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Il Training dell’attore.

Ciò che è solitamente inteso come training è la parte di lavoro più fisico, del corpo (oltre che della mente). Alla metà degli anni Sessanta, il training dell’attore, che oggi è presente in molti gruppi teatrali, appariva come qualcosa di bizzarro. Furono arti- sti come Stanislavskij, Grotowski, e Barba a sottolinearne l’importanza per ogni interprete e ensamble di teatro114.

Il training è da considerarsi, per l’attore, il mezzo per accordarsi nel senso usato dai musicisti, «una sorta di “la” [...], determinante per il proseguo della sua giornata lavo- rativa [...]. Il programma di quest’ora e mezza-due ore quotidiane di esercizi influenza il lavoro di tutta la giornata. Per questo è della massima importanza che la composi- zione della lezione di training (e cioè la scelta degli esercizi e il loro ordinamento in sequenza) sia in armonia sia con i piani del regista, se si sta preparando uno spetta- colo, che con quelli degli altri pedagoghi, se dopo l’allenamento sono previste anche altre lezioni. [...] Il valore del training lo sento non solo come pedagogo, ma anche come regista attivo, che ha la possibilità di comparare la qualità dell’attore che viene alla prova dopo aver fatto il training con quello che ci arriva entrando in teatro diretta- mente dalla strada. [...] Ho notato [...] che il rapporto “pedagogo-allievo” è sempre assai più onesto, sincero, fiducioso di quanto non sia quello “regista-attore”. Sia per l’attore che per il regista è necessario un anello di congiunzione intermedio sia sul piano psicologico che su quello artistico. Con la presenza della figura del pedagogo il clima nel teatro cambia. [...] La sostituzione di situazione tra “training” e “prova”, di territorio tra “classe” e “scena” e di nome tra “regista” e “pedagogo” ridefiniscono tutto il lavoro sulla pièce rendendogli il significato corretto, il significato di creazione, di frutto della creatività artistica e non solo quello di produzione»115.

Camminare, correre sulle punte dei piedi, considerare l’impulso della corsa prove- niente dalle spalle, camminare con le ginocchia piegate, sono esercizi fisici che Grotowski e anche lo stesso Alschitz, adottano nell’allenamento. Il training fonda il lavoro di entrambi. Mentre però Grotowski tenta di focalizzare il lavoro sull’abban-

114 D’interesse, sull’argomento “training quotidiano”, è uno sfogo di un allievo, Ivan, al maestro Torcov: «Basta! [...] Sono più di sei mesi che ci fa spostare sedie, sprangare porte, accendere caminetti. Ma sposta- re una sedia non crea l’arte! Il vero non sta nell’esibire tutte le volgarità naturalistiche possibili». Torcov risponde: «È troppo umiliante per te fare gli esercizi che fanno tutti gli attori. E perché dovremmo fare ecce- zione per te? Una ballerina, per volare «sur le pointes» la sera, suda tutta la mattina alla sbarra. Un can- tante, per esprimere col canto tutto il suo animo, ogni mattina prova i vocalizzi, note lunghe, risonanze. Nessun artista, di qualsiasi arte, diprezza il suo organismo, e gli esercizi fisici che le varie tecniche richie- dono. E vuoi fare eccezione tu? Noi cerchiamo di creare uno stretto legame tra la natura fisica e quella spirituale e tu cerchi di scinderle». Cfr. Konstantin S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore su se stesso, cit., pp. 165-166.

115115 L’articolo “L’Attore e il Training”, scritto da Jurij Alschitz a Berlino nel 1997, è stato edito con lo stesso

titolo in: Prove di Drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali5, anno III n° 2, ottobre 1997. L’intero articolo è

riportato anche nel sito: www.muspe.unibo.it/period/pdd/num05/04_num5.htm, del quale ho riportato solo alcuni brani significativi.

dono delle resistenze da parte del corpo dell’attore, Alschitz pare più interessato alla guida, da parte dell’attore, della propria energia interiore verso una direzione precisa. Ciò non esclude assolutamente l’esercizio sull’abbandono delle resistenze corporee, è più semplicemente una diversità nelle precedenze di lavoro su se stes- si. L’idea della “provocazione”, suggerita da Alschitz all’attore quale metodo per superare i propri radicati clichés, è basata sulla sfida continua alle proprie forze fisiche (e quindi psichiche) al superamento dei nostri limiti fisici, siano essi di agilità, di resistenza o altro. Tutto porta a creare un ponte che dalla fatica fisica porta l’atto- re ad affrontare la provocazione come un superamento mentale della propria per- sona, un migliorarsi, perché alla propria “provocazione” si risponde con un balzo oltre se stessi. La “provocazione” continua dell’attore verso se stesso, del regista nei confronti dell’attore, dell’attore nei confronti del regista, è tensione positiva verso una ricerca continua e sempre attiva, cioè viva.

Comune, nella ricerca di entrambi i pedagoghi, è IL CONTATTO CON UN’IMMAGINE. Grotowski sottolinea che l’attore «deve giustificare ogni particolare del suo allena- mento con un’immagine precisa»116, quando imparo da Alschitz che prima di ogni azioni, a ciascun attore, deve essere chiaro il motivo, l’immagine. Quel “perché” è l’immagine che, prima d’iniziare la scena, l’attore ha scelto di avere davanti ai propri occhi. È l’immagine che guida la scena o che, in altre parole, guida l’attore. Le libere associazioni portano a stupefacenti approcci di scena. Durante un’improvvi- sazione è importante che sia chiara l’immagine, che le associazioni d’idee siano proposte nel minor tempo possibile per evitare che gli schemi mentali dell’attore facciano da schermo. Il gesto corporeo sarà il passo verso la voce. «Prima il corpo e poi la voce»117 è il principio di Grotowski. Nel pensiero di Alschitz, tale principio porta a considerare la “provocazione” del proprio corpo un modo per vedere dove può essere condotto l’attore, per sorprendere se stessi e così sorprendere la pro- pria voce. Sorprendersi è anche attraverso gli imprevisti che possono accadere in scena. Un imprevisto può essere usato come impulso creativo. Una sedia che ca- de, un fazzoletto che vola a terra durante una messinscena118sono possibilità. La capacità di sfruttare l’imprevisto è usato per rinnovare una performance, per stupire 116 Jerzy Grotowski, Per un teatro povero, cit., pp. 155-156; cfr. anche ivi, p. 221

117 Jerzy Grotowski, Per un teatro povero, cit., p. 216; cfr. anche ivi, p. 230. osservazione che ho sentito ripetere anche a Cèsar Brie durante un paio di seminari da me seguiti nel 2007 in Italia (Modena, Venezia). 118 Konstantin S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore su se stesso, cit., p. 143: «Sta nell’attore far rientrare nella linea d’azione della sua parte questo attimo d’“imprevisto”, piombato dalla vita vera, oppure rinunciarvi ed eliminarlo. In altre parole l’attore può reagire all’“imprevisto” continuando a restare il personaggio, come se fosse un particolare casuale e transitorio della partitura e della sua linea d’azione. Oppure può uscire, per un secondo, dalla parte, eliminare l’imprevisto (cioè raccogliere il fazzoletto e la sedia) e rientrare nella vita convenzionale della scena, come se nulla fosse successo»;

noi stessi nell’atto della scena, nella partitura di scena. Si ricordi il continuo parlare di Torcov di una “partitura” e di una “linea d’azione”. Alschitz propone all’attore di seguire un proprio percorso interno che chiama COMPOSIZIONE, formato da tappe ordinate, ognuna delle quali capace di portare alla successiva: è una “partitura” della “musica” che l’attore “suona” durante la sua performance.