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CULTURA E STRUTTURE: LO STABILE E L’EFFIMERO

LE POLITICHE CULTURAL

2.2.6 CULTURA E STRUTTURE: LO STABILE E L’EFFIMERO

“Signore e signori, ed ecco a voi…” : dal varietà alla rivista, dalla radio alla televisione, dai teatri alle piazze lo show si regge sulla preparazione, l’attesa, l’annuncio di un evento, di un episodio che trasformi la tranquilla programmazione di una attività finalizzata ad occupare il tempo libero in un momento tutto da vivere, un’occasione particolare, un dono che l’artista fa al pubblico, con potenziale tensione disvelante e trasfigurante.

L’evento può essere o meno all’altezza della situazione, può materialmente concretizzarsi in una sincera emozione o in un effetto sopravvalutato, ma comunque deve esserci, e deve essere regolarmente annunciato.

Ecco che sindaci e assessori alla cultura, sovrintendenti e direttori dei teatri, presidenti delle accademie e art directors dei festival, tutti nella costruzione dei loro programmi o cartelloni o palinsesti o scalette da una cosa non possono assolutamente prescindere: dalla previsione, al centro di tutto, di uno o più eventi. E alcune agenzie di spettacoli hanno assunto il vezzo di scrivere nei loro bigliettini da visita “produzione di eventi”, senza nemmeno sospettare che una dicitura del genere dal punto di vista concettuale è insensata.

Di eventi la storia dello spettacolo è sicuramente piena. Dai gladiatori che venivano divorati dai leoni alle calate del deus ex machina, dall’incendio dell’Urbe di Nerone alla fuga degli spettatori inseguiti dalle immagini di una pionieristica proiezione cinematografica. Ma, per convenzione, l’evento nella politica culturale, ossia l’affermazione dell’effimero nelle città, almeno per quanto riguarda l’Italia, viene fatta risalire a Renato

Nicolini assessore di Roma e alla sua programmazione delle Estati Romane.

Una serie di circostanze concorrono a determinare quell’esperienza e la vera e propria ondata di iniziative locali festaiole all’aperto, tuttora ben lontana dall’esaurirsi. Solo da pochi anni esistono gli assessori alla cultura nei Comuni italiani, distinti dagli assessori alla pubblica istruzione e da quelli al turismo. E solo da pochi anni gli enti locali hanno deciso di investire nella cultura risorse economiche in valori assoluti ancora irrisorie, ma tuttavia ben più consistenti di quando, appena qualche estate prima, le sole voci ricorrenti erano la biblioteca comunale e la festa patronale.

La nascita di un cospicuo numero di giunte di sinistra in tutta la penisola è uno degli elementi che rendono possibile questa evoluzione, considerando soprattutto come l’impegno nella cultura rappresenti storicamente una costante della politica posta in essere dal PCI sin dalla Liberazione, che ha determinato un orientamento a sinistra di larga parte degli operatori culturali in Italia (1).

Non si spiegherebbe però la traduzione della cultura rigorosa e ortodossamente gramsciana del PCI nelle volatili e dispendiose notti dell’effimero, se non si aggiungesse un elemento di “scapigliatura”, dato da quell’arcipelago frastagliato e tumultuoso, ricco e ardimentoso, che sono le culture giovanili, il Sessantotto e il Settantasette, il Beat e l’anarco- pacifismo degli Hippyes, il Rock. Le notti sotto le stelle, i festival della musica e del teatro, persino le Feste dell’Unità hanno rappresentato, anzi, l’unico spazio di dialogo, la sola oggettiva opportunità di interazione, seppure faticosa e gravida di incomprensioni e contraddizioni, fra il mondo del grande partito operaio e la “nuova sinistra”.

Le “Estati Romane” organizzate dall’assessore Nicolini miscelano culture straniere e cieli stellati, schermi cinematografici all’aperto e fiaschi di vino,

Che riguarda le arti e i linguaggi, ma non soltanto. Attiene soprattutto alla città. Prendere necropoli e discariche e trasformarle in spazi per il cinema o per la musica, cambiare – provvisoriamente ed eccezionalmente – la destinazione di determinati spazi, magari quelli del lavoro o del mercato, per ripensarli straordinariamente come luoghi dell’incontro e della socializzazione, della creatività e del rito collettivo della festa, è operazione che evidentemente trascende l’organizzazione dello spettacolo, e concerne la cultura nel senso più alto, come rapporto di ciascuno coi suoi simili, con lo spazio e col tempo. E può aiutarci a capire cosa dobbiamo intendere per “evento” nell’ambito delle politiche culturali. Ma bisogna sgombrare il campo da tanta confusione, perché in questo settore la parola è usata spesso in modo improprio.

In alcuni paesi viene ricordato come un evento il concerto che Domenico Modugno, o Claudio Villa, vi tenne quarant’anni fa. C’è chi ha conservato le foto in bianco e nero del concerto, e qualche assessore alla cultura ha anche organizzato una piccola mostra rievocativa, con le foto e i ritagli dei giornali dell’epoca. Ora, che un bravo cantante tenga un concerto non può certo essere considerato un fatto straordinario. Ma, in uno spazio e un tempo “lontani”, in cui la tv non c’è affatto o ha soltanto un canale in bianco e nero, in cui i treni sono rari e lenti e la grande città dista sette-otto ore di viaggio, il concerto di un cantante famoso riveste le caratteristiche della straordinarietà. Dal punto di vista, ovviamente, di chi vi assiste, che sa che gli è capitata un’occasione che non gli capiterà mai più, che la ricorderà e la racconterà per anni, e che ne custodirà la foto scattata o l’autografo conquistato come un cimelio. Così come l’arrivo, secoli fa, dei saltimbanchi della commedia dell’arte al villaggio costituiva un evento: non per lo spettacolo in sé, perché i gesti che compivano erano sempre gli stessi, le frasi che pronunciavano erano stereotipate improvvisazioni su canovacci mandati a memoria; ma il loro passaggio, il complesso di

informazioni volontarie e involontarie che portavano con sé, e di “influenze” che esercitavano laddove sostavano, rappresentava una rara opportunità culturale, capace di mettere in comunicazione mondi lontani e di stimolare cambiamenti.

D’altra parte, in questi anni, si registra un consistente aumento di iniziative. Gli enti locali, e di recente con generosità di mezzi alcune Regioni, spendono somme considerevoli per portare nelle città i “grandi eventi”. Ora, organizzare un concerto di Renato Zero è un evento? Lo è, per caso, a Catanzaro piuttosto che a Mantova? O, magari, è evento un concerto di Bob Dylan, o di Paul Mc Cartney?

In base alla lucida analisi di Derrida, si ha evento quando si è in presenza di due elementi: la non prevedibilità di quanto accade, e la capacità dell’accaduto di determinare un cambiamento (2).

Questa impostazione è applicabile alla categoria delle politiche culturali? Cozza il requisito della non-prevedibilità con un settore che ha nella sua natura proprio un organizzare, e nelle sue ambizioni un prevedere?

I concerti rock rappresentano forse la forma di spettacolo più originale e interessante che è emersa negli ultimi decenni. Sono in grado di muovere grandi masse di persone, di fungere da occasione di raduno per generazioni che vi si ritrovano e vi si identificano a prescindere da ogni loro connotazione territoriale. Stimolano emozioni forti, incarnano meglio di ogni altra manifestazione l’immaginario collettivo della popolazione che vi si specchia e vi si rappresenta. Determinano le parole d’ordine, inventano o ufficializzano le mode e i fermenti, sono oggettivamente anche significativi “fatti politici”.

Se consideriamo però i libri che provano a tracciare la storia del rock, o articoli e lettere che possono testimoniare di quel “sapere collettivo”, di quel tam-tam che grosso ruolo ha nel testimoniare il coagularsi di questa

di per sé, che non è la presenza del grosso nome, del beniamino del pubblico, nemmeno se in un luogo fortemente decentrato, a determinare l’evento. Quel che è rimasto indelebilmente impresso è Jimi Hendrix che, inaspettatamente, prende la chitarra, la gira dall’altra parte e comincia a suonarla con la bocca, coi denti. O il musicista che prende la chitarra e la spacca contro gli amplificatori, lasciando all’elettronica il lamento della chitarra che muore. O il musicista che mentre suona esibisce il pene e comincia a masturbarsi. O la cantante che improvvisa col microfono un coito orale.

In tal senso credo che la condizione di Derrida sia soddisfatta. Perché prevedibile è l’organizzazione del concerto, della manifestazione spettacolare: imprevedibile è ciò che quel concerto, per una interazione incontrollabile e magica della tensione energetica che intercorre fra l’artista-sacerdote e il suo pubblico, fa accadere.

E anche la seconda condizione di Derrida è soddisfatta: quei concerti, quegli artisti, quelle date sono rimasti impressi nell’immaginario collettivo proprio perché hanno aperto visioni delle cose completamente nuove, sia pure nelle accezioni chiaroscurali, ambigue e contaminate proprie dell’universo di pensiero cui fa riferimento il rock.

In altri casi la straordinarietà dell’accadimento, e la sua valenza fondativa di una percezione delle cose cambiata, non è data da quello che fa l’artista- sacerdote, ma da quello che fanno insieme i partecipanti al rito. È il caso dei raduni rock. Non di tutti, però, perché è evidente che nelle ripetizioni la natura di evento si perde. Ma sicuramente al primo festival di Woodstock, o a quello leggendario dell’isola di Wight. In questi casi la compresenza di grandi protagonisti della musica rock è valso più che altro da pretesto, da elemento catalizzatore. Ma l’evento è stato determinato dal ritrovarsi insieme di decine di migliaia di giovani in maniera del tutto nuova e diversa rispetto a prima, sì che potrebbe parlarsi di decine di migliaia di

percorsi di formazione che si compiono tutti insieme, simultaneamente e in pochi giorni. E la “rivoluzione sessuale”, breve e fugace quanto devastante e sconcertante di quella stagione, nasce da lì, dai grandi raduni giovanili(3).

Evento è stato, per tornare alle invenzioni di Nicolini, soprattutto il festival dei poeti di Castelporziano. Che non a caso è completamente sfuggito di mano agli organizzatori, ed è vissuto di una caotica bizzarra autogestione fra indiani metropolitani e poeti della domenica, fra nudisti e bluesmen, fra

mantra e minestroni. Gli organizzatori hanno gridato allo scandalo, il

programma è completamente saltato, alcuni poeti sono scappati terrorizzati: ma è per tutto questo che di Castelporziano ventotto anni dopo si parla ancora, mentre in genere le letture di poesia stentano a conquistare un trafiletto fra l’oroscopo e i programmi televisivi. Lungo quei sentieri perigliosi si poteva lavorare, e invece negli anni successivi purtroppo si è abbandonato il terreno allo scontro fra lotta armata e leggi repressive. Eventi erano alcuni anti-spettacoli del Living Theater. Come le “Sette meditazioni sul sado-masochismo politico”. Gli spettatori, dopo sapienti drammatizzazioni del vivere quotidiano all’interno di meccanismi sociali frustranti ed alienati, venivano stimolati a un partecipare attivo. Che talora si è concretizzato nel tagliuzzarsi e scaraventare le proprie gocce di sangue contro i luoghi-simbolo del potere, all’interno di un percorso nella città. In tal caso, neanche la ripetizione dello spettacolo ostava alla valenza di accadimento: perché lo spettatore-attore che si tagliava e lanciava il suo sangue, “lo faceva per sé”, compiva un percorso simbolico e maturava una presa di coscienza, istantanea ma fondativa. E valore uguale, seppur di segno stavolta solare, aveva una performance che talora il Living portava nelle città: il “corpo d’amore”, in cui si creava un groviglio di corpi che si toccavano, si accarezzavano, si respingevano, si annusavano, si

volta, di una esperienza fondativa: dopo, i singoli membri che avevano provato l’esperienza dell’Essere Uno, sarebbero stati segnati e condizionati da quella forte emozione.

Eventi sono stati, almeno in due casi, i concerti dei Pink Floyd. Anche se è bene fare una precisazione. Negli ultimi anni, attorno a conclamati e quotati gruppi rock, sono sorte delle macchine organizzative che producono degli spettacoli estremamente sofisticati, assai complessi e molto costosi. Talora portatori di innovazioni tecnologiche considerevoli. Dai Rolling Stones agli U2, da Peter Gabriel a David Bowie. Con risultati spettacolari spesso assai godibili. Ma non per questo, affatto, eventi: semplicemente macchine organizzative collaudate, tecniche spettacolari funzionanti. Quando i Pink Floyd hanno suonato la loro musica nelle rovine di Pompei, invece, le sonorità visionarie e tormentate di

Ummagumma, contestualizzate in uno spazio della storia che celebra una

saggezza e una vitalità definitivamente perdute, sono diventate un’entità “terza”, una dimensione, una percezione del tutto nuove. Quel concerto è stato un evento, su un piano intimo, della visione e della bellezza. Mentre evento su un piano pubblico, socio-politico, è stato il concerto di Roger Waters, ormai orfano dei Pink Floyd, nel 1989 davanti al muro di Berlino, ad eseguire “The Wall”. Quelle musiche concepite proprio per scardinare i muri della mente, eseguite davanti all’emblema storico di quelle ottuse chiusure, spingevano gli spettatori, alla fine del concerto, a scagliarsi contro il Muro, a compiere dei gesti simbolici di ribellione, di scardinamento. I tempi erano maturi, e presto la politica avrebbe abbattuto quel simbolo dell’ottundimento; ma su un piano simbolico decine di migliaia di giovani lo avevano già buttato giù, per sempre, per via di un concerto.

In casi del genere una manifestazione di spettacolo assume una valenza assai più rilevante che quella di mera iniziativa per il tempo libero: diventa

per un verso una forte opportunità per cogliere tratti e aspetti considerevoli di grandi gruppi di persone in un determinato tempo; per un altro una maniera incisiva ed emozionante attraverso cui quel gruppo o quella moltitudine si esprime, comunica sentimenti che avverte in maniera intensa, sviluppa azioni simboliche capaci di segnare un rimarchevole significato politico.

Note

1: si veda avanti, 2.3.2.

2: cfr. G. Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Habermas e Derrida, Bari, 2003, p. 93 ss.