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La Direttiva rimpatri venne adottata nell'ambito del progetto europeo proiettato verso l'elaborazione di una politica comune in materia di immigrazione e si occupò specificamente del tema dei rimpatri, cercando di “introdurre un corpus orizzontale di norme applicabile a tutti i cittadini di Paesi terzi che non soddisfano o non soddisfano più le condizioni d'ingresso, di soggiorno o di residenza in uno Stato membro17”. In particolare, come emerge dal Considerando n. 20,

l'obiettivo della direttiva era quello di “stabilire norme comuni in materia di rimpatrio, allontanamento, uso di misure coercitive, trattenimento e divieti d'ingresso”, obiettivo non realizzabile in misura sufficiente dagli Stati membri, a causa della sua portata e dei suoi effetti, e che quindi avrebbe dovuto essere attuato grazie all'intervento della Comunità europea, sulla base dei principi di sussidiarietà e proporzionalità sanciti all'art. 5 del TUE18. L'oggetto della direttiva

veniva esposto all'art. 1 della stessa, laddove si prevedeva la fissazione di norme e procedure comuni da applicarsi negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno fosse irregolare, nel rispetto dei diritti fondamentali in quanto principi generali del diritto comunitario e del diritto internazionale, con particolare attenzione agli obblighi in materia di protezione dei rifugiati e di diritti dell'uomo. Per quanto riguarda l'ambito di applicazione della direttiva, questa trovava dei limiti di natura e territoriale e soggettiva.

In quanto applicabile ai cittadini di Paesi terzi che “non soddisfano o non soddisfano più le condizioni d'ingresso” ai sensi del codice frontiere Schengen19, la direttiva 115 costituiva uno sviluppo delle

disposizioni dell’acquis di Schengen e quindi non avrebbe in alcun modo vincolato Regno Unito e Irlanda, in quanto estranei all'area di libera circolazione, mentre sarebbe stata applicabile a Islanda, Norvegia, Svizzera e Liechtenstein, i quali, pur non facendo parte

17 Considerando n. 5 della Direttiva 2008/115/CE.

18 In virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l'Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell'azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione. In virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell'azione dell'Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati.

19 Regolamento UE 2016/399 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 che istituisce un codice unionale relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone, c.d. “codice frontiere Schengen”. Il regolamento suddetto ha sostituito il precedente Regolamento CE 562/2006.

dell'Unione europea, erano associati all'accordo. Infine la Danimarca avrebbe potuto decidere, entro sei mesi dall'adozione della direttiva, se recepirla nel suo diritto interno, a norma dell'art. 5 del Protocollo sulla posizione della Danimarca allegato al Trattato sull'Unione europea e al Trattato che istituisce la Comunità europea, oggi TFUE.

I limiti soggettivi di applicabilità della disciplina venivano invece stabiliti all'art. 2, a tenore del quale i destinatari della stessa sarebbero stati i cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno nel territorio di uno Stato membro fosse irregolare, ossia contrario alle condizioni di ingresso stabilite all'art. 6 del codice frontiere Schengen o alle altre condizioni di ingresso e soggiorno nel territorio dello Stato membro previste dalla legislazione nazionale.

Ai sensi del par. 2 dello stesso articolo, gli Stati membri avrebbero potuto decidere di escludere dall'ambito di applicazione della direttiva due diverse categorie di cittadini di Paesi terzi. La lett. a) faceva riferimento a quanti fossero stati sottoposti a respingimento alla frontiera conformemente all'art. 13 del codice frontiere Schengen20,

ovvero che fossero stati fermati o scoperti dalle competenti autorità in occasione dell'attraversamento irregolare via terra, mare o aria della frontiera esterna di uno Stato membro e che non avessero successivamente ottenuto un'autorizzazione o un diritto di soggiorno in tale Stato. La direttiva sarebbe dunque stata applicabile sicuramente ai casi di espulsione in senso stretto, cioè ai casi in cui il provvedimento di allontanamento fosse giunto non nell'immediatezza dell'ingresso dello straniero nel territorio dello Stato membro, ma appunto in seguito al venir meno delle condizioni richieste per il soggiorno regolare in tale Stato. La disciplina europea riconosceva invece che le persone fermate in zona di transito o di frontiera erano spesso soggette a norme specifiche negli Stati membri: in virtù di una finzione giuridica, tali persone talvolta non venivano considerate come soggiornanti nel territorio dello Stato membro interessato ed erano soggette all'applicazione di norme diverse. La direttiva rimpatri, pur non seguendo questa logica e considerando qualsiasi cittadino di un Paese terzo fisicamente presente nel territorio di uno Stato membro come rientrante nel suo ambito di applicazione, aveva previsto la facoltà in capo agli Stati membri di escludere i c.d. “casi frontalieri” dal suo ambito di operatività, a motivo della loro particolare disciplina a livello nazionale21. Ovviamente una scelta in tal senso non avrebbe esonerato 20 All'art. 13 del codice frontiere Schengen citato dalla direttiva corrisponde oggi

l'art. 14 dello stesso codice, nella versione aggiornata del 2016.

21 Così si legge nel manuale sul rimpatrio, allegato alla raccomandazione della Commissione C (2015) 6250 del primo ottobre 2015 “che istituisce un manuale comune sul rimpatrio che le autorità competenti degli Stati membri devono utilizzare nell'espletamento dei compiti connessi al rimpatrio”. L'obiettivo del manuale, basato sugli strumenti giuridici dell'Unione europea in materia, e in particolare sulla direttiva 115, era quello di fornire orientamenti relativi

gli Stati membri dall'obbligo di garantire, conformemente all'articolo 4, par. 4 della direttiva rimpatri, che il livello di protezione per le persone interessate non fosse meno favorevole di quello stabilito dagli articoli della direttiva relativi alla limitazione dell'uso di misure coercitive, al rinvio dell'allontanamento, alle prestazioni sanitarie d'urgenza e considerazione delle esigenze delle persone vulnerabili, alle condizioni di trattenimento e al rispetto del principio di non refoulement.

La lett. b) dell'art. 2, par. 2, considerava invece i casi di diritto penale e di estradizione, rispetto ai quali gli Stati membri avevano la facoltà di decidere di non applicare la direttiva. La deroga in questo caso avrebbe riguardato quanti fossero stati sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale, in conformità della legislazione nazionale, o quanti fossero stati sottoposti a procedure di estradizione, e avrebbe risposto alla necessità di non interferire con provvedimenti di espulsione disposti dall’autorità giudiziaria a conclusione di procedimenti penali, per i quali l’intervento comunitario avrebbe dovuto essere adottato su una diversa base giuridica, rientrando tecnicamente nelle misure di cooperazione giudiziaria in materia penale disciplinate dal titolo VI del TUE, oggi confluite nel titolo V del TFUE22. Nella sentenza del 6 dicembre 2011, causa Achughbabian, C-329/11, la Corte di giustizia aveva provveduto a

risolvere una questione di grande rilevanza, soprattutto per gli Stati, come l'Italia, che vantavano, nel proprio ordinamento, il reato di ingresso e soggiorno irregolare. Nel caso di specie si trattava di chiarire se tale reato, che in base alla legislazione francese avrebbe potuto comportare anche una condanna a pena detentiva, potesse essere incluso nella deroga prevista alla lett. b) dell'art. 2, par. 2 della direttiva. La Corte, dopo aver precisato l'obiettivo di quest'ultima, e aver rassicurato i governi nazionali sull’integrità della loro competenza penale in materia di immigrazione irregolare, aveva ritenuto la non conformità al diritto dell’Unione europea del reato di soggiorno irregolare nella misura in cui esso fosse suscettibile di condurre a una condanna a pena detentiva nel corso della procedura comune di rimpatrio, poiché avrebbe privato la direttiva del suo scopo e del suo effetto vincolante. Al fine di fugare ogni dubbio sulla corretta interpretazione della causa di esclusione prevista alla lett. b), la Corte precisava infatti che la sua ratio era quella di consentire un’espulsione

all'esercizio delle funzioni delle autorità nazionali competenti per l'espletamento dei compiti connessi al rimpatrio. Il manuale non imponeva obblighi giuridicamente vincolanti agli Stati membri, né stabiliva nuovi diritti o doveri, limitandosi a raccogliere in forma sistematica e sintetica il lavoro svolto nel periodo 2009/2014 dagli Stati membri e dalla Commissione nell'ambito del Comitato di contatto sulla direttiva rimpatri.

22 Favilli, Chiara. La direttiva rimpatri ovvero la mancata armonizzazione dell'espulsione dei cittadini di Paesi terzi, in Osservatoriosullefonti.it, fascicolo n. 2/2009.

più rapida, o in deroga alla procedura comune, dello straniero in situazione irregolare direttamente dal giudice penale che avesse accertato la commissione di un fatto di reato diverso rispetto alla violazione della regolamentazione amministrativa in materia di ingresso e soggiorno. Poiché quest’ultima violazione costituiva anche il presupposto di fatto per l’avvio della procedura comune di rimpatrio, cui veniva riconosciuto carattere prioritario, essa non avrebbe potuto determinare allo stesso tempo l’avvio di una procedura espulsiva derogatoria23. Al punto n. 41 della sentenza si leggeva infatti che “[...]

l’art. 2, n. 2, lett. b), di quest’ultima, (direttiva rimpatri ndr), non può manifestamente essere interpretato, salvo privare la direttiva della sua

ratio e del suo effetto vincolante, nel senso che gli Stati membri

possano omettere di applicare le norme e le procedure comuni previste dalla direttiva in parola ai cittadini di Paesi terzi che abbiano commesso solo l’infrazione consistente nel soggiorno irregolare”. Pertanto, sulla base delle considerazioni svolte dalla Corte, alla lett. b) doveva darsi un'interpretazione restrittiva, consentendo di escludere dall'applicabilità della direttiva soltanto i casi in cui la sanzione penale fosse conseguenza di fattispecie diverse dal reato di ingresso e permanenza irregolare.

Infine, per quanto riguarda l'ambito soggettivo di applicazione della normativa europea, al par. 3 si stabiliva che la direttiva non si sarebbe applicata ai beneficiari del diritto comunitario alla libera circolazione, come definiti all'art. 2, par. 5 del codice frontiere Schengen24.

La direttiva prevedeva che gli Stati membri, a eccezione di alcune ipotesi particolari indicate all'art. 6, paragrafi da 2 a 525, fossero 23 D'Ambrosio, Luca. Se una notte d'inverno un sans papiers: la Corte di giustizia

dichiara il reato di ingresso e soggiorno irregolare 'conforme' e 'non conforme' alla direttiva rimpatri. Nota a Corte di giustizia dell'UE (Grande Sezione), sentenza del 6 dicembre 2011, Achughbabian contro Préfet du Val-de-Marne, causa C-329/11, 26 gennaio 2012, in Diritto Penale Contemporaneo, 26 gennaio 2012.

24 L'art. 2, par. 5 del codice frontiere Schengen definisce i beneficiari del diritto alla libera circolazione ai sensi del diritto unionale: i cittadini dell’Unione ai sensi dell’articolo 20, par. 1, TFUE, nonché i cittadini di Paesi terzi familiari di un cittadino dell’Unione che esercita il suo diritto alla libera circolazione sul territorio dell’Unione europea, ai quali si applica la direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio; i cittadini di Paesi terzi e i loro familiari, qualunque sia la loro nazionalità, che, in virtù di accordi conclusi tra l'Unione e i suoi Stati membri, da un lato, e tali Paesi terzi, dall’altro, beneficiano di diritti in materia di libera circolazione equivalenti a quelli dei cittadini dell’Unione. 25 Le eccezioni riguardavano il caso del cittadino di un Paese terzo in posizione

irregolare in possesso di un permesso di soggiorno valido o di analoga autorizzazione rilasciati da un altro Stato membro; il caso del cittadino di un Paese terzo in posizione irregolare ripreso da un altro Stato membro in virtù di accordi o intese bilaterali vigenti alla data di entrata in vigore della direttiva; il caso del rilascio per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura di un permesso di soggiorno autonomo o analoga autorizzazione al cittadino di un Paese terzo in

obbligati ad adottare una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque cittadino di Paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio fosse irregolare; rimaneva ferma la competenza degli Stati membri di definire con legge nazionale le condizioni richieste ai fini della regolarità del soggiorno. Quando però ne fosse stata accertata l'inosservanza, la direttiva avrebbe disciplinato una volta per tutte le modalità del rimpatrio, definito all'art. 3 come il “processo di ritorno di un cittadino di un Paese terzo, sia in adempimento volontario di un obbligo di rimpatrio sia forzatamente” verso il proprio Paese di origine, in un Paese di transito o in altro Paese in cui il cittadino in questione avesse deciso volontariamente di ritornare e in cui sarebbe stato accettato. La direttiva aveva previsto una gradualità nell'esecuzione della decisione di rimpatrio, dal momento in cui si andava ad anteporre la modalità della partenza volontaria a tutte le altre, fino ad arrivare al trattenimento con accompagnamento alla frontiera. Anche la Corte di giustizia europea aveva provveduto a chiarire, al punto 41 della sentenza del 28 aprile 2011, causa Hassen El

Dridi, C-61/11 PPU, che “[...] la successione delle fasi della procedura

di rimpatrio stabilita dalla direttiva 2008/115 corrisponde ad una gradazione delle misure da prendere per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, gradazione che va dalla misura meno restrittiva per la libertà dell’interessato – la concessione di un termine per la sua partenza volontaria – alla misura che maggiormente limita la sua libertà – il trattenimento in un apposito centro –, fermo restando in tutte le fasi di detta procedura l’obbligo di osservare il principio di proporzionalità”. L'adempimento volontario di un obbligo di rimpatrio era da preferire per diverse ragioni: in quanto più dignitoso, più sicuro e spesso corrispondente all'opzione di rimpatrio più conveniente dal punto di vista economico. Per questo la promozione della partenza volontaria veniva definita dal manuale sul rimpatrio come uno degli obiettivi della direttiva, e si invitavano gli Stati membri a offrire la possibilità di una partenza volontaria al maggior numero possibile di rimpatriandi e ad astenersi dal farlo solo nei casi in cui fosse esistito il rischio di ostacolare il conseguimento dell'obiettivo della procedura di rimpatrio.

La decisione di rimpatrio avrebbe fissato per la partenza volontaria un periodo congruo di durata compresa tra sette e trenta giorni26, posizione irregolare; il caso del cittadino di un Paese terzo in posizione irregolare che abbia iniziato una procedura per il rinnovo del permesso di soggiorno o di analoga autorizzazione.

26 La direttiva permetteva agli Stati membri di decidere se subordinare la concessione del periodo per la partenza volontaria alla richiesta proveniente dal cittadino di un Paese terzo interessato, fermo restando in questo caso il dovere dello Stato di informare quest'ultimo di tale possibilità. In quest'ultima ipotesi, la direttiva non diceva quali potevano essere gli effetti dell'omessa presentazione della richiesta; in particolare non era chiaro se la conseguenza dovesse essere la

prorogabile dagli Stati membri sulla base delle circostanze specifiche del caso individuale, quali la durata del precedente soggiorno, la presenza di bambini in età scolare e l'esistenza di altri legami familiari e sociali27. Durante il periodo concesso ai fini della partenza volontaria,

allo scopo di evitare il rischio di fuga, si potevano imporre alcune modalità restrittive e di controllo, quali l'obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una adeguata garanzia finanziaria, la consegna di documenti o l'obbligo di dimora in un determinato luogo. Qualora il periodo per la partenza volontaria non fosse stato concesso, ovvero, se concesso, non fosse stato rispettato, la direttiva riconosceva agli Stati membri il dovere di adottare tutte le misure necessarie per conseguire in maniera efficace e proporzionata l'obiettivo della direttiva, cioè quello di eseguire la decisione di rimpatrio, lasciando che le modalità concrete fossero stabilite dalle legislazioni e dalle prassi amministrative degli Stati membri28. Lo

Stato, in base a quanto previsto dall'art. 8, par. 4, allo scopo di allontanare un cittadino di un Paese terzo che avesse opposto resistenza, avrebbe potuto ricorrere anche a misure coercitive, anch'esse non disciplinate dalla direttiva, la quale si limitava a imporre che vi si ricorresse “in ultima istanza” e che fossero “attuate conformemente a quanto previsto dalla legislazione nazionale in osservanza dei diritti fondamentali e nel debito rispetto della dignità e dell'integrità fisica del cittadino di un Paese terzo interessato”.

In alcuni casi però, quando emergevano interessi o diritti di particolare valore, l'allontanamento non avrebbe potuto essere effettuato, e si imponeva agli Stati il dovere di rinviarlo. L'art. 9 della direttiva faceva riferimento a due situazioni, in presenza delle quali il divieto di allontanamento si manifestava come assoluto: quando l'allontanamento avesse violato il principio di non-refoulement, ai sensi della lett. a) del par. 1, e durante il periodo di sospensione concesso in attesa dell'esito di un ricorso, ai sensi della lett. b). Inoltre, ogni Stato avrebbe potuto decidere di rinviare l'allontanamento del cittadino di un Paese terzo per un congruo periodo, tenuto conto delle circostanze specifiche di ciascun caso e, in particolare, delle condizioni fisiche o mentali

stessa della mancata concessione del termine, e cioè l'esecuzione coattiva dell'espulsione ai sensi dell'articolo 8 della direttiva.

27 Dall'altro lato, l'art. 7, par. 4 consentiva agli Stati membri di astenersi dal concedere il periodo per la partenza volontaria, o di concederne uno inferiore a sette giorni, nei casi in cui sussistesse il rischio di fuga, la domanda di soggiorno regolare fosse stata respinta in quanto manifestamente infondata o fraudolenta o l'interessato potesse costituire un pericolo per l'ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale.

28 Si veda il punto 36 della sentenza Achughbabian, cit.: “[...] dalla lettura dell’art. 8, nn. 1 e 4, della direttiva 2008/115 risulta con chiarezza che i termini «misure» e «misure coercitive», ivi figuranti, si riferiscono a qualsiasi intervento che sfoci, in maniera efficace e proporzionata, nel rimpatrio dell’interessato”.

dell'interessato, e delle ragioni tecniche, come l'assenza di mezzi di trasporto o l'assenza di identificazione29.

Ai sensi dell'art. 11 della direttiva, le decisioni di rimpatrio avrebbero dovuto essere corredate di un divieto d'ingresso. Tale divieto, definito dall'art. 3, par. 6, come “decisione o atto amministrativo o giudiziario che vieti l'ingresso e il soggiorno nel territorio degli Stati membri per un periodo determinato e che accompagni una decisione di rimpatrio”, sarebbe stato tassativamente previsto in due casi, e cioè quando non fosse stato concesso un periodo per la partenza volontaria, ovvero quando non fosse stato dato seguito all'obbligo di rimpatrio; in tutte le altre ipotesi la direttiva lasciava agli Stati la possibilità di prevederlo o meno. I divieti d'ingresso legati al rimpatrio previsti dalla direttiva avrebbero dovuto avere effetti preventivi e rafforzare la credibilità della politica dell'Unione europea in materia di rimpatri, inviando il chiaro segnale che chi non avesse rispettato le norme sulla migrazione nell'Unione europea non avrebbe potuto rientrare in alcuno degli Stati membri dell'Unione per un periodo specifico. La durata del divieto sarebbe stata determinata tenendo debitamente conto di tutte le circostanze pertinenti di ciascun caso e non avrebbe dovuto superare di norma i cinque anni; il divieto avrebbe potuto essere emesso per un periodo più lungo solo nel caso in cui il cittadino di Paese terzo costituisse una minaccia per l'ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale.

Nell'ipotesi in cui, non fosse stato concretamente possibile applicare efficacemente le misure meno coercitive ma sufficienti ad assicurare il rimpatrio del cittadino di un Paese terzo in posizione irregolare, gli Stati membri avrebbero potuto disporre il trattenimento dello stesso ai sensi dell'art. 1530. L'imposizione del trattenimento ai fini

dell'allontanamento veniva considerato, a ragione, come una grave ingerenza nell'esercizio del diritto fondamentale alla libertà personale e, per questo, soggetto a specifiche limitazioni. Innanzitutto, come già

29 L'elenco dei possibili motivi a sostegno della decisione di rinvio dell'allontanamento era aperto; in questo modo gli Stati membri avrebbero potuto reagire con flessibilità a nuove situazioni emergenti che avrebbero giustificato il rinvio dell'allontanamento.