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A fronte dell'enorme e crescente flusso di migranti in arrivo in Europa, abbiamo visto come in realtà la politica migratoria comune abbia faticato a scostarsi dagli strumenti tradizionalmente usati a presidio delle frontiere esterne, quali il controllo e la repressione della clandestinità, a scapito dell'affinamento di un'azione più complessa e lungimirante di coinvolgimento dei Paesi terzi, nella prospettiva di ridurre la spinta migratoria. Nonostante nei documenti ufficiali delle istituzioni europee si fosse da tempo riconosciuto il limite delle misure fino ad allora poste in essere e si auspicasse l'elaborazione di una nuova politica che coinvolgesse in misura maggiore i Paesi di provenienza dei migranti1, l'azione dell'Unione, o meglio dei singoli

Stati membri, si è prevalentemente direzionata verso la protezione di interessi nazionali, quali la sicurezza e l'ordine pubblico, piuttosto che sulla tutela dei principi e dei diritti fondamentali che pure costituiscono il fondamento delle democrazie europee. L'Europa si è chiusa in se stessa alzando muri impenetrabili contro gli stranieri, e mettendo a punto un meccanismo comune finalizzato all'espulsione di quanti fossero già entrati illegalmente all'interno dei propri confini. La situazione non è stata resa più semplice dai recenti attentati terroristici compiuti nelle capitali d'Europa, che spesso hanno puntato i riflettori sulle debolezze e le superficialità dei sistemi di controllo e di polizia, attirando su di essi la sfiducia dell'opinione pubblica, e hanno alimentato sentimenti di paura e diffidenza verso “lo straniero”. La tensione e l'insicurezza sociali che ne sono derivate hanno messo in moto un processo di tendenziale convergenza tra il sistema di controllo della migrazione e gli strumenti penalistici, attraverso la progressiva inclusione nella sfera del diritto penale di inosservanze di disposizioni di natura amministrativa, così come attraverso l'intrecciarsi di termini e istituti appartenenti ai due diversi ambiti. Tale tendenza ha

1 Si vedano ad esempio i già citati documenti relativi ai c.d. “Capisaldi di Tampere” del 1999 e ai successivi programmi pluriennali del 2004, 2009 e 2014, nonché le successive decisioni di adozione di un approccio globale al tema immigrazione prese nel 2005 e 2011 dal Consiglio e dalla Commissione.

pregiudicato notevolmente la situazione dei migranti; la confusione del fenomeno migratorio con il fenomeno criminale ha portato alla diffusione di una percezione negativa da parte dell'opinione pubblica dei migranti come “undesirable non-citizens2”. Questa trasformazione

è stata spesso indicata come “crimmigration”, cioè criminalizzazione dell'immigrazione irregolare.

Il legislatore europeo ha adottato un'ampia serie di misure che rientrano nell'ambito della criminalizzazione dell'immigrazione, anche se, a differenza della tendenza registratasi in alcuni Stati membri, non ha mai criminalizzato la condotta di migrante irregolare in sé. Piuttosto, la normativa europea si è concentrata sul ruolo di quanti avessero facilitato, a diversi livelli, l'immigrazione illegale. Un primo tipo di criminalizzazione è stata fondata su un più ampio progetto teso a rendere più sicuro il fenomeno migratorio e a contrastare le pratiche di traffico e sfruttamento dei migranti, percepite come una minaccia globale alla sicurezza connessa alla criminalità organizzata transnazionale3. Una seconda ondata di misure ha fatto seguito invece

alla tendenza europea a privatizzare il controllo dell'immigrazione, attraverso il coinvolgimento di privati nell'attività di prevenzione e contrasto degli ingressi o soggiorni irregolari, come avvenuto più recentemente con i datori di lavoro4. Quest'ultima tipologia di 2 De Genova, Nicholas. Detention, Deportation, and Waiting: Toward a Theory of Migrant Detainability, Global Detention Project Working Paper n. 18, Ginevra, novembre 2016.

3 Un iniziale strumento adottato a livello europeo in materia di contrasto al traffico di migranti fu la decisione quadro del Consiglio del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani, 2002/629/GAI, la quale però dimostrava di dare priorità a criminalizzazione e repressione piuttosto che provvedere alla tutela dei diritti delle vittime della tratta, cui erano dedicate, all'art. 7, disposizioni generali e limitate. Un simile approccio fu conservato nell'adozione della direttiva 2004/81/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, riguardante il titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di Paesi terzi vittime della tratta di esseri umani o coinvolti in un'azione di favoreggiamento dell'immigrazione illegale che cooperassero con le autorità competenti; soltanto con la direttiva 2011/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2011 concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, e che sostituì la decisione quadro del Consiglio del 2002, n. 629, l'aspetto della protezione dei diritti ha avuto la prevalenza. Contro lo sfruttamento dell'immigrazione clandestina l'Unione europea ha adottato un ampio approccio attraverso la definizione, nella direttiva 2002/90/CE del Consiglio del 28 novembre 2002, del favoreggiamento dell'ingresso, del transito e del soggiorno illegali, di cui si confermava il disvalore nella decisione quadro del Consiglio 2002/946/GAI del 28 novembre 2002, relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento dell'ingresso, del transito e del soggiorno illegali.

4 La privatizzazione è stata attuata attraverso la cooptazione di settori privati da parte dello Stato allo scopo di fargli esercitare funzioni essenzialmente pubbliche di controllo sull'immigrazione. Inizialmente, come previsto dal capitolo 6 della Convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen, l'azione degli Stati europei si era concentrata sulla prevenzione degli ingressi, richiedendo ai privati,

criminalizzazione non colpiva necessariamente i migranti con sanzioni penali, ma sicuramente produceva un impatto significativo sui loro diritti e sull'accoglienza che avrebbero ricevuto da parte della società5.

All'interno dei singoli ordinamenti, non esclusivamente europei, la criminalizzazione dell'immigrazione si è manifestata sotto due aspetti principali: una criminalizzazione formale, in base alla quale si sono attratte nella sfera del diritto penale le violazioni di legge in materia di immigrazione, e una dipendenza crescente dall'applicazione di misure più comunemente associate alla sfera penale, come la detenzione, in risposta alle violazioni della normativa sull'ingresso e il soggiorno degli stranieri sul territorio.

Il processo di rafforzamento dei confini esterni che ha da subito accompagnato la nascita del mercato unico e del diritto di libera circolazione delle persone nell'area Schengen, ha portato alla costruzione di un'Unione sempre più incentrata sul controllo e sulla sorveglianza; mentre i confini interni all'Europa sono diventati più aperti, gli Stati membri hanno aderito a una politica di controllo delle frontiere esterne finalizzata a fermare immigrati e richiedenti asilo prima che facessero ingresso nell'Unione europea, così da arrivare alla creazione di quella che è stata definita “Fortress Europe”6. Gli effetti

pratici di una tale legislazione sono stati dunque, non solo quello di alimentare la percezione dei migranti irregolari come soggetti non meritevoli della cittadinanza del Paese ospitante, e quello di contribuire alla criminalizzazione crescente della loro situazione, ma anche quello della creazione di una disciplina rigorosa che ha causato l'assoggettamento di un sempre maggior numero di migranti appartenenti a diverse categorie, ad arresti, misure di detenzione e di “deportazione”. Nel rapporto diffuso da Amnesty International a luglio 20147 si evidenziava come nella scelta di isolare le proprie frontiere,

l'Unione europea e i suoi Stati membri impedissero ai rifugiati di accedere all'asilo e mettessero a rischio le loro vite nel corso di viaggi

e in particolare ai vettori, di effettuare i controlli prima di far entrare i migranti trasportati sul territorio europeo, e scaricando su di essi la responsabilità nei casi di ingresso illegale. L'imposizione di sanzioni penali ai datori di lavoro che avessero impiegato cittadini di Paesi terzi in posizione irregolare, avvenuta con la direttiva 2009/52/CE, aveva esteso la privatizzazione del controllo dell'immigrazione al momento successivo all'ingresso.

5 Mitsilegas, Valsamis. The Changing Landscape of the Criminalisation of Migration in Europe: The Protective Function of European Union Law, in Social Control and Justice: Crimmigration in the Age of Fear, ed. Maria João Guia, Maartje van der Woude, and Joanne van der Leun, The Hague : Eleven International Publishing, 2013.

6 Flynn, Michael. How and Why Immigration Detention Crossed the Globe, in Global Detention Project Working Paper n. 8, Ginevra, aprile 2014.

7 “Il costo umano della Fortezza Europa: le violazioni dei diritti umani nei confronti dei migranti e dei rifugiati alle frontiere d'Europa” pubblicato in data 8 luglio 2014 da Amnesty International.

sempre più pericolosi. Si segnalava inoltre una sproporzione ingiustificabile tra la spesa sostenuta per recinzioni, sistemi di sorveglianza sofisticati e pattugliamento delle frontiere, rispetto alle somme destinate al miglioramento della situazione di richiedenti asilo e rifugiati. Infine il rapporto accusava l'Europa di esternalizzare il controllo sull'immigrazione ai Paesi terzi confinanti, allo scopo di fermare i migranti in arrivo in una “zona cuscinetto” fuori dal suo territorio, senza però preoccuparsi del trattamento che tali Stati avrebbero riservato loro soprattutto in ordine al rispetto dei diritti fondamentali8.

Accanto alla più nota e immediata interpretazione della suddetta espressione, un ulteriore significato della stessa può essere avanzato e trovare spazio nella presente trattazione, e cioè di Fortezza Europa come territorio di detenzione di migliaia di stranieri9. Come già

anticipato nel capitolo precedente, e come approfonditamente studiato nel prossimo paragrafo, la necessità di assicurare l'effettiva espulsione dei migranti entrati illegalmente nel territorio europeo o ivi presenti senza più i titoli necessari per il soggiorno, evitando la loro dispersione sul territorio, ha portato all'adozione della direttiva 115/2008/CE, la quale ha determinato l'introduzione nell'ordinamento dell'Unione di una disciplina comune sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolarmente soggiornanti, dedicando particolare attenzione all'istituto del trattenimento ai fini dell'allontanamento. Inoltre, a questa prima tipologia di immigration detention, si aggiunge la detenzione dei richiedenti asilo, possibile in presenza di determinate condizioni, “ove necessario e sulla base di una valutazione caso per caso, [...], salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive10”.

8 Una conferma di questa pratica si è avuta recentemente con la firma in data 2 febbraio 2017 del Memorandum con il Governo libico, con cui l’Italia si è impegnata a fornire strumentazione e sostegno militare, strategico e tecnologico, oltre a fondi teoricamente per lo sviluppo, ad un Governo sotto costante ricatto di milizie violente e armate, al fine di bloccare e controllare le partenze dei migranti in fuga. La Libia rimane un Paese che non ha ratificato le più fondamentali convenzioni in materia di diritti d’asilo e di rispetto dei diritti umani, e continua a sottoporre i profughi in fuga a trattamenti disumani e degradanti nei Centri di detenzione, come testimoniano innumerevoli rapporti e appelli delle più importanti organizzazioni internazionali, anche istituzionali.

9 Secondo i dati di Global Detention Project, nel 2013 gli immigrati detenuti in Italia sono stati 6.016, in Germania 4.812. Addirittura “a small island like Malta, where escape by sea without endangering one's life is unlikely and fleeing by air is subject to strict control”, come scriveva la Corte europea dei diritti dell'uomo nel caso Louled Massoud v. Malta, 24340/08, 27 luglio 2010, par. 68, gli immigrati rispetto ai quali si è ritenuto di dover applicare la misura detentiva, in assenza di altre soluzioni meno restrittive, sono stati 1.900. Nel 2015 il Belgio ha trattenuto in totale 6.229 immigrati; la Spagna 6.930; l'Ungheria 8.562; la Francia 47.565.

In effetti, prima di arrivare alla struttura tuttora in vigore regolamentata dalla direttiva rimpatri, l'Unione si era già mossa sul terreno dell'allontanamento di cittadini di Paesi terzi in due occasioni principali: con la direttiva 2001/40/CE relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di Paesi terzi, e con il “Libro verde su una politica comunitaria di rimpatrio delle persone che soggiornano illegalmente negli Stati membri”, presentato dalla Commissione nel 2002 e basato sugli elementi definiti nel Piano d'azione del Consiglio del 28 febbraio 2002.

Sulla base di quanto stabilito dalla direttiva 40, ogni decisione dell'autorità amministrativa competente di uno Stato membro che avesse ordinato l'allontanamento dello straniero e che fosse giustificata da una minaccia grave e attuale per l'ordine pubblico o la sicurezza nazionale, o dal mancato rispetto delle normative nazionali relative all'ingresso o al soggiorno degli stranieri, avrebbe trovato applicazione sul territorio di qualsiasi altro Stato membro in cui si fosse venuto a trovare lo straniero destinatario del provvedimento11. Ai sensi dell'art.

3, par. 2 della direttiva, l'attuazione della stessa sarebbe dovuta avvenire nel rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali; inoltre, secondo quanto previsto dal successivo art. 4, gli Stati membri avrebbero dovuto prevedere la possibilità per lo straniero interessato di proporre ricorso avverso la misura di allontanamento.

Nel Libro verde della Commissione, l'obiettivo cui si tese era quello di

del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale. Le condizioni in presenza delle quali è possibile disporre il trattenimento di un richiedente asilo sono elencate al successivo par. 3, e comprendono il caso in cui sia necessario determinarne o verificarne l’identità o la cittadinanza, determinare gli elementi su cui si basa la domanda di protezione internazionale che non potrebbero ottenersi senza il trattenimento, in particolare se sussiste il rischio di fuga del richiedente, e decidere, nel contesto di un procedimento, sul diritto del richiedente di entrare nel territorio; il caso in cui la persona sia trattenuta nell’ambito di una procedura di rimpatrio ai sensi della direttiva 115 e lo Stato membro interessato provi, in base a criteri obiettivi, tra cui il fatto che la persona in questione ha già avuto l’opportunità di accedere alla procedura di asilo, che vi sono fondati motivi per ritenere che la persona abbia manifestato la volontà di presentare la domanda di protezione internazionale al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione della decisione di rimpatrio; il caso in cui vi siano motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico; il caso del trattenimento ai fini del trasferimento, disciplinato all'art. 28 del regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide.

11 La decisione di allontanamento giustificata da una minaccia grave e attuale per l'ordine pubblico e la sicurezza nazionale poteva essere adottata nei casi di: condanna dello straniero per un reato punibile con pena restrittiva della libertà personale di almeno un anno; esistenza di seri motivi per ritenere che lo straniero avesse commesso fatti punibili gravi; esistenza di indizi concreti che lo straniero intendesse commettere fatti punibili gravi nel territorio di uno Stato membro.

“esaminare i complessi problemi attinenti al rimpatrio di persone soggiornanti illegalmente nell'UE e formulare suggerimenti per una politica coordinata ed efficiente, basata su norme e principi comuni, e rispettosa della dignità e dei diritti umani”. La categoria di rimpatri su cui si concentrò la Commissione nella redazione del documento era quella riguardante gli stranieri illegalmente soggiornanti; persone che “non soddisfano, o non soddisfano più, le condizioni per l'ingresso, la presenza o il soggiorno nel territorio degli Stati membri dell'Unione europea perché sono entrati illegalmente o sono restati dopo la scadenza del visto o del permesso di soggiorno, o perché la loro richiesta di asilo è stata respinta in via definitiva”. Queste persone, non godendo di uno status giuridico che le avrebbe autorizzate a restare nel territorio di uno Stato membro, avrebbero potuto essere incoraggiate a lasciare l'Unione spontaneamente, oppure avrebbero potuto essere costrette a farlo. Relativamente alle due modalità di allontanamento, la Commissione suggeriva, per quanto possibile, di dare la priorità al rimpatrio volontario, “per evidenti motivi umanitari”, ma anche in quanto avrebbe richiesto uno sforzo amministrativo minore rispetto al rimpatrio forzato. Dopo aver considerato tutta una serie di diritti umani e libertà fondamentali che una politica europea dei rimpatri avrebbe dovuto pienamente rispettare12, e dopo aver sottolineato l'importanza di

una proficua cooperazione con i Paesi di origine o di transito interessati, il documento proponeva la fissazione di norme comuni in materia di allontanamento, trattenimento e accompagnamento “in grado di stabilire un trattamento uniforme e adeguato delle persone soggiornanti illegalmente oggetto di misure che pongono fine al soggiorno, indipendentemente dallo Stato membro che le esegue”13. 12 Il documento faceva riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e

in particolare alla proibizione della tortura, art. 3; al diritto alla libertà e alla sicurezza, art. 5; al diritto a un equo processo, art. 6; al diritto al rispetto della vita privata e familiare, art. 8; e al diritto a un ricorso effettivo, art. 13. La Carta dei diritti fondamentali era richiamata relativamente agli articoli 3, diritto all'integrità della persona; 4, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti; 8, protezione dei dati di carattere personale; 19, protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione; 24, diritti del minore; 47, diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale.

13 In particolare, la Commissione avanzò l'ipotesi di introdurre una distinzione fra cause che avrebbero reso obbligatoria una decisione di allontanamento per motivi di pericolo eccezionale, e altri motivi legittimi che avrebbero potuto comportare, di norma, una decisione di allontanamento. Inoltre nel documento emergeva la necessità di tenere in considerazione, al momento dell'adozione della decisione di rimpatrio, lo status dell'interessato: nel caso di cittadini di Paesi terzi titolari di determinati privilegi, come i residenti a lungo termine, i familiari rispettivamente di un cittadino dell'Unione o di un cittadino dello Stato membro interessato, nonché i rifugiati e gli individui oggetto di altre forme di protezione internazionale, l'allontanamento si sarebbe potuto attuare solo per gravi motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico e l'esistenza di questi gravi motivi sarebbe dovuta essere accuratamente valutata e adeguatamente motivata nelle

Per quanto riguarda il tema specifico del trattenimento in attesa dell'accompagnamento alla frontiera, imposto per facilitare l'identificazione della persona soggiornante illegalmente al fine di ottenere i documenti di viaggio per il rimpatrio o per impedirgli di rendersi irreperibile prima del rimpatrio, la Commissione, riconducendo l'istituto nell'ambito delle misure coercitive, per loro natura costituenti una limitazione grave della libertà personale degli individui, proponeva di regolamentarne i presupposti, le autorità competenti ad applicarlo e le modalità con norme minime fissate a livello europeo, per garantire maggiore uniformità e soprattutto un diffuso rispetto della dignità della persona. In quanto strumento capace di limitare la libertà personale, si sottolineava la necessità di un intervento di convalida del provvedimento di restrizione dello straniero da parte dell'autorità giudiziaria, e si auspicava la determinazione a livello europeo della durata media o massima del trattenimento a fini di rimpatrio, nonché la valutazione di alternative tecniche o giuridiche allo stesso, che fossero altrettanto efficienti14.

Nell'ottica di un riavvicinamento e di un miglioramento della cooperazione tra Stati membri, la Commissione europea ha inteso il Libro verde come strumento per avviare una discussione sul tema del rientro delle persone soggiornanti illegalmente, in attesa che il Consiglio elaborasse una proposta di direttiva in materia. Il carattere estremamente complesso e sensibile delle questioni attinenti al rimpatrio e la complessità dell'iter previsto per la procedura di codecisione15 sono stati i principali motivi alla base del ritardo con cui

si è giunti all'adozione della Direttiva rimpatri, entrata in vigore solo il 13 gennaio 200916.

decisioni di rimpatrio.

14 Anche per disciplinare l'accompagnamento alla frontiera il documento proponeva l'adozione di norme minime operanti su quattro diversi livelli: salvaguardia del principio di non refoulement; valutazione dello stato fisico e della capacità mentale della persona interessata, nonché di determinati gruppi vulnerabili, come i minori o le famiglie; misure di sicurezza applicabili all'accompagnamento alla frontiera in senso stretto; elaborazione di un meccanismo di semplificazione dei rimpatri in relazione a Paesi di origine specifici.

15 La procedura di codecisione fu introdotta dal Trattato di Maastricht ed è ora prevista all'art. 294 TFUE come “procedura legislativa ordinaria”.

16 Alla base di tale ritardo vi sono stati anche i contrasti sorti e le obiezioni sollevate durante la procedura per la sua adozione, riguardando la direttiva uno degli