LA MARATONA IL PRINCIPIO DELLA COMPOSIZIONE
5.11 La voce sul palcoscenico.
Il rapporto instaurato tra uomo e habitat, il suono uscito dalla bocca umana capace di collegare l’uomo all’ambiente, hanno qualcosa di magico. Il linguaggio parlato nasce all’interno del nostro corpo, ma è in grado di modificare il mondo fisico intor- no a noi.
Esaltando l’oralità si ha la sensazione che “sia la coscienza a parlare”: voce e co- scienza in una stessa emissione. E’ per questo che la parola scritta è parola morta in confronto a quella parlata.
Secondo Derrida il primato nell’ambito del linguaggio non è da attribuirsi alla parola parlata, come insegna Platone, bensì alla parola scritta cha ha una sua oggettività, legame indissolubile col ‘soggetto-autore’ e col ‘soggetto-destinatario’, ed è comun- que autonoma e concreta. L’attribuzione di tale primato però, non significa che nella scrittura si manifesti quella verità che attraverso la lingua parlata non era possibile cogliere. Alla base del ragionamento sta sempre la convinzione che per noi uomini non sia possibile conoscere la verità in quanto tale: abbiamo soltanto indizi attra- verso cui tale verità si tradisce, tracce, indizi dell’essere. Il testo scritto è traccia della lontananza dell’essere, della sua evocazione,la scrittura è assenza, il testo è autonomo.
La parola scritta, traccia che sopravvive alla morte dell’autore (e del destinatario), da un lato è parola morta, in confronto alla parola parlata, ma è anche e soprattutto vita eterna della parola.
Lo «“stato di morte” della parola nel libro ne assicura la presenza nel tempo: si apre la possibilità di una nuova vita, dell’immortalità»349. Invece «ciò che viene detto a voce muore nell’istante stesso in cui è pronunciato»350, la parola risulta perciò esse- re fragilmente legata all’attimo di tempo in cui è espressa, e la scrittura deve consi- derarsi una forma di lotta contro la morte. Lo scrittore, in quest’ottica, diviene uno strano guerriero che lotta contro la fine inevitabile, nel tentativo di trascendere le miserie umane ed oltrepassare il buio della dimenticanza. È possibile per noi giusti- ficare brevemente la nascita della parola scritta riportando le parole di Pasolini:
349 Maria Vertova, Scrittura e morte, articolo presente al link:
http://www.filosofia.unimi.it/ermesnet/iperlab/index.php?cid=67&linkfrom=104.
«Finita la parola, resta il libro», conservare la memoria di qualcosa ci rende sempli- cemente umani.
LA VOCE UMANA COME PARTO.
Ma allo stesso tempo attraverso la scrittura la parola muore, essa non è più “even- to” vivificato dalla voce, ma è qualcosa di fissato indissolubilmente allo spazio del foglio. Cambiando semplicemente l’intonazione della voce possono essere tra- smessi differenti significati, è una qualità che rende la VOCE unica. «L’unicità della voce è un dato incontrovertibile dell’esperienza»351. La voce non inganna. Una persona inganna, ma la voce no. Le sue inflessioni, il suo timbro, perfino le sue pause, i silenzi ci parlano del suo possessore e ci permettono di riconoscerlo e conoscerne le intenzioni. Al telefono siamo in grado di riconoscere chi ci chiama, ma non lo stiamo vedendo, spesso basta la sua voce, nemmeno ci occorre che si presenti.
«La voce è suono, non parola. Ma la parola costituisce la sua destinazione essen- ziale»352. Il pregiudizio è che, «al di fuori della parola, la voce sia un resto insignifi- cante. [...] Si tratta invece di un’originaria eccedenza»353. L’ambito della voce ecce- de quello della parola. Nella voce esiste “un di più” rispetto alla parola. Per questo il neonato può essere capito dal genitore: non usa parole, ma usa la sua voce, si potrebbe dire che usa significati. Non si nasconde, ma segnala la sua esistenza, accostando voce e respiro, ambedue emessi dalla bocca. Le vibrazioni speciali che la voce può assumere in un palcoscenico sono espressione di questa sua vivace peculiarità. Esiste quindi un’ulteriore prospettiva di osservazione: il fatto che la scrittura sia radicalmente “seconda”, ripetizione della lettera, e non voce originaria che accade in prossimità del senso. «Una voce significa questo: c’è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre voci», sono parole di Italo Calvino354. Sul palcoscenico si guarda alla carne, alla voce in quanto umana presenza. Se nel palcoscenico si assiste ad un “proces- so in atto” (e non ad un oggetto, seppur artistico) ciò a cui prestare attenzione nella nostra analisi, non diventa il testo scritto in quanto elemento statico, ma il suono nella sua caratteristica dinamica. Il suono si caratterizza non come essere ma come
351 Adriana Cavarero, A più voci, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 15 352Ivi, p. 19
353Ibid.
«divenire»355. Nel suo continuo cambiamento, potremmo avvicinare il suono all’atto teatrale, che vive del suo essere “processo in atto”, e quindi la voce, in quanto gesto vocale, atto vocale, potrebbe essere l’urlo del teatro, della sua vitalità, nella presenza dell’attore in scena. La voce dell’attore verrebbe a segnalare l’identità propria del teatro e, allo stesso tempo, il suo gesto di riscatto nei confronti della crisi. La voce, e non la parola detta, ma la semplice voce, in quanto presenza del corpo parlante, evidenzierebbe l’unicità della messinscena come “processo” tea- trale, come forma in divenire, come “PARTO” a cui lo spettatore decide di assistere.