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La macchina della voce.

LA MARATONA IL PRINCIPIO DELLA COMPOSIZIONE

4.3 La macchina della voce.

Capire che l’uomo poteva essere superato attraverso (e attraversando) la macchina è stata la sfida dominante dell’opera di Bene. Capì che la sua voce poteva superare

283Ivi, p. 327 284Ivi, p. 328 285Ivi, p. 333

286 Peter Brook, The Empty Space, London, Mc Gibbon & Kee, 1968; tr.it. Lo spazio vuoto, Roma, Bulzoni Editore, 1998, pp. 124-125

lo spazio, se estesa. I suoi compagni divennero gli ingegneri del suono, in risposta alla timidezza circolante tra i teatranti (presente tuttora) nel ricorso all’amplificazio- ne. Microfoni, spie, amplificatori, riverberi, effetti, campionatori sono i suoi attori, strumenti per superare il teatro. È certo che quegli “attori-macchina” sarebbero stati inutili se al vertice delle macchine non vi fosse penetrato il talento vocale di Bene. La sua voce diviene «interferenza», segmentata dai respiri (contrazioni diaframma- tiche), e dai suoni degli stessi respiri amplificati, raccolti sul palco dai microfoni. «È la voce (abbandono nella lettura-oblio) che si scorpora nell’alone del suono»287. La voce che «si ascolta dire. La voce è la sua stessa eco»288. Attraverso l’uso di effetti fonici, essa vive nel suo eco: e appare. La voce così ascolta se stessa nel suo farsi. Poiché la phonè è ascolto. Il suono esiste perché ascoltato, esiste per farsi nello spazio, per “uscire fuori”. Bene ha lavorato nell’uso dell’amplificazione sonora per stravolgere il concetto di soggetto. Il play-back dissocia la voce dal corpo e situa la voce dove non v’è il soggetto. Dopo Saussure, Freud, Lacan, non possiamo non sapere che il discorso non appartiene mai all’essere parlante, gli attori invece «van- no lassù e parlano, convinti che il discorso appartenga loro»289. Ciò che egli sostie- ne è che è fondamentale: «Dimettersi come Io parlante. La voce non è il dire, è l’ascolto. C’è un dir la voce, la voce non dice mai qualcosa»290. Non esistono attori

o personaggi, ma corpi attoriali e “situazioni”291, che sono segmenti della partitura, della catena di voci, parole, rumori, sguardi, gesti, movimenti, luci, vestiti. Ciascuno è elemento di un teatro, non più teatro del testo ri-presentato, ma scrittura di scena. La parola è, come scrive Brook, «una piccola parte visibile di una gigantesca co- struzione invisibile»292. Il testo letterario drammatico «ha la medesima importanza che può avere un parco lampade, la musica, un pezzo di legno [...] La scrittura di scena [...] è un levar di scena, un sottrarre, amputare elementi, pezzi dell’opera “originaria”»293. Al termine dei suoi ultimi spettacoli tra il pubblico c’è chi si lamenta del volume sonoro294. Bene scrive: «Avvicino questo foglio al mio naso e qualunque

287 C. Bene e Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit.,p. 339

288 Cosetta G. Saba, Carmelo Bene, Milano, Il Castoro Editore, 1999,p. 22 289 C. Bene e Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit.,p. 334

290ibid.

291 Cosetta G. Saba, Carmelo Bene, cit. p. 21 292 Peter Brook, Lo spazio vuoto, cit., p. 25 293 Cosetta G. Saba, Carmelo Bene, cit., p. 22

leggibilità è sbiancata. Il massimo del blow-up ottico-acustico coincide con il minimo dell’ingrandimento (visibilità-udibilità zero). Ecco l’amplificazione come ri-sonanza. [...] È accecato l’ascolto»295.

Nasce poi con il “Manfred”, nel 1979, la definizione di «voce-orchestra». Gilles Deleuze osserva: «Non è più la voce che si mette a bisbigliare, o a gridare, o a martellare, secondo che esprima questa o quell’emozione, ma il bisbiglio stesso diventa una voce, il grido stesso diventa una voce, mentre al contempo le emozioni corrispondenti (affetti) diventano modi, modi vocali», si tratta di «estrarre dalla voce parlante le potenze musicali di cui è capace, le quali non si confondono con il can- to». Tra canto e musica Carmelo Bene «inserisce il testo divenuto sonoro», conclu- de Deleuze296.

Tutta l’attività teatrale dal 1980 in poi è sempre orientata nel senso e nel modo degli “spettacoli-concerti”. Si osserva la riduzione del numero e del movimento degli atto- ri, il frequente inserimento di musicisti in scena e il prevalere della scrittura musicale e vocale su quella scenica, l’impiego di strumentazione fonica imponente e il sem- pre più costante utilizzo del play-back297. La distanza dal soggetto si fa corpo nella

voce. Da S.A.D.E. Carmelo Bene scrive: «Due microfoni, uno direzionale più in alto e uno panoramico più in basso sono stati sistemati (dal servo) dentro il cerchio d’a- zione dei due amanti: palpiti, salivazione, affanno son così amplificati. Amplificato soprattutto è il cencicarsi della carta di che si compone il vestituccio di lei, nella foga dell’amplesso e il papare febbricitante di lui»298.

La voce, come voce amplificata, è presenza reale, non è voce registrata: la voce registrata è un’ombra. Carmelo Bene299 riuscì a far conoscere al suo pubblico la profondità e il significato di questa voce che è ombra, comprendendo che il mondo è una rete sonora, nella quale è possibile nascondersi e apparire.

295Ivi, p. 340 296Ivi, pp. 354-355

297 Piergiorgio Giacché, Carmelo Bene antropologia di una macchina attoriale, Milano, Bompiani, nota a p. 89

298Ivi, p. 89

299 La figura di Carmelo Bene è trattata con più attenzione, nel capitolo Dalla voce alla parola, dalla parola alla voce.

Capitolo Quinto - Lo spettatore

Ma fra gli sciacalli, le pantere, le cagne, le scimmie, gli scorpioni, gli avvoltoi, i serpenti, i mostri che guaiscono, urlano, grugniscono, strisciano, tutti nel serraglio infame dei nostri vizi, uno ve n’è più orribile, più maligno, più immondo! E se non si agita con grandi gesti, e se non lancia in alto le sue strida, potrebbe fare volentieri della terra una rovina, e il mondo ingoiare in un unico sbadiglio...

Baudelaire, Les fleurs du mal