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La crudeltà Combattere la parola nel gesto della parola.

LA MARATONA IL PRINCIPIO DELLA COMPOSIZIONE

3.2 La crudeltà Combattere la parola nel gesto della parola.

Il “teatro della crudeltà” scansa Dio dalla scena, Artaud è stanco dell’autore-creato- re che, sebben assente, sorveglia da lontano la rappresentazione determinandone il senso, un autore che spinge a rappresentare il proprio testo tramite il lavoro di registi e attori, i quali esistono però soltanto in quanto schiavi della sua ombra. Il pubblico è elemento che siede ad assistere, è lo sguardo che attende uno spetta- colo autentico. Ma perché questo spettacolo sia autentico sarà necessario capire chi è il “regista”: se l’autore che dispone del linguaggio della parola, o colui che mette in scena l’opera. Questi, che dirige i meccanismi di scena, è considerato «schiavo» dell’autore, osserva Artaud, «un adattatore, una sorta di traduttore desti- nato eternamente a trasferire un’opera drammatica da un linguaggio in un altro; e una simile confusione sarà possibile - e il regista sarà costretto a eclissarsi di fronte all’autore - solo finché si continuerà a dare per scontato che il linguaggio delle pa- role è superiore agli altri, e che il teatro non ammette al di fuori di esso altro lin- guaggio»229. «Come Nietzsche [...] Artaud vuole dunque rompere con la concezione imitativa dell’arte. Con l’estetica aristotelica nella quale ha potuto riconoscersi la metafisica occidentale dell’arte», sono parole di Derrida230. Il teatro, che in Occi- dente è «una sorta di applicazione sonora del linguaggio»231, deve «mettere in evidenza ciò che lo differenzia dal testo, dalla parola pura, dalla letteratura»232, poiché il teatro non è letteratura, ma è un’arte che vive a sé, è il gioco di giocare con le altre arti. «Liberata dal testo e dal Dio-autore, la messa in scena verrebbe dunque restituita alla sua libertà creatrice e instauratrice»233, osserva Derrida. Il “teatro della crudeltà” non rifiuta la rappresentazione, ma essa semplicemente «non 228Ivi, p. 100

229 A. Artaud, Il teatro e il suo doppio con altri scritti teatrali, Torino, Einaudi, 2000, p. 233

230 J. Derrida, prefazione, in A. Artaud, Il teatro e il suo doppio con altri scritti teatrali, Torino, Einaudi, 2000, p. X

231 A. Artaud, Il teatro e il suo doppio con altri scritti teatrali, cit., p. 185

232Ivi, p. XIV; citaz. di Derrida presente nella prefazione, da lettera di Artaud a Benjamin Cremiéux (1931) 233 J. Derrida, prefazione, in A.Artaud, Il teatro e il suo doppio con altri scritti teatrali, cit., p. XIV

verrà più a ripetere un presente, a ripresentare un presente che esiste altrove e prima della scena, dotato di una pienezza [...] estranea alla scena e capace [...] di fare a meno della scena: presenza a sé del Logos assoluto, presente vivo di Dio»234 , sarà invece «Spaziatura, cioè produzione di uno spazio» e quindi di «un tempo che non è più il tempo della linearità fonica». Per ottenere la vittoria dell’insurrezio- ne, e quindi del “teatro della crudeltà”, è necessaria «un’uccisone». Il «parricidio» è crudele, ma l’origine del teatro «quale deve essere restaurata, è una mano protesa verso il detentore abusivo del logos, contro il padre, contro il Dio di una scena sog- getta al potere della parola e del testo»235, ecco che il proiettile deve puntare all’autore. «Per me nessuno ha il diritto di dirsi autore, e cioè creatore, se non colui cui spetta il trattamento diretto della scena»236, sono parole di Artaud, che continua osservando come in Occidente non si permetta «che si chiami linguaggio, con quella sorta di dignità intellettuale che si attribuisce a questo termine», altro che il linguaggio grammaticale della parola che, «pronunciata o no, non ha più valore di quanto ne avrebbe se fosse soltanto scritta. Nel teatro quale viene concepito da noi [...] il testo è tutto»237. Ciò che combatte Artaud non è la parola, ma il suo dominio nel teatro: il regista e l’attore così «non riceveranno più un dettato»238, parola e scrittura ridiverranno «gesti», ed anche la stessa dizione sarà superata239 lasciando spazio alla «carne della parola», al suo suono, al suo atteggiamento nell’anima. Sarà una sorta di «scrittura geroglifica», come è nei sogni, nei quali la parola è presente, ma è un elemento come gli altri. Ne L’interpretazione dei sogni Freud scrive: «il contenuto del sogno è dato per così dire in una scrittura geroglifica»240, e Artaud, creando un curioso ponte (ma non vuole essere questo il luogo in cui inda- garne i legami) scrive nel Primo manifesto (1932): «IL LINGUAGGIO DELLA SCENA: Non si tratta di sopprimere la parola articolata, ma di dare alle parole all’incirca l’im- portanza che hanno nei sogni. Per il resto bisognerà trovare modi nuovi di registra- re questo linguaggio», forse accostandolo «ai modi della trascrizione musicale» o 234Ivi, p. XV

235Ivi, p. XVII

236 A. Artaud, Il teatro e il suo doppio con altri scritti teatrali, cit., p. 231 237Ivi, p. 232

238 J. Derrida, prefazione, in A. Artaud, Il teatro e il suo doppio con altri scritti teatrali, cit., p. XVIII 239 A. Artaud, Il teatro e il suo doppio con altri scritti teatrali, cit., p. 232

240 F. Freud, Linterpretazione dei sogni, tr.it. E.Fachinelli e H.Trettl Fachinelli, in Opere, vol.III, Torino, Borin- ghieri, 1966, p.257; citato da J. Derrida, prefazione, in A. Artaud, Il teatro e il suo doppio con altri scritti teatrali, cit., p. XXI

anche ispirandosi «ai caratteri geroglifici»241. Descrivendo il teatro Balinese, nota come sia basato non più sulle parole, ma su un linguaggio fisico che è segno, un luogo nel quale gli attori, «con i loro abiti geometrici, paiono geroglifici animati»242. Sottolinea come i Balinesi abbiano «un’intera gamma di gesti e di posizioni mimiche per ogni circostanza della vita», facendo divenire la convenzione teatrale come pregiata ed evitandole lo scadere a mestiere, sono codici che apparentano il gesto teatrale al rito. Continuando a produrre riferimenti psicoanalitici, Artaud precisa: «Sulla scena l’inconscio non avrà un ruolo specifico. [...] I drammi che noi daremo si pongono decisamente al riparo da qualsiasi commentatore segreto»243. Basta il commento del regista. Eliminato l’autore, il regista diviene «un maestro di cerimonie sacre». Nel “teatro della crudeltà” il teatro è sacralità, in quanto rito magico, e la magia è riconoscibile anche nell’uso della totalità dell’arte in contrasto col dominio della sola parola. «Il teatro che non consiste in nulla, ma che si serve di tutti i lin- guaggi - gesti, suoni, parole, luce, grida - nasce proprio nel momento in cui lo spirito per manifestarsi ha bisogno di un linguaggio. Ma il fissarsi del teatro su un tipo di linguaggio [...] indica una propensione verso i vantaggi che tale linguaggio offre; e l’inaridimento del linguaggio va di pari passo con la sua limitazione»244. Funzionale è aprire le porte a linguaggi differenti, ai sintomi che tali linguaggi presuppongono. Ne Il teatro e la peste, l’attore è l’appestato ed il teatro è epidemia, Artaud ci sugge- risce che «non diversamente dalla peste, il teatro esiste per far scoppiare gli asces- si collettivi» poiché il teatro «è una crisi che si risolve con la morte o con la guari- gione»245.

Il gesto dell’unicità teatrale è estremizzato: la «festa della crudeltà non dovrebbe avere luogo che una volta», perché «un’espressione non vale due volte, non vive due volte; che ogni parola pronunciata è morta, e non agisce che nel momento in cui viene pronunciata, che una forma, quando sia stata impiegata, non serve più e invita soltanto a ricercarne un’altra, e che il teatro è il solo luogo al mondo dove un gesto fatto non si ricomincia due volte»246. È ancora più affilata però la spada di Artaud: «Se la folla non accorre ai capolavori letterari, questo accade perché tali 241 A. Artaud, Il teatro e il suo doppio con altri scritti teatrali, cit., p. 209

242Ivi, p. 171 243Ivi, p. 31 244Ivi, p. 132 245Ivi, p. 149 246ivi, p. 192

capolavori sono letterari, cioè congelati nel tempo, e congelati in forme che non rispondono più alle esigenze del nostro tempo»247. Egli considera il conformismo borghese una delle cause d’idolatria dei capolavori, uno schermo che impedisce la visione pulita del sublime, non ha senso «prendersela col cattivo gusto di un pubbli- co» (o con l’ignoranza di un pubblico? O la ‘maleducazione’ di un pubblico ‘non educato’?). Criticando l’idea stessa di capolavoro sottolinea polemicamente: «I capolavori del passato vanno bene per il passato ma non per noi. Noi abbiamo il diritto di dire ciò che è stato detto, e anche ciò che non è stato detto, in una forma che ci sia propria, che sia immediata, diretta, che risponde all’attuale modo di senti- re»248. La fedeltà all’opera risulta impossibile. La rappresentazione della “crudeltà” non presenta una ripetizione, ma risulta essere l’inaccessibile limite, ne è ben co- sciente Artaud, «di un presente fuori del tempo, di un non-presente»249, sono le parole che suggerisce Derrida. Quindi non sarà possibile una fedeltà, ma una FIDU- CIA, quella sì, verso un’opera, che diverrà una nuova opera perché messa in scena.