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L’uso del mito sul palcoscenico.

LA MARATONA IL PRINCIPIO DELLA COMPOSIZIONE

1.15 L’uso del mito sul palcoscenico.

Perdersi è necessario. Capita di perderci in una notizia riportata da un giornale, ascoltando una conversazione, nello sguardo di un passante, in una fotografia: sono racconti. Tutti. Ci perdiamo nel racconto di qualcosa che risveglia la nostra attenzione.

Sappiamo che la prima civiltà orale è una civiltà di racconti. La parola parlata è l’epos (il genere epico era narrato oralmente); mithos è invece la parola sacra, della verità, la parola degli dèi, dei fatti come si sono effettivamente svolti, è la parola che deve essere creduta.

140 La sessione è descritta nell’appendice Diario della mia prima sessione di lavoro. 141 Jurij Alschitz, La matematica dell’attore, cit., p. 94

La voce che si muove sul palcoscenico, la parola messa in scena, è una parola che abita al confine tra fede (fiducia) e illusione. È una parola che a più tratti si avvicina a quella mitica. Vive fondandosi sulla fiducia che in essa si pone. Si potrebbe dire che la parola dell’attore è in questo senso una parola mitica? Si colora della storia umana presente in ogni attore o regista, una storia che è parte del sottotesto, dell’attore. Credo sia utile perciò approfondire il linguaggio mitico in quanto parente e conoscitore della parola teatrale, della vita di una parola sul palcoscenico, questo incontro tra scritto e orale che prende vita nella voce dell’attore. Ecco chiarito il motivo delle parole che seguiranno, di questa breve divagazione sul lavoro del mito. Agli inizi, non essendo capaci di spiegare certi fenomeni, nacque la filosofia, nasce- va dalla meraviglia, poiché l’uomo meravigliato riflette. Si potrebbe infatti considera- re il mito un insieme di cose meravigliose che, in quanto tali, vengono raccontate. Il teatro è il luogo del racconto di tali meraviglie perché lo spettatore meravigliato rifletta sul proprio destino.

Il mito, come si è già scritto, è racconto dato per vero. Secondo Blumenberg, «i miti non rispondono a domande; le rendono indomandabili»143. Il mito racconterebbe delle storie proprio per evitare che siano poste domande, è cioè eludere delle do- mande: il fascino del meraviglioso è quello di far dimenticare a chi ascolta di chie- dere spiegazioni, chi ascolta deve abbandonarsi al racconto. Blumenberg spiega144 che il mito sarebbe ricezione, racconto in divenire. Nasce nella ricezione e la ca- ratteristica principale ne sarebbe la transitorietà, il passare, poiché il mito è in conti- nuo sviluppo, elaborazione del mito stesso, da bocca a bocca. Scrive Jauss: «Un evento come la rivoluzione copernicana diviene realmente ‘epocale’ solo grazie al lavoro storico della sua preparazione e della sua ricezione: fin dall’inizio un mito acquista la sua forza storica grazie al lavoro della sua ricezione, che nega la sua origine e nel continuo “ri-raccontare” arricchisce incessantemente il suo significa- to»145.

Farsi domande è arricchire il significato di un racconto, fare analisi è questo conti- nuo farsi domande. Una buona analisi, teatralmente parlando, può possedere fa-

143 Hans Blumenberg, Elaborazione del mito, a.c. e tr. di Bruno Argenton, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 165

144«Anche i più antichi mitologemi a noi accessibili sono già un prodotto del lavoro sul mito. Questa fase

pre-letteraria dell’elaborazione del mito è stata in parte assorbita nel sistema dei miti, vale a dire: lo stesso

processo di ricezione si è trasformato nell’esposizione della modalità di funzionamento del mito». Cfr. ivi, p.

156.

145 H.R. Jauss, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria, vol.II Domanda e risposta:studi di ermeneuti- ca letteraria, tr.it. di Bruno Argenton, Bologna, Società editrice Il Mulino, 1988, prefazione p.16; nella pagina Jauss sottolinea l’importanza di Blumenberg nel proprio lavoro e che che fu lui a introdurre il concetto di ricezione nella storia della filosofia e della scienza.

coltà magiche. Tutto ciò che scava in profondità acquista magia, poiché ne scopre i dettagli, i segreti.

Sebbene differenti, è certo però che tra linguaggio mitico e linguaggio poetico i contatti siano frequenti e l’accostamento risulti essere giustificato, non soltanto per il peso storico e alla luce di un testo come la Poetica aristotelica, o perché il mate- riale mitico abbia trovato un nido nei generi poetici dell’epica e della tragedia, ma anche per la possibilità di osservare come l’ambiguità, «caratteristica diffusa del linguaggio poetico, e che consiste nella capacità di rimandare il lettore a più conte- sti, provocando una gamma di associazioni differenti, [...] trovi riscontro nella poli- semia del linguaggio mitico»146e, aggiungo, nella ‘policromia’ di una parola in vita sul palcoscenico. Ciò è familiare anche al percorso dell’attore: egli si muove all’in- terno della polisemia del quotidiano e della cultura in cui è maturato; più tale cultura (che rappresenta uno spettro ampio di significati) si allarga, più le possibilità della polisemia si stendono attorno all’attore aprendo nuove porte dell’immaginario. Ogni porta aperta per l’attore è una possibilità in più anche per chi vede che quella porta è socchiusa o spalancata, che dietro quella porta c’è qualcosa. Lo spettatore (lo

spectator) vede e riceve qualcosa.

«Nei riti147 di consacrazione virile e in altre simili usanze di iniziazione l’uomo riceve un nuovo nome, perché è un nuovo io che egli acquista allora»148. Mantenendo il parallelo tra rito e messa in scena, mito e personaggio, uomo ed interprete, anche in scena, l’attore, allo stesso modo, col nuovo nome assume un nuovo io. L’Io dell’attore si confronta con l’Io dello spettatore. «Il mito è esso stesso una di quelle sintesi spirituali per mezzo delle quali soltanto viene resa possibile una connessio- ne fra l’“Io” e il “tu”, per mezzo delle quali si producono fra individuo e comunità una determinata unità e una determinata opposizione, un rapporto di appartenenza e un rapporto di tensione»149. Il mito dovrebbe essere portato nell’intimo dell’attore, all’interno dell’analisi che questi sviluppa su se stesso attraverso il metodo di au- to-preparazione. Il mito diviene questo contatto col divino che è contatto anche con lo spettatore; è un processo del tutto simile a quello descritto da Cassirer, in cui il mito diviene connessione fra l’“Io” e il “tu”, l’individuo e la comunità, e la tensione

146 Ceserani e De Federicis, Il materiale e l’immaginario, Torino, Loescher, 1989, vol.X, p. 83. 147 Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, cit., p. 61

148Ibid.. Cassirer annota che varie testimonianze di ciò si trovano in Brinton, Primitive Religion, p. 86 sgg; James, Primitive Ritual and Belief, London, 1917, p. 16 ss.; van Gennep, Les rites de passage, Paris 1909. 149Ivi, p. 246

che tra loro si crea la potremmo tradurre con quella che Alschitz chiama “verticale del ruolo” (la tensione interna che l’attore deve mantenere in scena).

Sarebbe fuorviante, a questo punto, seguire nei dettagli le proposte che da diversi versanti di ricerca si sono susseguite negli anni sulla natura del mito, sul suo intrec- cio con la religione e con la storia della cultura, ma sia messo in evidenza l’inevita- bilità, per ogni campo, di misurarsi coi problemi sollevati dalla presenza del mito nella vita comune, e i vantaggi che possono venire alla parola dell’attore dall’uso e dalla presenza di questa affascinante ombra.