante questo importante contributo, i Paesi 14 “Chiunque, per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi”. La limitazione geografica facoltativa, che permetteva agli Stati contraenti di circoscrivere i propri obblighi a favore di rifugiati divenuti tali a causa di avvenimenti occorsi in Europa prima della data limite, costituì un tentativo di limitare gli obblighi assunti nei confronti dei futuri rifugiati e fu eliminata solo nel 1967.

15 L'art. 33 della Convenzione di Ginevra, rubricato “Divieto d’espulsione e di rinvio al confine”, recita: “Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”.

16 Zhao, Xiaojian. Immigration to the United States after 1945, Oxford Research Encyclopedia of American History, luglio 2016, disponibile all'indirizzo: http://americanhistory.oxfordre.com/

17 La Francia, già nel 1947, con lo Statuto organico d'Algeria, allargò i diritti dei Francesi agli abitanti delle colonie e confermò il principio del libero movimento tra i due Paesi, determinando l'afflusso di migliaia di Algerini. Anche la Gran Bretagna, per attirare la forza lavoro necessaria alle esigenze del dopoguerra, adottò provvedimenti che favorissero la circolazione all'interno del proprio dominio coloniale, mentre la Germania si avvalse inizialmente della manodopera

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coinvolti nel conflitto si rivolsero anche ai vicini Stati europei. La Francia sposò una politica di adattamento e di assimilazione culturale, e siglò con il governo italiano una serie di accordi per il reclutamento di lavoratori italiani, considerati più favorevolmente rispetto a quelli provenienti dal Nord Africa, per vicinanza e similarità di tradizioni. In base a ulteriori accordi bilaterali stipulati tra il 1946 e il 1947, gli Italiani furono diretti, oltre che in Francia, nelle zone minerarie di Belgio, Svizzera, Gran Bretagna e Cecoslovacchia18.

Il boom economico dei primi anni cinquanta e successivi due decenni, portò alcuni Paesi dell'Europa centro-settentrionale al pari dei livelli economico-industriali degli Stati Uniti, determinandone il ruolo di protagonisti dell'economia mondiale. Nei mercati occupazionali di tali Stati, stante la difficoltà di reperire forza lavoro locale, in particolare per i c.d. “lavori delle tre d”19, si attivò una domanda di lavoro

indirizzata a Paesi come l'Italia, che non avevano ancora raggiunto un adeguato sviluppo economico o che si avviavano a realizzarlo in situazioni di profondo squilibrio territoriale20. Per i governi italiani del

dopoguerra l'emigrazione costituì una “valvola di sfogo” in quanto rappresentò una risorsa contro la disoccupazione interna, fu inoltre un utile strumento di controllo politico sulla forte conflittualità sociale e si tradusse in una potente moneta di scambio per ottenere, dall'estero, le materie prime necessarie alla ripresa industriale del Paese. Da una prima fase che vide l'Italia emergere quale principale bacino di forza lavoro per i mercati delle zone industrializzate del Nord Europa, si passò a una seconda fase in cui le aree di partenza nell'Europa meridionale si espansero21 e il numero di partenze dal nostro Paese

subì un primo ridimensionamento.

Per quanto riguarda le aree di arrivo invece, se da un lato la Gran Bretagna non si dotò di un sistema di controllo dei flussi, che quindi si andarono sviluppando al di fuori di una qualsiasi struttura statale, la Francia al contrario, aveva predisposto meccanismi troppo rigidi per

di milioni di Tedeschi rifugiati o espulsi dall'Europa orientale e centrale, e dei numerosi migranti provenienti dalla Germania dell'Est, almeno fino all'erezione del muro di Berlino nel 1961.

18 Collinson. Le migrazioni internazionali e l'Europa, cit. 19 Dirty, dangerous and demanding: sporchi, pericolosi e faticosi.

20 Melotti, Umberto. Migrazioni internazionali: globalizzazione e culture politiche, Milano : Bruno Mondadori, 2004. Negli stessi anni, in Italia così come all'interno degli altri Stati dell'Europa meridionale, si registrarono movimenti migratori che presentavano, almeno in parte, le stesse logiche degli spostamenti continentali, essendo diretti verso le aree più economicamente avanzate del Paese. In Italia si partì dalle zone rurali del Mezzogiorno e del Veneto verso il triangolo industriale di Milano, Torino e Genova; in Spagna dall'Andalusia e altre regioni del Sud verso la Catalogna e Madrid.

21 La causa è da rintracciare prevalentemente nell'allentamento delle misure restrittive di alcuni Stati autoritari come la Spagna, il Portogallo e la Jugoslavia.

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rispondere alla crescente domanda di forza lavoro: i datori di lavoro, ma anche gli stessi migranti, cominciarono a eludere una regolamentazione percepita come eccessivamente burocratica, e il fenomeno assunse presto carattere anarchico. Inefficace si rivelò anche il modello tedesco, orientato verso la creazione di un sistema di rotazione dei lavoratori; questi ultimi, in quanto Gastarbeiter, lavoratori ospiti, dovevano rimanere in Germania il tempo strettamente necessario a raggiungere le finalità del loro impiego e, una volta ritornati in patria, sarebbero stati sostituiti da nuovi impiegati a seconda delle esigenze manifestate dal mercato interno. Questo meccanismo rotatorio si pose in conflitto con la preoccupazione degli imprenditori di avere una continuità di impiego per una forza lavoro qualificata e fece sì che si creasse di fatto un'immigrazione permanente, in contrasto con le originarie intenzioni del governo22.

Nel corso degli anni settanta, gli Stati europei che fino a quel momento avevano non solo attratto, ma attivamente reclutato manodopera straniera, seppur attraverso modalità e regole molto diverse, si trovarono ad affrontare le stesse problematiche, manifestate da persone che, nella maggior parte dei casi, non erano intenzionate a fare ritorno nei loro Paesi di origine quando e se la necessità della loro presenza fosse venuta meno. Il timore che i lavoratori stranieri potessero stabilirsi definitivamente sui territori dei Paesi di accoglienza, con conseguente aumento degli oneri sociali e del welfare, costituì uno dei principali motivi che indussero molti Stati dell'Europa nord-occidentale a introdurre misure restrittive all'ingresso23.

In effetti, ben prima di conoscere gli effetti della crisi petrolifera del 1973, tra i quali sicuramente un calo della domanda di manodopera nei mercati internazionali del lavoro, la crescente preoccupazione rispetto al fenomeno migratorio determinò una tendenziale chiusura delle frontiere, che, contrariamente alle attese, si rivelò fallimentare. Quando entrarono in vigore i primi provvedimenti restrittivi, molti immigrati, preoccupati di non poter più fare ritorno nei Paesi di immigrazione, preferirono richiamare le proprie famiglie nelle nuove sedi di lavoro attraverso l'esercizio del diritto al ricongiungimento familiare, determinando quindi un certo ampliamento dei flussi migratori24. 22 Collinson. Le migrazioni internazionali e l'Europa, cit.

23 Corti. Storia delle migrazioni internazionali, cit. Un ulteriore motivo di preoccupazione fu l'aumento della presenza di gruppi etnici di provenienza non europea e di religione musulmana in alcune delle più importanti sedi di arrivo. 24 Il ricongiungimento familiare era generalmente ammesso a favore di chi ne

facesse richiesta, purché potesse contare su un familiare già residente in grado di assicurargli sostegno economico e sistemazione adeguata, tutto ciò affinché non gravasse sulla spesa pubblica dello Stato ospitante. Si registrarono tuttavia alcuni interventi di limitazione di tale diritto: in Francia, dal luglio 1974 al luglio 1975, si proibì l'immigrazione familiare; successivamente venne consentito l'accesso ai familiari degli immigrati a condizione che essi non richiedessero di entrare nel

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Questo effetto imprevisto provocò reazioni ancora più drastiche da parte dei Paesi di accoglienza, che in molti casi tentarono soluzioni alternative al controllo, fino a prevedere incentivi finanziari a quanti avessero voluto rimpatriare25.

La svolta nella politica migratoria europea, avviata già sul finire degli anni sessanta e consolidatasi a seguito della crisi del 1973, oltre a causare una contrazione quantitativa dei movimenti migratori, ebbe ripercussioni anche da un punto di vista qualitativo, in quanto portò a una certa femminilizzazione e a un abbassamento dell'età media della popolazione migrante. Inoltre, a seguito delle restrizioni poste dai tradizionali Paesi di immigrazione all'ingresso nei propri territori, nacquero e si svilupparono nuovi poli di attrazione, tra i quali i Paesi petroliferi del Medio Oriente, favoriti dalle consistenti entrate per la vendita del petrolio, dal progresso economico e dalla crescita delle infrastrutture, sui quali molti Stati esportatori di manodopera dirottarono i propri flussi migratori26.

Anche in Europa nel corso degli anni settanta, si assistette a uno spostamento dell'asse delle migrazioni: i Paesi dell'Europa meridionale, fino a quel momento Paesi di emigrazione, si trovarono sforniti di risposte politiche e normative davanti all'ondata di migranti che cominciò a riversarsi nei loro territori. Tra le ragioni di questa inversione di tendenza, al di là della maggiore permeabilità delle frontiere, rivestì un ruolo importante il forte divario demografico che tuttora divide i Paesi della riva sud del Mediterraneo da tutti i Paesi europei, segnati da un tendenziale e crescente invecchiamento della popolazione. Inoltre i nuovi Stati interessati dai flussi migratori erano caratterizzati prevalentemente da un'economia e un mercato del lavoro particolarmente favorevoli ad accogliere i crescenti arrivi di una manodopera dequalificata e irregolare. La diffusione dell'economia sommersa è andata di pari passo rispetto all'aumento della migrazione nel Sud Europa: i nuovi migranti, ormai sganciati dal meccanismo di reclutamento della forza lavoro che fino a pochi anni prima ne aveva costituito il motore principale, pur di sottrarsi alla disoccupazione, si offrivano per ricoprire incarichi precari e non regolarizzati, da un lato alimentando dinamiche di sfruttamento che sfociarono nella creazione di un secondo mercato del lavoro, in cui la manodopera straniera era utilizzata per contenere i salari e le contribuzioni fiscali e sociali;

mercato del lavoro. Allo stesso modo, nella Repubblica federale tedesca, fino al 1979 venivano rilasciati ai familiari degli immigrati permessi di residenza ma non permessi di lavoro.

25 Così fecero la Francia nella seconda metà degli anni settanta e la Germania all'inizio degli anni ottanta, con risultati a dir poco deludenti. In Francia ad esempio, a seguito del programma di incentivi lanciato nel 1977, si registrarono circa 45.000 partenze, cifra che non sfiorò neanche lontanamente l'obiettivo ufficialmente dichiarato di 200.000 unità.

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dall'altro accrescendo la conflittualità con i lavoratori locali, che videro minacciate le loro conquiste sociali27. Pur mantenendo significativi

flussi in uscita, gli Stati dell'Europa meridionale si sono quindi trasformati in Paesi di transito e di immigrazione, dovendo di conseguenza munirsi di una legislazione in materia e affrontare i problemi legati all'accoglienza di persone provenienti da territori sempre più lontani fisicamente e culturalmente.

Nel 1981, il primo censimento Istat degli stranieri in Italia calcolava la presenza di 321.000 stranieri, di cui circa un terzo “stabili” e il rimanente “temporanei”. Nel 1991 il numero di stranieri residenti era di fatto raddoppiato, passando a 625.000 unità. Tale saldo migratorio negli anni novanta ha continuato a crescere e, dal 1993 ha rappresentato la sola causa di incremento della popolazione italiana. La tendenza riguardava anche gli altri Stati sud europei: dal 1982 al 1993 gli immigrati registrati complessivamente in Italia, Spagna, Portogallo e Grecia sono passati da circa il 4% a circa il 7%28. Ovviamente restava

fuori dalle statistiche la percentuale relativa ai lavoratori stranieri entrati illegalmente nel territorio europeo, una percentuale in realtà tutt'altro che marginale. Il fenomeno della immigrazione clandestina, da sempre esistito, si è in effetti accresciuto con l'aumento dei controlli e la chiusura di molti canali di ingresso legali29, ed è stato favorito dal

proliferare di organizzazioni criminali internazionali che hanno da subito saputo organizzare e sfruttare economicamente l'enorme traffico di migranti.

Nonostante le forti restrizioni adottate dai Paesi di accoglienza, durante gli anni ottanta e novanta del Novecento, i flussi dai Paesi meno sviluppati verso quelli più avanzati sono stati interessati da una rapida crescita, dovuta ai profondi sconvolgimenti che hanno caratterizzato i contesti economici e politici mondiali di quel periodo: il passaggio alla società postindustriale e l'affermarsi della globalizzazione, la crisi e l'implosione del sistema sovietico, e l'acuirsi dei fattori di spinta in molti Paesi asiatici, africani, centro e sudamericani sono stati i più influenti. Un'influenza determinante è stata riconosciuta in primo luogo a quel complesso di fenomeni economici, sociali e politici riuniti

27 Corti. Storia delle migrazioni internazionali, cit.

28 Pugliese, Enrico. L'Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Bologna : Il mulino, 2002.

29 Il 1985 è l'anno in cui venne firmato a Schengen un primo accordo volto a sopprimere le frontiere interne tra gli Stati europei e costituire un sistema comune rafforzato di controllo alle “frontiere esterne”. Da questo momento si è progressivamente affermata una distinzione sempre più marcata tra cittadini della Comunità, a favore dei quali si prevedono misure di integrazione e di potenziamento della libertà di circolazione in territorio europeo, e cittadini “extracomunitari”, termine che entra nell'uso comune per definire l'immigrato da Paesi del Sud del mondo.

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sotto il termine “globalizzazione”30. Secondariamente, un ruolo

importante ha rivestito l'evoluzione, o meglio, l'involuzione storica dell'esperienza sovietica31. Infine, hanno acquisito sempre maggiore

forza i fattori espulsivi in molti Paesi di esodo32; moltissime persone

sono state costrette a lasciare le loro terre, consumate dalla crisi economica e da condizioni ambientali avverse, e lacerate da conflitti e repressione per intraprendere quelli che, in modo molto evocativo, sono stati definiti “viaggi della speranza”. Si è stimato che nel 1997 fossero tra i 135 e i 140 milioni le persone coinvolte nelle migrazioni internazionali; di questi, almeno 13 milioni sono stati riconosciuti come rifugiati dall'alto Commissario dell'Onu per i rifugiati33.

Dagli anni duemila si è parlato sempre più spesso di “mondializzazione della migrazione”, per indicare come il fenomeno migratorio abbia cominciato a rappresentare una delle maggiori questioni internazionali. Alla progressiva liberalizzazione nel movimento delle merci, ha corrisposto un crescente protezionismo nei confronti delle persone34; in un mondo in cui tutto circola sempre più

liberamente, la mobilità delle persone è stata regolamentata in Europa in modo molto differenziato: incoraggiata rispetto a categorie di migranti che potremmo definire “graditi”, ad esempio cittadini europei, cittadini extraeuropei provenienti da Paesi benestanti, soggiornanti di

30 In particolare, i fenomeni cui si fa riferimento individuati quali cause effettive della trasformazione, sono stati: la diffusione e lo scambio di informazioni sulle possibilità di ingresso regolare e irregolare, sulla opportunità di guadagno e sull'accoglienza riservata agli immigrati dai Paesi di destinazione; la semplificazione degli spostamenti, con conseguente riduzione dei costi e dei rischi; la possibilità di effettuare facilmente rimesse monetarie, anche illegali, ai Paesi di origine; infine, la diversificazione della domanda nei mercati del lavoro, dettata dai cambiamenti dell'economia e rivolta in modo particolare a lavoratori senza qualifiche, che sono diventati i nuovi addetti a un settore in repentina crescita, il terziario.

31 In effetti, gli spostamenti migratori nelle regioni dell'est durante il comunismo furono assai limitati, a causa dei controlli e dei divieti a emigrare imposti dal regime. Già dalla metà degli anni ottanta, si assistette a una graduale apertura di Stati appartenenti al blocco sovietico, segno della crisi latente che esplose con la caduta del muro di Berlino nel 1989 e che determinò la fine dell'isolamento dei Paesi comunisti dalle economie di mercato dell'Europa occidentale, con conseguenti flussi migratori di notevole portata, successivamente rafforzati a causa dei conflitti nell'area dell'ex-Jugoslavia.

32 In particolare, si fa riferimento alle aree colpite dalle guerre interetniche postcoloniali o schiacciate da dittature e regimi militari che, nel corso degli anni ottanta erano state punto di partenza dei più intensi movimenti migratori: America centrale, Africa orientale e meridionale, Asia occidentale, Medio Oriente. 33 Wihtol de Wenden, Catherine. Atlante mondiale delle migrazioni; cartografia di

Madeleine Benoit-Guyod, Milano : Vallardi, 2012.

34 Golini, Antonio. L’Italia nel quadro dei flussi migratori internazionali, in La presenza straniera in Italia: l’accertamento e l’analisi, Atti del Convegno di Roma, 15-16 dicembre 2005, a cura di Nadia Mignolli, Istituto nazionale di statistica, Roma : C.S.R. Centro stampa e riproduzione S.r.l., 2008.

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breve periodo o lavoratori altamente qualificati. Al contrario gli spostamenti di popolazione sono stati ostacolati con riferimento ai c.d. “indésiderables”, migranti economici, in fuga da situazioni di povertà e di guerra, in cerca di maggiore ricchezza e di stabilità nel Paese di destinazione. Negli ultimi anni il tema dell'immigrazione è diventato in tutta Europa un tema caldo, un argomento che riempie le pagine dei giornali e le campagne elettorali, perché fenomeno che riguarda da vicino il nostro continente: abbiamo assistito a ondate crescenti di profughi, causate dal peggioramento delle condizioni di vita nei Paesi di partenza. Siamo ormai abituati purtroppo, soprattutto nel periodo estivo, ad ascoltare notizie riguardanti sbarchi di centinaia di persone, spesso vittime di uomini senza scrupolo che approfittano della loro condizione di necessità per interessi meramente economici. Nel 2015, secondo quanto riportato dall'UNHCR, si sono contati più di un milione di arrivi via mare; nel 2016 il dato è arrivato a quasi 370.000 mentre nello stesso anno i morti e i dispersi ammontavano a 5.079 persone35. La maggior parte di questi migranti arriva dai primi Paesi

produttori di rifugiati nel mondo: Siria, Afghanistan, Nigeria, Iraq, Eritrea, Pakistan, Guinea, Gambia, Sudan, Costa d'Avorio.

A questa forte richiesta d'aiuto l'Europa reagisce ormai da tempo con una politica unitaria improntata a un approccio restrittivo, scivolando verso una doppia deriva, sicuritaria, con il diritto d'asilo usato come uno degli strumenti di controllo delle frontiere, e umanitaria, con il tentativo di rispondere alla domanda mantenendo le popolazioni in loco e permettendo lo sviluppo di forme di asilo al ribasso, discrezionali e provvisorie36. Molti partiti politici di tutta Europa e del

mondo hanno dato troppo spazio ai sentimenti di paura e avversione diffusi nelle loro comunità nei confronti degli stranieri, tanto da avviare e portare avanti opere di costruzione di barriere fisiche e culturali, contro il loro ingresso nel territorio e il loro inserimento nella società. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, divenuto tema centrale nella politica degli Stati europei, di fondamentale importanza sarebbe il ruolo rivestito dai componenti della seconda e terza generazione, figli e nipoti dei primi migranti, sempre più spesso nati in Europa, cresciuti nelle scuole europee e quindi culturalmente vicini al Paese di accoglienza. Queste persone rappresentano e potrebbero svolgere la funzione di ponte, di collegamento tra la cultura del Paese europeo e le tradizioni del Paese di origine; potrebbero contribuire in modo rilevante, anche solo grazie alla conoscenza di due lingue, all'integrazione delle famiglie straniere nel tessuto sociale europeo. Tale importante compito dovrebbe però essere riconosciuto dagli Stati, attraverso il potenziamento del meccanismo di attribuzione della

35 I dati sono stati diffusi in data 6 gennaio 2017 dall'OIM, Organizzazione internazionale per le migrazioni.

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cittadinanza iure soli o con l'attribuzione della cittadinanza secondo forme agevolate o comunque diverse dalla naturalizzazione, come in Italia si sta cercando di fare grazie alla proposta di legge di introduzione del c.d. “ius culturae”37.

Dal quadro introduttivo che abbiamo tracciato, emerge come l'Europa sia ormai da tempo un importante punto di riferimento nelle dinamiche migratorie internazionali; si tratta ora di studiare specificamente come il problema della gestione dei flussi sia stato governato dalle istituzioni dell'Europa unita. Se da un lato gli Stati hanno dovuto affrontare la richiesta di integrazione proveniente dalle comunità straniere da tempo residenti sul proprio territorio, da un altro lato l'esigenza è stata quella di creare un sistema complesso di gestione dell'immigrazione teso a garantire il controllo statale contro gli ingressi illegali, sistema condiviso a livello europeo, seppur con qualche differenziazione tra i vari Paesi membri. Come vedremo, i meccanismi privilegiati utilizzati in questo senso sono stati, in un'ottica di prevenzione, la predisposizione di una struttura coordinata di sorveglianza delle frontiere europee, per impedire, ostacolare o comunque vigilare sugli spostamenti di confine; e, a posteriori, in caso di elusione dei controlli, l'affinamento di strumenti di repressione della clandestinità, in particolare il sistema delle espulsioni, che trova nel trattenimento all'interno dei Centri di identificazione ed espulsione una modalità di esecuzione apparentemente irrinunciabile.

37 DDL n. 2092 recante “Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza”, approvato dalla Camera e trasmesso al Senato il 13 ottobre 2015, tuttora in corso di esame in Commissione Affari Costituzionali.

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Capitolo 1

Evoluzione storica della politica migratoria in

Europa e in Italia

1.1 La creazione di un mercato comune in Europa

Come noto, l'Unione Europea nacque a seguito della seconda guerra mondiale dalla volontà e dall'impegno di uomini illustri di diverse nazionalità mossi da ideali condivisi: l'obiettivo cui si mirava era quello di instaurare un legame tra Paesi europei abbastanza forte da scongiurare il riproporsi di vecchie inimicizie che potessero sfociare in nuovi scontri armati. La pace, l'unità e la prosperità erano i fondamenti di questo disegno moderno, attuato in un primo momento attraverso strumenti economici, secondo il principio per cui il commercio, producendo un'interdipendenza tra gli Stati, avrebbe ridotto il rischio di conflitti. Con la nascita della Comunità Europea il fenomeno dell'immigrazione, regolare e clandestina, presto sarebbe stato affrontato a livello europeo poiché rappresentava, agli occhi della politica dominante, una minaccia all'ordine pubblico e alla sicurezza del nuovo soggetto giuridico sovrastatale.

Il 25 marzo del 1957 furono firmati i Trattati di Roma1 istitutivi della

Comunità Europea dell'Energia Atomica, (EURATOM) e della Comunità Economica Europea, (CEE). Le norme del trattato istitutivo della Comunità non si occupavano minimamente della situazione dei cittadini di Paesi terzi. In effetti, nel momento in cui il progetto europeo prese forma e fu avviata la primissima prova di integrazione, il fenomeno della migrazione economica assumeva una rilevanza prevalentemente intracomunitaria, riguardando quasi esclusivamente lavoratori di origine italiana; l'immigrazione proveniente da Paesi terzi iniziò ad assumere rilievo soltanto negli anni settanta del secolo scorso. Fu infatti in quegli anni, e precisamente nel 1974, che la Commissione cominciò a occuparsi specificamente del tema, attraverso la messa a punto di un programma d'azione per i lavoratori migranti e le loro famiglie con il quale si mirava all'adozione di misure finalizzate a migliorare la condizione dei lavoratori stranieri impiegati negli Stati membri, sotto il profilo dell'occupazione e dell'integrazione sociale nel territorio ospitante. Di tutt'altro spessore la decisione della

1 Precedentemente, il 18 aprile 1951, con il Trattato di Parigi, venne istituita la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio, (CECA).

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Commissione n. 381 adottata in data 8 luglio 1985, che istituiva una “procedura di comunicazione preliminare e di concertazione sulle politiche migratorie nei confronti degli Stati terzi”. Al fine di facilitare l'informazione reciproca, individuare problematiche comuni, controllare il rispetto delle azioni e politiche comunitarie in materia e soprattutto, “allo scopo di progredire verso l'armonizzazione delle legislazioni nazionali sugli stranieri”, si era introdotto l'obbligo a carico di ogni Stato di informare la Commissione e gli altri Stati membri in merito a progetti di provvedimenti o di accordi internazionali relativi all'ingresso, al soggiorno e al trattamento dei cittadini di Paesi terzi. La decisione venne annullata con sentenza del 9 luglio 1987 della Corte di giustizia. In seguito la Commissione adottò una nuova decisione depurata dalle norme ritenute invalide, la n. 384 del 1988, che portò a scarsi risultati pratici.

In quegli anni, lo sforzo europeo era tutto proiettato verso il raggiungimento dello scopo principale del Trattato, quello cioè di creare un mercato comune attraverso vari strumenti, tra i quali uno spazio geografico e giuridico interno caratterizzato dall’eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali2. Per raggiungere tale scopo era

chiaro che il primo ostacolo da rimuovere, di natura fisica, era costituito dalla frontiera, linea di confine tra gli Stati, all'altezza della quale venivano effettuati i controlli sulle persone e sulle merci funzionali alla sicurezza e alla regolarità degli ingressi.

Con l'Atto Unico Europeo3, modificando il Trattato di Roma attraverso

l'introduzione del nuovo articolo 8 A, si individuò come obiettivo della Comunità quello di adottare, entro il 31 dicembre 1992, “le misure destinate all'instaurazione progressiva del mercato interno”, definito come “uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali4”. Ovviamente, all'abolizione dei controlli alle frontiere

comuni doveva necessariamente corrispondere un innalzamento dei livelli di efficacia dei controlli ai confini esterni: era quindi indispensabile l'adozione di misure adeguate a garantire una sicurezza già esposta ai pericoli della liberalizzazione della circolazione interna, e queste azioni furono individuate da un lato, nel rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne, dall'altro, nell'accrescimento della

2 Art. 3, lett. c del Trattato che istituisce la Comunità Europea

3 L'Atto Unico Europeo, firmato a Lussemburgo il 17 Febbraio 1986 ed entrato in vigore il primo luglio 1987, dipese dalla volontà degli Stati membri di proseguire l'opera intrapresa con i trattati istitutivi delle Comunità europee e di trasformare l'insieme delle relazioni tra loro in un'unione europea.

4 Secondo le disposizioni contenute nel Trattato di Roma, il diritto alla libera circolazione era subordinato allo svolgimento di un'attività lavorativa e al possesso di una cittadinanza comunitaria; la persona libera di circolare era considerata come fattore economico-produttivo.

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cooperazione giudiziaria e di polizia all'interno dello spazio senza frontiere. Con l'Atto Unico non si dette vita a una politica europea dell'immigrazione: molti Stati membri, riluttanti all'idea di configurare in capo alla Comunità una vera e propria competenza in materia, e data l'assenza di indicazioni specifiche nel Trattato, preferirono impegnarsi a risolvere i problemi derivanti dall'eliminazione delle frontiere interne al di fuori della cornice istituzionale comunitaria, sul piano intergovernativo e in modo informale. Questo significava sostanzialmente una minore intensità di controllo sull'operato dei governi sia da parte degli organi rappresentativi, che, a livello nazionale, si limitavano a ratificare il risultato della cooperazione senza possibilità di informazione, valutazione e pareri preventivi, sia da parte degli organi giudiziari, che non avevano i poteri riconosciuti alla Corte di giustizia e al Tribunale di primo grado delle Comunità europee nell'ambito della procedura comunitaria, ma solo la possibilità di operare un controllo sporadico e comunque a posteriori.

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1.2 La cooperazione intergovernativa in ambito Schengen

Proprio nell'ambito della auspicata cooperazione intergovernativa, il 14 giugno 1985 il Belgio, la Francia, la Germania, il Lussemburgo e i Paesi Bassi firmarono l'Accordo di Schengen, con cui le parti si impegnavano a “eliminare i controlli alle frontiere comuni, trasferendoli alle proprie frontiere esterne”, possibilmente entro gennaio 1990. Nella costruzione dell'Accordo emerse chiaramente la consapevolezza dei Paesi firmatari del ruolo di filtro rivestito dalle frontiere rispetto a traffico di droga, immigrazione illegale, criminalità e terrorismo; l'importanza di tale aspetto portò gli Stati a individuare vari fronti su cui operare. In particolare le parti si impegnarono in primo luogo a ravvicinare nei tempi più brevi le proprie politiche nazionali in materia di visti al fine di evitare le conseguenze negative che potevano risultare da un alleggerimento dei controlli alle frontiere comuni in materia di immigrazione e sicurezza; in secondo luogo l'impegno fu teso a intensificare la cooperazione tra le proprie autorità doganali e di polizia nella lotta alla criminalità, specialmente contro il traffico illecito di stupefacenti e di armi, l'ingresso e il soggiorno irregolare di persone, la frode fiscale e doganale e il contrabbando, attraverso un migliore e più intenso scambio di informazioni.

Fatta eccezione per alcune misure di carattere amministrativo contenute nel Titolo I, l'Accordo di Schengen non conteneva disposizioni di natura prescrittiva, e quindi non ebbe un'incidenza diretta sugli ordinamenti dei singoli Stati aderenti.

Nel 1990, termine inizialmente previsto per giungere alla soppressione delle frontiere interne, a seguito dell'inatteso evento della caduta del muro di Berlino, ma anche per le difficoltà riscontrate nell'individuazione e adozione delle misure di armonizzazione, si giunse alla firma della Convenzione di applicazione dell'Accordo, che integrava e specificava quelle stesse misure solo cinque anni prima individuate in modo generico dall'Accordo. La Convenzione si pose l'obiettivo, già perseguito dalla precedente intesa, di “giungere alla soppressione dei controlli sulla circolazione delle persone alle frontiere comuni e di agevolare il trasporto e la circolazione delle merci attraverso dette frontiere”, in conformità a quanto stabilito dal Trattato istitutivo delle Comunità europee completato dall'Atto Unico europeo, sul mercato comune come spazio interno senza frontiere. All'interno del documento furono differenziate quattro aree di intervento: soppressione dei controlli alle frontiere interne e circolazione delle persone; cooperazione tra polizie e cooperazione giudiziaria in materia penale e di estradizione; creazione di un sistema di scambio di informazioni e protezione dei dati personali; trasporto e circolazione di

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merci.

Rispetto al tema delle frontiere interne, minimo è lo spazio dedicato dalla Convenzione all'attività di trasporto di merci5. Per quanto

riguarda il passaggio delle persone, la norma di riferimento è l'art. 2: al suo interno si stabilì il principio del libero attraversamento delle frontiere, che può avvenire in qualsiasi luogo e tempo, senza necessità di controlli. Questi ultimi possono in effetti essere reintrodotti dagli Stati, ma solo in presenza di esigenze di ordine pubblico o di sicurezza nazionale, purché si dimostrino adeguati alla situazione e limitati nel tempo; inoltre, la loro introduzione deve essere preceduta da una consultazione delle altre Parti contraenti.

I controlli alle frontiere esterne trovano nel testo una più ampia disciplina6: dall'art. 3, dove si stabilì, in via di principio, che

l'attraversamento può essere effettuato “soltanto ai valichi di frontiera e durante le ore di apertura stabilite”, fino all'art. 38, furono elencate una serie di misure che hanno portato a una politica comune in materia di circolazione delle persone funzionale alle esigenze di sicurezza. In primo luogo venne armonizzato il regime dei visti, attraverso una duplice azione: la creazione di una lista comune di Paesi terzi assoggettati al regime del visto d'ingresso, modificabile soltanto con il comune accordo di tutte le Parti contraenti, e l'istituzione di un visto uniforme valido per il territorio dell'insieme degli Stati membri, rilasciato per un soggiorno massimo di tre mesi in presenza di determinate condizioni7. I Paesi dell'area Schengen conservarono la

loro sovranità per il rilascio dei visti di lunga durata, i quali restarono quindi disciplinati dalle norme degli ordinamenti nazionali garantendo l'accesso al territorio del solo Stato che li rilasciava8.

5 La Convenzione regola il passaggio delle merci dall'art. 120 al 125; le disposizioni ivi contenute mirano a ridurre il numero e l'intensità dei controlli al livello minimo possibile, in un'ottica di facilitazione della circolazione interna dei prodotti, e a predisporre misure comuni volte a garantirne la sicurezza, in particolare in tema di trasporto di merci pericolose, mediante l'armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia di controlli e il rafforzamento della cooperazione tra Stati.

6 Capitolo 2: Passaggio delle frontiere esterne; Capitolo 3: Visti; Capitolo 4: Condizioni di circolazione degli stranieri; Capitolo 5: Titoli di soggiorno e segnalazioni ai fini della non ammissione; Capitolo 6: Misure di accompagnamento; Capitolo 7: Responsabilità per l'esame delle domande di asilo.

7 L'articolo 15 rinvia ai requisiti stabiliti dall'articolo 5, par. 1, lett. a), c), d) ed e). Tra le condizioni di natura positiva figurano il possesso di un documento valido per l'espatrio e di documenti che giustificano lo scopo e le condizioni del soggiorno, nonché la disponibilità di mezzi economici sufficienti sia per la durata del soggiorno che per il ritorno nel Paese di provenienza. Vi sono poi alcune condizioni di natura negativa, e cioè non essere stato segnalato ai fini della non ammissione, né essere considerato pericoloso per l'ordine pubblico, la sicurezza nazionale o le relazioni internazionali di una delle Parti contraenti

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Dall'art. 19 all'art. 24 furono individuati sia i requisiti per la circolazione degli stranieri all'interno dell'area Schengen, differenziati a seconda del titolo di soggiorno posseduto, ma uguali per tutti nel richiedere il rispetto delle condizioni previste per l'ingresso all'art. 5, sia gli obblighi cui venivano sottoposti, in particolare il dovere di “dichiarare la loro presenza, alle condizioni fissate da ciascuna Parte contraente, alle autorità competenti della Parte contraente nel cui territorio entrano”. L'art. 23 inoltre, individuava le conseguenze di un eventuale venir meno dei requisiti di soggiorno, nell'obbligo per lo straniero di “lasciare senza indugio i territori delle Parti contraenti” e, qualora non avesse adempiuto, ovvero se motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico ne avessero imposto l'immediata partenza, nell'allontanamento dello stesso dal territorio dello Stato membro alle condizioni previste dal diritto nazionale, nel rispetto del diritto di asilo e della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo status dei rifugiati, quale emendata dal Protocollo di New York del 31 gennaio 1967.

Al Capitolo 6 le Parti contraenti inserirono una serie di misure con funzione di contrasto all'immigrazione clandestina. Attraverso la responsabilizzazione della figura del vettore, gli Stati cercarono di porre le condizioni per bloccare i migranti privi dei requisiti di ingresso lontano dai propri confini9. Nel caso in cui a uno straniero

fosse stato rifiutato l'ingresso nel territorio di una Parte contraente, il vettore che lo aveva condotto alla frontiera esterna era tenuto a prenderlo immediatamente a proprio carico e, in base alle richieste delle autorità, a ricondurlo nel Paese terzo dal quale era stato trasportato, che aveva rilasciato il documento di viaggio in suo possesso o in qualsiasi altro Paese terzo in cui potesse essere garantita la sua ammissione10. I Paesi aderenti agli accordi di Schengen

delegarono il compito di impedire l'ingresso di stranieri irregolari sul loro territorio non solo a soggetti privati come i vettori, ma anche attraverso la sottoscrizione di accordi di riammissione con i Paesi terzi, specialmente se limitrofi. Sulla base di tali intese gli Stati terzi

delle altre Parti contraenti per recarsi nel territorio della Parte contraente che ha rilasciato il visto, salvo se egli non soddisfi le condizioni di ingresso di cui all'articolo 5, par. 1, lett. a), d) ed e), ovvero figuri nell'elenco nazionale delle persone segnalate dalla Parte contraente sul cui territorio desidera transitare”. 9 Ai sensi dell'art. 26, comma 1, lett. b, infatti “il vettore è tenuto ad adottare ogni

misura necessaria per accertarsi che lo straniero trasportato per via aerea o marittima sia in possesso dei documenti di viaggio richiesti per l'ingresso nei territori delle Parti contraenti”.

10 Inoltre si sancì l'impegno da parte degli Stati a istituire sanzioni non solo nei confronti dei vettori che avessero trasportato da un Paese terzo verso il loro territorio stranieri non in regola con i documenti di viaggio, ma anche nei confronti di chiunque avesse aiutato o tentato di aiutare, a scopo di lucro, uno straniero a entrare o a soggiornare nel territorio di una Parte contraente in violazione della legislazione relativa all'ingresso e al soggiorno di quel Paese.

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confinanti cominciarono a rivestire il ruolo di “Stati cuscinetto”, impegnandosi a riammettere sul proprio territorio immigrati che fossero stati trovati in situazione irregolare all'interno dell'area Schengen; sia nel caso di propri cittadini sia nel caso di immigrati da Paesi terzi11. Nonostante formalmente si fosse riconosciuto il valore

delle norme del diritto internazionale a tutela dei rifugiati, l'interesse principale che le Parti contraenti volevano difendere attraverso la Convenzione era indubbiamente la sicurezza collettiva, obiettivo che avrebbe potuto di fatto giustificare il sacrificio delle libertà individuali12.

All'interno della Convenzione le parti contraenti introdussero una disciplina comune di regolamentazione della responsabilità per il trattamento delle richieste d'asilo attraverso la fissazione dei criteri di cui all'art. 30. Tali criteri furono stabiliti in modo da individuare uno Stato responsabile per ogni domanda d'asilo, il quale avrebbe esaminato la richiesta in base al proprio diritto nazionale e avrebbe deciso se ammetterla o meno con effetti automatici anche per le altre parti: nel primo caso il rifugiato avrebbe potuto circolare liberamente in tutta l'area comune, nel secondo caso invece, il richiedente perdeva la possibilità di presentare una nuova domanda in un altro Stato13.

Ampio spazio fu dedicato alle disposizioni in materia di polizia e sicurezza: per assicurare il rafforzamento della prevenzione e persecuzione dei reati si stabilì una politica di cooperazione, in primo luogo tra le forze di polizia dei vari Paesi, prevedendo gli istituti dell'inseguimento e dell'osservazione transfrontalieri; secondariamente tra i sistemi giudiziari, attraverso gli strumenti dell'assistenza giudiziaria, dell'estradizione e dell'esecuzione delle sentenze penali14. 11 Questa responsabilità fece sì che gli Stati parte degli accordi di riammissione, pur

non soggiacendo agli obblighi imposti dall'adesione a Schengen, attuassero una politica di controllo rinforzato ai propri confini esterni, con standard simili a quelli previsti per i Paesi dell'area di libera circolazione, per non dover sopportare i costi economici e sociali di un gran numero di rientri.

12 Da un lato si rendeva perseguibile la compagnia che avesse accettato di trasportare passeggeri privi dei documenti richiesti per l'ingresso in uno Stato Schengen; dall'altro si rendeva più difficile raggiungere le frontiere esterne dell'area di libera circolazione o, laddove fossero state raggiunte, si procedeva a respingimenti rapidi e informali da parte di Paesi non in grado di fornire le necessarie garanzie di rispetto dei diritti umani. Il rischio era che molti migranti in fuga dal loro Paese per timore di essere perseguitati, sforniti dei documenti indispensabili al viaggio, non avrebbero potuto rivolgersi, né avrebbero potuto raggiungere gli Stati dello spazio Schengen per chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato.

13 Gli Stati si preoccuparono inoltre di prevedere, agli artt. 37 e 38, una serie di obblighi informativi sui dati relativi alle domande d'asilo per garantire il funzionamento del sistema.

14 In particolare venne disposta l'istituzione di “un gruppo di lavoro permanente incaricato di esaminare problemi comuni inerenti alla repressione della criminalità in materia di stupefacenti e di elaborare, se necessario, proposte volte

(26)

Il Titolo IV della Convenzione fu dedicato all'istituzione del Sistema d'Informazione Schengen, (SIS), una complessa struttura costituita da un'unità centrale con sede a Strasburgo, funzionale al supporto tecnico, e tante sezioni nazionali per ciascun Paese membro, in grado di consentire “alle autorità designate dalle Parti contraenti, per mezzo di una procedura d'interrogazione automatizzata, di disporre di segnalazioni di persone e di oggetti, in occasione di controlli alle frontiere, di verifiche e di altri controlli di polizia e doganali effettuati all'interno del Paese conformemente al diritto nazionale15”. Le

segnalazioni potevano essere inserite nelle banche dati del SIS per rispondere a diverse finalità: persone ricercate nell'ambito di procedimenti giudiziari, coinvolte nella criminalità organizzata o nel traffico di armi o stupefacenti, stranieri segnalati a scopo di non ammissione. Di particolare interesse è proprio la procedura di segnalazione ai fini della non ammissione: ai sensi dell'art. 96, la decisione può fondarsi sulla circostanza che la presenza di uno straniero nel territorio nazionale costituisce una minaccia per l'ordine e la sicurezza pubblica o per la sicurezza nazionale. Più precisamente, l'articolo fa riferimento ai casi di uno straniero condannato per un reato passibile di una pena privativa della libertà di almeno un anno; nei cui confronti vi siano seri motivi di ritenere che abbia commesso fatti punibili gravi; nei cui confronti esistano indizi reali che intenda commettere fatti gravi nel territorio di un Paese contraente; o di uno straniero che sia stato oggetto di una misura di allontanamento, di respingimento o di espulsione non revocata né sospesa che comporti o sia accompagnata da un divieto d'ingresso o eventualmente di soggiorno, fondata sulla non osservanza delle regolamentazioni nazionali in materia di ingresso e di soggiorno degli stranieri16.

Queste innumerevoli disposizioni impegnarono i governi nazionali dei cinque Stati fondatori in un'opera di profonda innovazione degli ordinamenti interni che posticipò l'entrata in vigore della Convenzione di applicazione al marzo del 1995, data in cui finalmente prese forma una politica unica di monitoraggio alle frontiere. Nel frattempo, altri

a migliorare, se del caso, gli aspetti pratici e tecnici della cooperazione tra le Parti contraenti”.

15 Comma 1 dell'art. 92, Capitolo I, Titolo IV della Convenzione.

16 Un nuovo e più aggiornato “Sistema d'informazione Schengen”, c.d. SIS II, fu adottato a seguito dell'estensione dell'Accordo a tutti i membri dell'Unione europea. Inoltre furono introdotti, su proposta della Commissione, alcuni strumenti funzionali al rafforzamento del controllo alle frontiere esterne e alla circolazione di membri dei Paesi terzi all’interno del territorio europeo. Tra questi un sistema comune di entrata e uscita dall’area Schengen; un sistema di sorveglianza costante dei confini marittimi e terrestri (EUROSUR); l’Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne (FRONTEX); sistemi elettronici per il riconoscimento delle tracce biometriche; introduzione di visti elettronici.

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Paesi17 aderirono al Sistema firmando gli Atti di adesione ai Trattati

istitutivi18 e si adoperarono per realizzare le condizioni necessarie al

loro ingresso effettivo nello spazio Schengen. Gli unici Stati comunitari che ne rimasero fuori furono l'Irlanda e la Gran Bretagna, per le evidenti difficoltà che l'applicazione degli Accordi avrebbe causato considerato che in entrambi le frontiere interne coincidono con quelle esterne.

17 I Paesi che hanno aderito al Sistema Schengen sono l'Italia (1990), la Spagna e il Portogallo (1991), la Grecia (1992), l'Austria (1995), la Danimarca, la Finlandia e la Svezia (1996). La Norvegia e l'Islanda firmarono con i Paesi Schengen accordi di cooperazione nel dicembre del 1996 diventando “Stati associati”; allo stesso modo fece la Svizzera nell'ottobre del 2004. Tra il 2008 e il 2009 furono aboliti i controlli alle frontiere con Repubblica ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Malta, Polonia, Slovenia e Slovacchia; nel 2011 con il Liechtenstein. Attualmente lo spazio Schengen comprende 22 dei 28 Paesi membri dell'Unione Europea: Bulgaria, Croazia, Cipro e Romania hanno sottoscritto la Convenzione, ma non hanno ancora posto in essere tutti gli accorgimenti tecnici necessari per la sua entrata in vigore.

18 Gli Atti di adesione, insieme con l'Accordo del 1985 e la Convenzione di applicazione, formano l'”acquis di Schengen”, che è stato integrato nel quadro dell'Unione Europea ed è diventato legislazione dell'UE nel 1999 con il Trattato di Amsterdam.

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