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Con il termine “espulsione” si fa in primo luogo riferimento al provvedimento emanato da un'autorità statale al fine di ordinare l'allontanamento di un cittadino di un Paese terzo dal territorio dello Stato e di impedirgli per un certo tempo la possibilità di ritornarvi. La legge italiana attribuisce a una pluralità di soggetti il potere di emanare un provvedimento di espulsione e individua diversi presupposti che ne legittimano l'adozione. Con riguardo ai soggetti titolari del potere espulsivo si distinguono l'espulsione amministrativa, che può a sua volta essere prefettizia, quando disposta dal Prefetto, o ministeriale, quando adottata dal Ministro dell'interno, dall'espulsione giudiziaria, che è sempre disposta da un giudice. Con riferimento al contenuto, l'espulsione può assumere le vesti di sanzione amministrativa, come nel caso disciplinato dall'art. 13, comma 2, lett. a) e b) del testo unico sull'immigrazione, di sanzione amministrativa sostitutiva di misura di prevenzione, (lett. c) dello stesso art. 13, comma 2), di misura di sicurezza, (art. 15 t.u. imm., art. 86 del D.P.R. 309/1990, artt. 235 e 312 del codice penale), di sanzione sostitutiva e alternativa alla detenzione, (art. 16 t.u. imm.), e, con qualche contrasto in dottrina e in giurisprudenza, di pena accessoria, (art. 26, comma 7

bis, t.u. imm.)1.

Il termine “espulsione” indica in secondo luogo la complessa attività che segue all'adozione di un provvedimento espulsivo e che è finalizzata a darne esecuzione. È in questo contesto che si può verificare il trattenimento dello straniero all'interno dei Centri di identificazione ed espulsione: quando non sia possibile eseguire con immediatezza l'espulsione mediante accompagnamento alla frontiera o il respingimento, ai sensi del primo comma dell'art. 14 t.u. imm.; in attesa della definizione del procedimento di convalida del provvedimento questorile di accompagnamento alla frontiera, art. 13, comma 5 bis; in attesa della decisione sulla richiesta di nulla osta nel caso in cui lo straniero espulso sia sottoposto a procedimento penale e non si trovi in stato di custodia cautelare in carcere, art. 13, comma 3; e

infine, quando il Questore ripristini il trattenimento a seguito della violazione della misura da parte dello straniero, art. 14, comma 7. Una disciplina effettiva dell'espulsione è necessaria per garantire il controllo efficace dell'ingresso e del soggiorno sul territorio nazionale, in quanto consente di allontanare quei soggetti che non possiedono i requisiti stabiliti dalla normativa in quanto clandestini, oppure che non possiedono più i requisiti in quanto decaduti dal diritto di soggiornare ulteriormente sul territorio dello Stato.

La legittimazione dello Stato a regolamentare in assoluta libertà le condizioni di ingresso e soggiorno dei cittadini stranieri nel suo territorio è indubbia; la sovranità territoriale implica infatti il diritto esclusivo di ciascuno Stato di proteggere le proprie frontiere da flussi incontrollati di migranti. Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo è solita affermare che il potere di controllare l’ingresso e il soggiorno degli stranieri è attribuito agli Stati in virtù di “un principio di diritto internazionale ben consolidato2”. Gli Stati sono assai gelosi della

propria sovranità in materia di immigrazione e difficilmente sono disposti a limitare, anche parzialmente, il proprio potere di controllo sulle frontiere nazionali3. Gli unici limiti alla disciplina nazionale

dell'ingresso, soggiorno e allontanamento degli stranieri derivano da alcune norme in tema di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo, elaborate in seno alle Nazioni Unite e alle organizzazioni regionali, alle quali si aggiungono le norme di cooperazione giudiziaria e frontaliera nella lotta al traffico di migranti4.

Per quanto riguarda i limiti stabiliti dalle Nazioni Unite, la disciplina di riferimento è quella contenuta nel Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato dall'Assemblea Generale il 16 dicembre 1966 ed entrato in vigore il 23 marzo 1976, il quale, unitamente al Patto sui diritti economici, sociali e culturali, riconosce diritti che devono essere garantiti a tutti gli individui che si trovano sul territorio degli Stati contraenti, “senza distinzione alcuna, sia essa fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione, l'opinione politica o qualsiasi

2 Corte EDU nel caso Saadi del 28 febbraio 2008, n. 37201/06, par. 124. Nella giurisprudenza meno recente, si veda Abdulaziz, Cabales e Balkandali c. Regno Unito, sentenza del 28 maggio 1985, serie A no 94, par. 67, e Boujlifa c. Francia, sentenza del 21 ottobre 1997, Recueil 1997-VI, par. 42.

3 Campiglio. Disciplina delle migrazioni: limiti internazionali, cit. Di questo atteggiamento abbiamo avuto una conferma nella trattazione relativa allo sviluppo della politica migratoria europea.

4 Non si è mai giunti alla stipulazione di un trattato generale sulle migrazioni valido su scala mondiale, che stabilisse un diritto dell'individuo all'ingresso e al soggiorno in uno Stato diverso da quello di cui fosse cittadino. L'intangibilità della sovranità statale trova un riconoscimento ufficiale all'art. 2 par. 7 della Carta ONU, il quale riprende il limite fissato dall'art. 15, comma 7 del patto della Società delle Nazioni, in base al quale in relazione alle materie rientranti nella c.d. “competenza domestica” di uno Stato, il Consiglio della Società delle Nazioni non può esercitare alcun potere.

altra opinione, l'origine nazionale o sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione”, e quindi agli immigrati, anche se irregolari. L'art. 12 del Patto, riprendendo la norma sancita all'art. 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, riconosce a ciascun individuo che si trovi legalmente nel territorio di uno Stato il “diritto alla libertà di movimento e alla libertà di scelta della residenza in quel territorio”, nonché il diritto “di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio”, nel quale l'individuo ha, in principio, il diritto di tornare. Tali diritti possono ovviamente essere sottoposti alle restrizioni previste dalla legge che siano necessarie per proteggere la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, la sanità o la moralità pubbliche, ovvero gli altrui diritti e libertà, purché siano compatibili con gli altri diritti riconosciuti dal Patto. L'interesse dello Stato prevale dunque sul diritto di libertà dell'individuo, ma nel prevedere una regolamentazione del fenomeno migratorio, lo Stato dovrà rispettare alcuni parametri di equità e di non discriminazione che, peraltro, non essendo definiti a livello internazionale, sono lasciati alla sua discrezionalità, ferma restando la necessità di garantire il principio di non-refoulement stabilito dalla Convenzione di Ginevra. Il Patto sui diritti civili e politici si occupa anche dell'espulsione dello straniero che si trovi legalmente nel territorio di uno Stato, prevedendo all'art. 13 che questa possa avvenire solo “in base a una decisione presa in conformità della legge” e nel rispetto di determinate garanzie a favore della persona espulsa5. Con formulazioni analoghe, la stessa fattispecie espulsiva è

regolamentata in disposizioni di altri documenti internazionali, tra le quali l'art. 32, n.1 della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati e l'art. 31, n. 1 della Convenzione di New York relativa allo

status degli apolidi, adottata il 28 settembre 1954 ed entrata in vigore il

6 giugno 1960. Infine, l'art. 17 del Patto garantisce a tutti il diritto al rispetto della vita privata e familiare, e così fanno l'art. 12 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e gli artt. 7 ss. della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, in questo modo tutelando il correlato diritto al ricongiungimento familiare degli stranieri.

A livello regionale, grazie alla sua ampia portata, è la Convenzione europea dei diritti dell'uomo a dettare le limitazioni più significative in tema di diritti fondamentali6. Abbiamo già richiamato l'art. 5 dedicato

alla tutela della libertà personale, il quale al suo paragrafo 1, lett. b) ne legittima la restrizione “se si tratta dell'arresto o della detenzione legale

5 In particolare, l'art. 13 richiede che “salvo che vi si oppongano imperiosi motivi di sicurezza nazionale”, lo straniero espulso “deve avere la possibilità di far valere le proprie ragioni contro la sua espulsione, di sottoporre il proprio caso all’esame dell’autorità competente, o di una o più persone specificamente designate da detta autorità, e di farsi rappresentare innanzi ad esse a tal fine”. 6 Alla Convenzione aderiscono infatti i 47 Paesi membri del Consiglio d'Europa.

di una persona per impedire di penetrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione”. Anche la CEDU, al suo art. 8, riconosce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, prevedendo espressamente la possibilità di derogarvi in base a disposizioni di legge e in presenza di interessi collettivi quali la sicurezza nazionale, la pubblica sicurezza, il benessere economico del Paese, la difesa dell'ordine e la prevenzione dei reati, la protezione della salute e della morale, e la protezione dei diritti e delle libertà altrui. Nei casi in cui emerga un interesse collettivo, nel rispetto del principio di proporzionalità, lo si potrà ritenere prevalente rispetto al diritto dell'individuo al ricongiungimento familiare e lo Stato sarà quindi legittimato a disporre l'espulsione o l'allontanamento dello straniero presente sul proprio territorio o a respingere lo straniero desideroso di entrarvi.

Il 16 settembre 1963 fu adottato il Protocollo addizionale n. 4 alla CEDU, entrato in vigore il 2 maggio 1968, che, all'art. 2, riconosce a favore di chiunque, cittadino o straniero, si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato, “il diritto di circolarvi liberamente e di scegliervi liberamente la sua residenza”. All'art. 3, il documento vieta l'espulsione e il respingimento da parte dello Stato di propri cittadini, mentre al successivo art. 4 sancisce il divieto di espulsione collettiva degli stranieri, al fine di evitare il rischio che non si consideri adeguatamente la situazione personale di ciascuno.

In data 22 novembre 1984 venne poi firmato a Strasburgo il Protocollo addizionale n. 7, in cui sono fissate le garanzie processuali per l'espulsione degli stranieri sulla base di quanto previsto dal citato art. 13 del Patto internazionale del 1966. In particolare, l'art. 1 prevede che lo straniero regolarmente residente nel territorio di uno Stato non possa essere espulso, “se non in esecuzione di una decisione presa in conformità della legge”, e richiede che allo straniero sia garantita la possibilità di far valere le ragioni che si oppongono alla sua espulsione, far esaminare il suo caso e farsi rappresentare a tali fini davanti all'autorità competente o ad una o più persone designate da tale autorità. Nel caso di espulsione immediata per necessità di ordine pubblico o sicurezza nazionale, le garanzie convenzionali operano ex

post, e potranno eventualmente sfociare nella riammissione nello

Stato7.

Dal quadro dei limiti posti dal diritto europeo emerge come gli Stati godano di un'ampia discrezionalità in merito all'espulsione e al respingimento alla frontiera degli stranieri. Peraltro, i diritti fondamentali di cui si esige il rispetto non si esauriscono in quelli richiamati dalle norme che espressamente vincolano gli Stati nell'adozione di provvedimenti espulsivi o di respingimento: la tutela riconosciuta al diritto alla vita dall'art. 2, e al diritto a non essere

sottoposti a torture, pene o trattamenti inumani e degradanti dall'art. 3, impone il divieto di espulsione o respingimento verso Paesi in cui vi sia il rischio che lo straniero perda la vita o sia sottoposto a trattamenti inumani e degradanti8.

Per quanto riguarda specificamente il caso italiano, la Corte Costituzionale ha più volte riconosciuto il potere di disciplinare i flussi migratori come manifestazione essenziale della sovranità dello Stato, già a partire dalla richiamata sentenza n. 353 del 1997, in cui espressamente sottolineava che “Lo Stato non può […] abdicare al compito, ineludibile, di presidiare le proprie frontiere”. Ancora prima, con la sentenza n. 62 del 10 febbraio 1994, la Corte affermava che “la regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale è collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione e tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia un’ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli”. Tali affermazioni, confermate dalla Corte nella sentenza 250/20109, hanno consentito al legislatore italiano

di elaborare una disciplina dell'immigrazione in piena discrezionalità,

8 Dalla storica sentenza n. 14038/88 della Corte EDU del 7 luglio 1989 nel caso Soering c. Regno Unito, in cui affermava che nel caso concreto l'estradizione di un cittadino tedesco negli Stati Uniti avrebbe integrato violazione dell'art. 3 per il fondato timore che l'individuo sarebbe stato sottoposto a trattamenti inumani e degradanti, la Corte non si è mai allontanata da questa posizione, anche in materia di espulsione. Tra le altre è possibile richiamare la sentenza Chahal v. Regno Unito del 07.07.1996, n. 22414/93, in cui i giudici hanno affermato il principio secondo cui nessuna circostanza, comprese la minaccia di terrorismo o le preoccupazioni per la sicurezza nazionale, può giustificare l'esposizione di un individuo al rischio concreto di violazioni di diritti umani tali da integrare i trattamenti inumani e degradanti di cui all'art. 3 CEDU. In particolare, al paragrafo 79, la Corte si dice consapevole “of the immense difficulties faced by States in modern times in protecting their communities from terrorist violence. However, even in these circumstances, the Convention prohibits in absolute terms torture or inhuman or degrading treatment or punishment, irrespective of the victim's conduct. Unlike most of the substantive clauses of the Convention and of Protocols Nos. 1 and 4 (P1, P4), Article 3 (art. 3) makes no provision for exceptions and no derogation from it is permissible under Article 15 (art. 15) even in the event of a public emergency threatening the life of the nation”. 9 L’ordinata gestione dei flussi migratori si presenta, a detta della Corte, “come un

bene giuridico 'strumentale', attraverso la cui salvaguardia il legislatore attua una protezione in forma avanzata del complesso di beni pubblici 'finali', di sicuro rilievo costituzionale, suscettibili di essere compromessi da fenomeni di immigrazione incontrollata. […] È incontestabile, in effetti, che il potere di disciplinare l’immigrazione rappresenti un profilo essenziale della sovranità dello Stato, in quanto espressione del controllo del territorio”.

concentrando la sua attenzione in modo particolare sulle esigenze del mercato del lavoro interno e sulla capacità di accoglienza del Paese. Come abbiamo visto però, in presenza di determinati diritti fondamentali, e a motivo del loro valore inderogabile, gli interessi pubblici posti alla base della normativa sull'ingresso e il soggiorno degli stranieri soccombono. Il testo unico sull'immigrazione prevede al suo art. 19 dei veri e propri divieti espulsivi, assoluti e relativi, dando così traduzione ai principi del diritto internazionale.

Il primo comma dell'articolo riporta il principio di non-refoulement contenuto all'art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, prevedendo che “In nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”. Peraltro, rispetto alla formulazione contenuta nel testo convenzionale, che fa riferimento a discriminazioni basate su razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale e opinioni politiche, il principio italiano copre un'area più ampia, spingendosi a considerare come cause persecutorie le condizioni personali, il sesso e la lingua. Il divieto espresso all'art. 19, comma 1, presenta carattere assoluto, dovendosi applicare a tutte le tipologie di espulsione, anche a quella ministeriale. Ciò significa che la tutela dell'individuo che si trovi esposto al rischio di discriminazioni in caso di espulsione dal territorio italiano, non ammette deroghe nemmeno in presenza di interessi tanto rilevanti quali quelli della sicurezza dello Stato e dell'ordine pubblico. Inoltre, in base a una lettura conforme alle Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e in particolare al suo art. 3, il principio sancito all'art. 19 è stato interpretato nel senso di vietare, da un lato modalità espulsive tali da costituire tortura o trattamento inumano e degradante, dall'altro di espellere uno straniero verso un Paese in cui potrebbe subire i trattamenti contemplati dalla norma, divieto che non viene meno neanche nei casi di espulsione disposta per motivi di prevenzione del terrorismo, misura disciplinata dall'art. 3 della legge 155 del 200510.

A differenza del primo, il secondo divieto di espulsione, sancito all'art. 19, comma 2, non è assoluto, in quanto non si applica alle ipotesi di espulsione ministeriale per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato. In questo caso non si consente l'espulsione nei confronti degli stranieri minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l'affidatario espulsi; degli stranieri in possesso della carta di

10 Come emerge nella sentenza Saadi, cit., par. 138, “non si può mettere sul piatto della bilancia il rischio di maltrattamenti e i motivi invocati per l’espulsione, ciò per determinare se esista la responsabilità di uno Stato sotto il profilo dell’articolo 3, anche nel caso in cui i maltrattamenti fossero perpetrati da uno Stato terzo”.

soggiorno, oggi “permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo”; degli stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge di nazionalità italiana; delle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono e, grazie all'intervento della Corte Costituzionale con sentenza n. 376 del 12-27 luglio 2000, del marito convivente della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio. In tutte le fattispecie elencate all'art. 19, comma 2, ad eccezione di quella prevista dalla lett. b)11, vengono in rilievo quindi interessi

individuali particolari, quali il diritto all'unità familiare e il diritto alla tutela dell'interesse superiore del fanciullo, cui viene riconosciuto un valore inviolabile rispetto alle esigenze pubblicistiche legate all'espulsione, a eccezione di quelle che si fondano sui motivi di cui all'art. 13 comma 1, le quali risultano prevalenti all'esito del bilanciamento di interessi12.

11 La lettera b) dell'art. 19, comma2, pone un divieto di espulsione in favore degli stranieri in possesso di permesso di soggiorno UE per lungo soggiornanti “salvo il disposto dell'art. 9”. In quanto quest'ultimo articolo contempla le uniche ipotesi in cui è consentita l'espulsione del titolare di permesso UE, deve ritenersi che l'art. 19, comma 2, lett. b) abbia introdotto una inutile tautologia, vietando l'espulsione dei titolari di permesso UE salvo i casi in cui è consentita dallo stesso testo unico all'art. 9. Centonze. L'espulsione dello straniero, cit.

12 Sull'art. 19, comma 2, era stata sollevata una questione di legittimità costituzionale dal Tribunale di Genova, con ordinanza del 4 marzo 2000. La questione riguardava la disposizione del testo unico nella parte in cui non prevede il divieto di espulsione dello straniero extracomunitario che, entrato irregolarmente nel territorio dello Stato, vi permanga al solo scopo di portare a termine un trattamento terapeutico essenziale per la cura di una patologia contratta prima dell’ingresso. Con una pronuncia interpretativa di rigetto, la sentenza n. 252 del 17 luglio 2001, la Corte contestava la lettura che della disposizione aveva dato il giudice a quo, non occorrendo uno specifico divieto di espulsione. In un caso del genere infatti, lo straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato ha diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili e urgenti, poiché fa valere un diritto fondamentale della persona, il “nucleo irriducibile” del diritto alla salute garantito dall’art. 32 della Costituzione. Se viene invocato questo diritto, la decisione di espellere deve essere preceduta dalla valutazione dello stato di salute del soggetto e della indifferibilità e urgenza delle cure affidata al prudente apprezzamento medico. Il nucleo irriducibile del diritto fondamentale rende irrilevante la stessa distinzione tra immigrato regolare e immigrato irregolare.