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Il lavoro sul rapporto attore-spettatore.

LA MARATONA IL PRINCIPIO DELLA COMPOSIZIONE

2.4 Il lavoro sul rapporto attore-spettatore.

Le regie infatti «intendono essere ricerche dettagliate sul rapporto pubblico-attore». Nota Grotowski che per «quanto il teatro possa estendere e sfruttare le proprie risorse meccaniche esso rimarrà pur sempre inferiore sul piano tecnologico al cinema e alla televisione»188 e propone perciò «la povertà in teatro», fare a meno «dell’impianto palcoscenico-sala: una diversa sistemazione degli attori e spettatori viene ideata per ogni nuovo spettacolo»189, con infinite soluzioni del rapporto attore- pubblico. Gli attori possono recitare fra gli spettatori, a contatto col pubblico (al quale può essere attribuito un ruolo passivo all’interno del dramma); gli spettatori possono poi essere intorno, separati dagli attori, ed osservare questi ultimi dall’alto, come in una sala operatoria (è il caso dello spettacolo Il Principe Costante)190; op- pure gli spettatori possono fungere da pazienti, come nel Kordian, nel quale, es- sendo l’azione svolta in un ospedale psichiatrico191, essi vengono claustrofobica- mente schiacciati dai letti di metallo in cui loro stessi (pazienti) si trovano seduti ad osservare, e in cui gli attori, al loro fianco, si trovano a recitare; altra possibilità è usare l’intera sala come luogo concreto, nel Dr Faust, egli è a cena con i suoi ospiti (gli spettatori) che, seduti a tavola con lui, ascoltano la confessione della sua sto- ria192; una variazione ulteriore del rapporto attore-spettatore può essere quella creata per Gli Avi di A. Mickiewicz, nel quale gli spettatori sono sparsi in giro per la sala, seduti, mentre gli attori si muovono negli spazi liberi. Quest’ultima situazione interessa per la sua comunanza con la disposizione dello spettacolo Le notti bian-

186Ivi, p. 76

187 Dopo il 1970, Grotowski decise di non creare altre produzioni, e tentare invece l’eliminazione dell’idea di teatro (ossia l’idea di un attore che recita davanti ad un pubblico) organizzando ricerche aperte a giovani senza nessuna precedente esperienza teatrale professionale: realizzò un incontro di persone, una sorta di comunione.

188 Jerzy Grotowski, Per un teatro povero, cit., p. 26 189Ivi, p. 26

190ivi, p. 119 191Ivi, p. 265 192Ivi, p. 103

che di Dostoevskij per la regia di Alschitz193. Se la dimensione scenica era molto simile, possedendone una sicura parentela, mentre in Grotowski gli attori conversa- vano verso alcuni spettatori, questo non era preteso nella regia di Alschitz. Lo spettacolo era svolto all’interno di un parco, all’aperto; il palco si confondeva con la platea, disposta su tutti i lati; il numero di persone accettato ad assistere era limita- to; sul palco erano seduti alcuni spettatori, e immersi a loro erano gli attori, non tutti riconoscibili. Si possono di certo individuare elementi comuni alla scuola di Grotow- ski. Era previsto che gli attori fossero seduti e mischiati agli spettatori (seduti su sedie bianche), e che rimanessero alcune sedie libere (nere); alcuni spettatori ave- vano la percezione che il vuoto delle sedie fosse motivato, scoprivano soltanto in seguito che gli attori si sarebbero seduti al loro fianco, in successivi spostamenti di scena, o che attori erano al loro fianco già prima che lo spettacolo iniziasse, e non ve ne era stata per loro percezione, almeno finché non era stata emessa la prima parola durante la messinscena.

2.5 L’allenamento.

Per l’allenamento dell’attore, Grotowski ha studiato i principali metodi europei ed extraeuropei. Ammette (aiutandoci a capire il suo percorso di formazione e d’in- fluenza) che fondamentali sono stati: «gli esercizi ritmici di Dullin, gli studi di Del- sartre sulle reazioni introverse ed estroverse, l’opera di Stanislavskij sulle “azioni fisiche”, l’allenamento biomeccanico di Mejerchol’d, le sintesi di Vachtangov [...], le tecniche di allenamento del teatro orientale - in particolar modo l’Opera di Pechino, il Kathakali indiano, e il teatro Nõ giapponese. Potrei citare ancora altri sistemi tea- trali», scrive, «ma il metodo che stiamo elaborando non è una combinazione di tecniche prese a prestito da diverse fonti, anche se talvolta adattiamo gli elementi che fanno al caso nostro. Non intendiamo dotare l’attore di un repertorio preordi- nato di ricette sceniche o fornirgli un bagaglio di trucchi del mestiere»194. È chiaro che già nel percorso di formazione, è presente lo stesso alfabeto di Alschitz, per questo è possibile trovare familiarità tra i due pedagoghi: nell’attore che «fa dono totale di sé», che deve «eliminare le resistenze». Grotowski, precisa che «tutto è concentrato sulla “maturazione” dell’attore che è espressa da una tensione verso

193 È uno spettacolo a cui ho assistito nell’estate 2006, in un parco sul lago di Lecco. Uno spettacolo dove erano presenti sia suoi studenti sia alcuni suoi ex-studenti attori, ora suoi collaboratori. È stato creato du- rante un laboratorio da lui tenuto a Como e presentato al suo termine. Segnala l’importanza che nel suo percorso artistico assume il momento del laboratorio.

l’assoluto»195. C’è dunque un’attenzione, un possibile e quasi certo legame verso cui ha un debito la “verticale del ruolo”, che è epicentro del lavoro sull’attore svolto da Alschitz, quella sorta di “luce” a cui ogni attore deve “tendere” quando è in scena per restare in scena.

Quando Grotowski parla di «eliminare le resistenze», intende seguire la «via nega- tiva - non una somma di perizie tecniche, ma la rimozione di blocchi psichici»196, in pratica «non voler fare una data cosa, ma rinunziare a non farla; altrimenti l’eccesso diventerebbe sfrontatezza invece che sacrificio. Ciò significa che l’attore deve agire come in stato di trance. [...] Bisogna darsi in modo totale [...], come ci si dà nell’atto d’amore»197.